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I TERMINI DEI PROCEDIMENTI DELLE AUTORITÀ INDIPENDENTI: LE NOVITÀ TRA CGUE E CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI

17 marzo 2025

a cura di Carlo Maria Fenucciu

Il recente panorama giurisprudenziale presenta alcune novità in materia di termini procedimentali presso le autorità amministrative indipendenti, evidenziando una tensione tra la tutela della certezza dei tempi e le esigenze di flessibilità. In particolare, meritano di essere affrontate due questioni, inerenti rispettivamente ai termini della fase pre-istruttoria e a quelli della fase istruttoria. 

In merito alla prima, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata il 30 gennaio 2025 sulla causa C-511/2023, dichiarando inapplicabile alla fase pre-istruttoria dei procedimenti antitrust il termine di 90 giorni di cui alla legge 689/1981. La decisione della Corte eurounitaria risponde all’ordinanza 12962 del 1° agosto 2023 con cui il T.A.R. Lazio ha sollevato una questione pregiudiziale interpretativa ai sensi dell’art. 267 TFUE, nell’ambito del giudizio d’impugnazione del provvedimento emesso dall’AGCM ai danni di Caronte & Tourist s.p.a. La società aveva, secondo l’istruttoria, abusato della propria posizione dominante, imponendo prezzi iniqui per il servizio di traghettamento di veicoli nello stretto di Messina, violando l’art. 3, co. 1, lett. a) della legge antitrust, che attua l’art. 102 TFUE. Analogo quesito, peraltro, era stato già sollecitato da due ulteriori ordinanze (T.A.R. Lazio 2 agosto 2023, n. 13016 e Consiglio di Stato 9 luglio 2024, n. 6057), nell’ambito di due procedimenti per pratiche commerciali scorrette e intese restrittive della concorrenza, ma la Corte non ha riunito i tre giudizi.

Ai fini dell’analisi della pronuncia della CGUE, pare opportuno muovere dal quadro normativo.

Innanzitutto, si deve rammentare che le sanzioni antitrust del tipo impugnato sono formalmente amministrative ma sostanzialmente penali, come riconosciuto prima dalla Corte EDU in ossequio i noti criteri “Engel”, e in seguito dalla Corte costituzionale. Pertanto, sebbene non s’intenda soffermarsi su tale aspetto, per effetto della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale vengono in rilievo le medesime garanzie procedimentali e sostanziali che ispirano il diritto penale, ancorché modellate su di un procedimento che presuppone un successivo controllo giurisdizionale.

Inoltre, la Corte costituzionale, seppur nel quadro di una pronuncia di inammissibilità, ha sottolineato che nel peculiare settore del diritto amministrativo sanzionatorio è fondamentale l’esigenza di certezza dei tempi del procedimento (Corte cost., 12 luglio 2021, n. 151). Egualmente, la CGUE ha a più riprese richiesto che i procedimenti presso le autorità antitrust si svolgano in tempi ragionevoli, pregiudicandosi altrimenti la certezza del diritto, nonché il diritto di difesa delle imprese interessate.

Muovendo dunque verso la questione sub iudice, si deve rammentare che il procedimento presso l’AGCM – come i procedimenti sanzionatori in generale – è scandito in due fasi: la prima – pre-istruttoria – è deputata all’accertamento della violazione e si conclude con la sua contestazione al trasgressore; la seconda – istruttoria –  è finalizzata alla decisione dell’autorità competente, contempla l’esercizio del diritto di difesa dell’interessato (mediante presentazione di scritti difensivi e documenti nonché audizione, se richiesta) e si conclude con l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione oppure con un provvedimento motivato di archiviazione.

La questione sub iudice riguarda la fase pre-istruttoria in relazione alla quale né la legge antitrust né il regolamento di attuazione di cui al d.p.R. 30 aprile 1998, n. 217 fissano un termine tra l’accertamento di un illecito e la notifica della fase istruttoria. L’assenza di termini è colmata tramite il rinvio fissato dall’art. 31, l. 287/1990 alla legge generale in materia di sanzioni amministrative, ossia la l. 689/1981, che, all’art. 14, co. 2 fissa, per la contestazione della violazione al trasgressore, un termine di 90 giorni dall’accertamento.

