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BIOLOGICO E CONCORRENZA LEALE: LA CORTE DI GIUSTIZIA SULL’USO DEL LOGO UE NEI PRODOTTI IMPORTATI

29 aprile 2025

a cura di Agnese Trani

Il regolamento (UE) 2018/848, che ha abrogato e sostituito il regolamento (CE) 834/2007, detta la disciplina relativa alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici.

La normativa è terreno di una significativa pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 4 Ottobre 2024 (causa C-240/23), destinata a rappresentare un punto di svolta nel regime giuridico applicabile al commercio dei prodotti biologici tra l’Unione europea e i paesi terzi. La sentenza si colloca nel più ampio dibattito relativo al regime normativo applicabile ai prodotti biologici importati nell’Unione, con particolare riferimento all’utilizzo del logo di produzione biologica dell’UE e dei termini riconducibili al biologico – quali “bio” ed “eco”- da parte degli operatori economici di paesi extra-UE nell’ambito del sistema di equivalenza regolamentare.

La sentenza trae origine da una controversia promossa dall’azienda tedesca Herbaria Kräuterparadies GmbH, produttrice di una bevanda costituita da una miscela di frutta ed estratti di erbe, provenienti da agricoltura biologica. Il prodotto, commercializzato come integratore alimentare, era arricchito con vitamine e gluconato ferroso. L’etichettatura riportava, oltre a riferimenti alla produzione biologica, anche il logo di produzione biologica dell’Unione europea. La Bayerische Landesanstalt für Landwirtschaft (Ente regionale per l’agricoltura del Land Baviera, Germania) ordinava alla Herbaria di rimuovere dall’etichettatura, dalla pubblicità e dai documenti commerciali il riferimento alla produzione biologica. Secondo l’autorità tedesca, la bevanda non rispettava i requisiti previsti dal regolamento (CE) n. 834/2007, allora in vigore, in quanto prevedeva che vitamine e sostanze minerali potevano essere aggiunte a prodotti trasformati solo se il loro impiego era previsto per legge; circostanza che, nel caso di specie, non risultava sussistere.

Nel frattempo si è assistito ad una variazione del quadro normativo: con l’entrata in vigore del regolamento (UE) 2018/848, che sostituisce la normativa del 2007, è stato introdotto un regime più rigoroso che riserva l’uso del logo UE ai soli prodotti pienamente conformi alla normativa europea.

Nel corso del giudizio dinanzi al Bundesverwaltungsgericht (Corte amministrativa federale tedesca), il giudice del rinvio ha sollevato una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla base del meccanismo previsto all’art. 267 TFUE. La Herbaria sostiene, infatti, che il trattamento riservato al proprio prodotto risulterebbe discriminatorio rispetto a quanto previsto per prodotti analoghi, importati dagli Stati Uniti. Rileva, in particolare, che in virtù di un accordo di equivalenza concluso nel 2012 tra la Commissione europea ed il Ministero dell’agricoltura statunitense, il paese è inserito nell’elenco dei paesi terzi i cui regimi di produzione biologica sono riconosciuti come “equivalenti”, ai sensi dell’art. 33 del regolamento (CE) n. 834/2007.

Tale regime di equivalenza ha trovato continuità normativa nel nuovo regolamento (UE) 2018/848, che prevede la possibilità per i prodotti importati da paesi terzi, riconosciuti come equivalenti, di essere immessi nel mercato dell’Unione con la qualifica di prodotti biologici. Secondo Herbaria tale previsione comporta che un prodotto alimentare, fabbricato in violazione delle regole europee relative ai prodotti biologici ma in linea con le normative del paese d’origine, possa essere commercializzato nell’UE come prodotto biologico, recando i rispettivi riferimenti terminologici e addirittura il logo di produzione biologica dell’Unione europea.

A detta della ricorrente  la rimozione del logo “bio” si tradurrebbe in un trattamento deteriore a svantaggio degli operatori economici europei, i cui prodotti sono sottoposti a requisiti più stringenti; ciò in violazione della parità di trattamento sancita all’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La Corte è dunque chiamata a chiarire se gli artt. 30 e 33 del regolamento (UE) 2018/848 – recanti rispettivamente disposizioni relative all’etichettatura dei prodotti biologici e all’utilizzo del certificato di produzione biologica dell’Unione europea – consentano l’apposizione di tali riferimenti su un alimento trasformato importato da paese terzo considerato ‘equivalente’ ma che viola le disposizioni del regolamento (UE) 2018/848. Si chiede, inoltre, alla Corte se possa derivare da una siffatta applicazione della disciplina una violazione della parità di trattamento. In subordine, si interroga sulla possibilità di utilizzare, in alternativa, il logo biologico del paese terzo e riferimenti testuali alla produzione biologica secondo le norme dello Stato d’origine.

