
17 giugno 2025
a cura di Valentina Chieppa
Nel delicato equilibrio tra rigore formale e logica del risultato, il diritto amministrativo si trova oggi sempre più orientato verso un approccio sostanzialistico tendente a sminuire la rilevanza dei meri errori formali.
Un chiaro segnale in questa direzione arriva dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 1620 del 25 febbraio 2025. Con tale sentenza è stato affermato che l’eventuale presenza di vizi formali in un’offerta non è, di per sé, causa di esclusione automatica dalla gara. Infatti, nel caso in questione il Consiglio di Stato ha confermato l’aggiudicazione di una gara d’appalto a favore di un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI), nonostante la società mandante non avesse sottoscritto l’offerta tecnica.
Nello specifico, una centrale unica di committenza tra più comuni ha aggiudicato una gara per l’affidamento di lavori per interventi di adeguamento di edifici scolastici al costituendo RTI Devi s.r.l. – Falbo s.r.l..
La gara è stata aggiudicata nonostante alcune irregolarità formali, quali la mancata registrazione alla gara come RTI (l’aggiudicataria si era registrata come operatore singolo) e l’assenza della firma della mandante sull’offerta tecnica.
L’ATI De Marco Costruzioni ha impugnato l’aggiudicazione, sostenendo che l’offerta tecnica non era stata sottoscritta, né in alcun modo risultava riferibile alla mandante Falbo s.r.l., mentre l’offerta economica, sebbene firmata dalla Falbo s.r.l., era intestata esclusivamente alla Devi s.r.l.
Il TAR Calabria ha respinto il ricorso, ritenendo che tali vizi non fossero tali da compromettere la validità della partecipazione.
Il Consiglio di Stato ha confermato questa decisione, valorizzando la chiara volontà delle imprese di partecipare congiuntamente e la concreta riferibilità dell’offerta al raggruppamento.
E’ stato valorizzato il fatto che gran parte dei documenti di gara (tra cui, la domanda di partecipazione, il D.G.U.E., l’impegno a costituire l’ATI, la dichiarazione di sopralluogo e la polizza fideiussoria) affermavano chiaramente che la Devi s.r.l. partecipava alla gara quale mandataria nel costituendo raggruppamento con la Falbo s.r.l..
Non vi era, quindi, alcun dubbio sulla volontà dell’impresa di partecipare come raggruppamento e non come impresa singola.
Tali evidenze hanno portato ad escludere la rilevanza dei due menzionati errori senza neanche la necessità di ricorrere all’istituto del soccorso istruttorio.
Nel farlo, il Consiglio ha applicato una lettura sostanzialistica della lex specialis, intendendo che le regole di gara non devono essere interpretate in modo rigido e formalistico, ma piuttosto valutando la sostanza degli atti e dei comportamenti concretamente tenuti dagli operatori economici.
Nonostante la pluralità di anomalie evidenziate, i giudici non hanno ravvisato gli estremi per un’esclusione, qualificando dette anomalie come irregolarità formali. La motivazione poggia su un principio chiave del nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 36/2023): il principio del risultato (art. 1), che impone alla pubblica amministrazione di orientare le proprie decisioni verso il concreto conseguimento dell’interesse pubblico, evitando rigidità procedurali che possano compromettere l’efficienza della gara.
In tale prospettiva, anche la Sezione V del Consiglio di Stato ha valorizzato la capacità dell’offerta di essere comunque imputabile al soggetto proponente e ha ritenuto che il rispetto sostanziale delle regole, pur in presenza di irregolarità formali, potesse prevalere sul formalismo. Dunque ciò che si evince è che un errore formale, se non compromette la trasparenza, la concorrenza o la serietà dell’offerta, non può giustificare l’esclusione di un operatore economico.
Ciò che rende particolarmente significativa la pronuncia è il fatto che le conclusioni raggiunte dai giudici si fondano proprio sul principio del risultato, che rappresenta l’asse portante del ragionamento logico seguito nella motivazione.
Tale principio non si limita a promuovere l’efficienza della PA, ma richiede di assicurare il raggiungimento dell’obiettivo finale. Quest’ultimo, nella fase di affidamento è costituito dalla stipulazione del contratto nel modo più rapido e corretto, e nella fase di esecuzionedallarealizzazione dell’intervento pubblico nei tempi programmati e in modo tecnicamente perfetto.
La logica è chiara: le procedure di gara sono uno mero strumento per selezionare l’operatore economico più idoneo all’aggiudicazione dell’appalto. Esse non rappresentano il fine ultimo della disciplina dei contratti pubblici. Di conseguenza, eventuali irregolarità devono essere valutate in concreto, verificando se incidono realmente sull’equilibrio competitivo o sul corretto svolgimento della gara.
Pertanto, in presenza di un “contrasto tra il dato formale del pedissequo rispetto del disciplinare di gara e il dato sostanziale della sussistenza dei requisiti in capo all’aggiudicataria, occorre privilegiare il dato sostanziale, ossia il risultato utile, perseguito dalla stazione appaltante di avere selezionato l’operatore economico ritenuto più idoneo all’esecuzione dell’appalto”.
Anche se la gara risultava disciplinata dal “vecchio” codice (d.lgs. 50/2016), il Consiglio di Stato ha comunque ritenuto di applicare il principio del risultato disciplinato dal d.lgs. n. 36 del 2023. Quest’ultimo è infatti considerato come un criterio guida trasversale e fondamentale per valutare la legittimità delle procedure di gara, rendendolo dunque un principio immanente al settore della contrattualistica pubblica.
Una delle considerazioni più interessanti sul principio del risultato riguarda il suo rapporto con il principio di legalità amministrativa. La legalità amministrativa è stata spesso interpretata come mera legittimità formale degli atti. Ciò implica, nell’interpretazione più rigida, l’osservanza pedissequa del contenuto delle norme giuridiche, a prescindere dalla logica e dagli obiettivi del testo normativo. Pur essenziale per garantire l’imparzialità e la trasparenza delle procedure, questa concezione ha spesso irrigidito l’azione amministrativa, producendo palesi effetti irrazionali o comunque insoddisfacenti. La logica di fondo dell’art. 1 del D.Lgs. n. 36/2023 è, invece, diversa: nei contratti pubblici la mera violazione delle forme giuridiche non determina di per sé l’invalidità degli atti se non accompagnata da un concreto effetto sulla qualità dell’offerta e sulla par condicio dei partecipanti delle gare.
In questa prospettiva, il principio di legalità non è abbandonato né pretermesso, ma diventa funzionale a perseguire i principali scopi della normativa: selezionare il miglior offerente, concludere la gara in tempi certi, avviare ed eseguire il contratto in modo efficiente. Ne deriva una sorta di “legalità finalistica”, in cui le regole, specie quelle formali, sono appunto strumentali al raggiungimento del risultato.
Lo stesso principio del risultato costituisce criterio prioritario per l’esercizio della discrezionalità amministrativa, al fine di garantire l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa (principi già contenuti nell’art. 1 della legge n. 241 del 1990 e ora attuati nel settore dei contratti pubblici dal principio del risultato).
Ciò determinerà una trasformazione paradigmatica anche per il giudice amministrativo, che dovrà valutare sia la legittimità “formale” di un atto amministrativo, sia la sua coerenza con il fine ultimo perseguito dal procedimento e con il risultato da raggiungere, che diventa quindi esso stesso parametro di legittimità degli atti amministrativi.