La Corte ha innanzitutto osservato che, in base alla formulazione letterale degli artt. 30 e 33 del regolamento, l’uso dei termini quali “biologico”, “bio” ed “eco”, nonché del logo di produzione biologica dell’Unione, è autorizzato esclusivamente per i prodotti conformi alle disposizioni del regolamento, a prescindere dalla loro origine, comunitaria o meno. Successivamente la Corte ha ricostruito la distinzione regolamentare tra: i) prodotti provenienti da paesi membri per i quali si applica l’intera normativa regolamentare; ii) prodotti provenienti da paesi terzi, per i quali l’articolo 45 stabilisce condizioni alternative per l’immissione sul mercato. Tra queste condizioni, la Corte ha sottolineato come solo la fattispecie sub i) dell’art. 45, paragrafo 1, lettera b) – prodotto conforme integralmente alla normativa europea – richieda il rispetto puntuale delle disposizioni contenute nel regolamento. Al contrario, nelle ipotesi sub ii) e iii)  (rispettivamente, prodotti conformi per accordo bilaterale e prodotti conformi per regime di equivalenza), si ammette l’ingresso nel mercato dell’Unione di prodotti conformi alle norme del paese terzo, purché riconosciute come ‘equivalenti’. L’equivalenza è definita all’art. 3 del regolamento (UE) 2018/848 come il riconoscimento di norme che, pur non identiche a quelle europee, realizzano gli stessi obiettivi e garantiscono un livello di affidabilità comparabile.

La Corte, nonostante il regolamento ammetta la commercializzazione dei prodotti considerati ‘equivalenti’, ha affermato che l’utilizzo del logo di produzione biologica dell’Unione europea e dei termini riferiti alla produzione biologica resta riservato ai soli prodotti pienamente conformi al regolamento europeo. Un’interpretazione diversa, a detta della Corte, non trova fondamento né nel testo normativo, né nei suoi obiettivi. In particolare, i giudici di Lussemburgo richiamano le disposizioni iniziali del regolamento che mirano a garantire le condizioni di concorrenza leale nel mercato dell’Unione e a rafforzare la fiducia dei consumatori nei prodotti etichettati come biologici.

Ammettere l’utilizzo del logo biologico UE e diciture simili anche per prodotti non pienamente conformi alla disciplina europea comporterebbe una chiara violazione di tali obiettivi; da un lato, creerebbe una distorsione della concorrenza leale, dall’altro indurrebbe in errore i consumatori.

La Corte, sulla base di queste motivazioni, enuncia in forma di massima, che né il logo di produzione biologica dell’Unione europea né, in linea di principio, termini che fanno riferimento alla produzione biologica possono essere utilizzati per alimenti trasformati che non rispettino le condizioni di produzione previste dal regolamento (UE) 2018/848.

La Corte evidenzia, con il chiaro intento di non svuotare di significato le norme regolamentari relative alle condizioni di equivalenza, come l’apposizione a siffatti prodotti del logo di produzione biologica del paese da cui sono importati non è in grado di nuocere alla concorrenza leale o di creare ambiguità che possano indurre in errore i consumatori. Ne deriva che tali prodotti devono poter utilizzare il logo d’origine, anche qualora tale attestato contenga termini identici a quelli riferiti alla produzione biologica europea.

L’Organic Processing and Trade Association (OPTA), che rappresenta l’industria della trasformazione e del commercio dei prodotti biologici nel contesto euro-unitario, ha affermato, in un recente parere, che tale pronuncia potrebbe avere “conseguenze di vasta portata per il commercio dei prodotti biologici dell’Unione”. L’OPTA sottolinea come il principio di diritto affermato dai giudici di Lussemburgo, se da un lato rafforza la coerenza del sistema normativo dell’Unione, dall’altro provoca profonde incertezze sulla tenuta futura del regime di equivalenza (sono ad oggi in corso negoziati in tal senso con 13 diversi paesi). La Commissione europea avrebbe dovuto esprimersi nei primi mesi del 2025 in merito alle possibili interpretazioni applicative della sentenza. In attesa dell’opera interpretativa della Commissione si discute sui possibili scenari che potrebbero derivarne, che spaziano dalla limitazione dell’uso del logo UE ai soli prodotti arricchiti, fino ad una più ampia revisione del regime di etichettatura per tutti i prodotti biologici importati. 

Il principio di concorrenza leale evocato dalla CGUE assume così una duplice valenza: garanzia di condizioni paritarie nel mercato interno e, allo stesso tempo, elemento critico nelle relazioni commerciali bilaterali. L’OPTA non nasconde perplessità sugli effetti negativi che potrebbero derivarne: se tale sentenza avesse l’effetto domino della caduta degli accordi di equivalenza, le aziende, sia europee che extraeuropee, si troverebbero a dover sopportare costi e oneri di certificazione, che non solo comporterebbero un aumento dei prezzi del biologico, ma anche un’espansione della già alta differenza di prezzo tra prodotti biologici e convenzionali, a danno del mercato in generale. Ne sarebbe effetto conseguente un ulteriore ostacolo alla convergenza internazionale degli standard biologici così scalfendo l’obiettivo del Green Deal di collaborazione con partner internazionali per migliorare gli standard ambientali a livello globale.

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