Così, dal momento in cui l’Autorità entra in possesso delle informazioni necessarie a muovere l’addebito, si può dire che l’illecito sia stato “accertato” ed iniziano a decorrere i 90 giorni previsti dall’art. 14, co. 2, l. 689/1981.

Risulta dunque una nozione “sostanziale” e non meramente formale di accertamento, sicché il dies a quo non è individuabile ex ante in maniera inequivocabile, essendo sempre dipendente dalla completezza degli elementi indicati nella segnalazione, ovvero dagli atti acquisiti immediatamente dopo. Ne consegue che l’esatta decorrenza del termine può essere oggetto di controllo da parte del giudice amministrativo, il quale può “retrodatarlo” quando risulta che l’Autorità fosse già da tempo in possesso di tutte le informazioni necessarie a contestare l’illecito (Cons. St. 21 gennaio 2020, n. 512). Peraltro, è interessante rilevare che analoga problematica si è riscontrata anche in materia penale, dove pure parte della giurisprudenza giunse ad affermare, muovendo dal valore garantistico dei tempi massimi per la conclusione delle indagini, che il giudice può verificare, alla stregua di criteri di tipo sostanziale, il vero dies a quo delle indagini preliminari a carico dell’imputato, a prescindere dalla formale iscrizione della notizia di reato nel registro. La questione è stata risolta definitivamente con l’introduzione dell’art. 335-quater c.p.p., che disciplina un procedimento per ottenere la retrodatazione dell’iscrizione nel registro degli indagati.

Dalla violazione del termine di 90 giorni per la contestazione dell’illecito scaturiscono, poi, conseguenze di non poco conto: la legittimità del provvedimento eventualmente adottato è definitivamente compromessa; indagini ulteriori sono precluse per effetto del ne bis in idem sancito all’art 50 CDFUE – che, si ricorda, ha lo stesso valore giuridico dei trattati ai sensi dell’art. 6 TUE, per come modificato dai Trattati di Lisbona.

Chiarito il quadro nazionale, il tribunale amministrativo chiede alla CGUE se il termine di 90 giorni risulti compatibile con il diritto eurounitario (che, si ripete, richiede che il termine sia semplicemente “ragionevole”) oppure comprima eccessivamente le possibilità di condurre indagini complesse.

La Corte di Giustizia, come anticipato, conclude per l’incompatibilità eurounitaria del termine. In particolare, si muove dalla constatazione che l’assenza di una disciplina unica per i termini dei procedimenti antitrust comporta l’applicazione delle discipline nazionali. Cionondimeno, l’autonomia procedurale deve essere esercitata, come è noto, nel rispetto del principio di effettività, per cui gli Stati non possono rendere impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del 101 e 102 TFUE. A questo punto, la Corte evidenzia due ordini di circostanze che determinano l’eccessiva esiguità del termine.

Innanzitutto, in materia di diritto della concorrenza le analisi da espletare sono di speciale complessità, pertanto il termine deve essere sufficiente a garantirne il corretto svolgimento, pur non giustificandosi in alcun caso la perdurante e immotivata inattività da parte dell’autorità.

Inoltre, è necessario che l’autorità abbia il potere di fissare le proprie priorità e dunque l’ordine con cui trattare le questioni, senza essere costretta ad avviare la fase istruttoria in contraddittorio a pena di decadenza; esigenza, questa, discendente dagli artt. 101 ss. TFUE, ma cristallizzata altresì all’art. 4, co. 5 della direttiva (UE) 2019/1. La direttiva poi, definisce la “rete europea della concorrenza”, nell’ambito della quale è incoraggiata la cooperazione ai fini dell’attuazione degli artt. 101 e 102 TFUE. In tale quadro, un termine breve e improrogabile potrebbe inibire un’effettiva ed efficiente collaborazione tra autorità che seguono procedure collegate ma non del tutto contemporaneamente.

I giudici di Lussemburgo su queste basi motivano l’insufficienza del termine di 90 giorni rispetto agli obiettivi posti dagli artt. 101 e 102 TFUE. La pronuncia, tuttavia, lascia aperte tutte le problematiche conseguenti alla disapplicazione del termine e merita di essere commentata su alcuni profili.

Segnatamente, non pare del tutto lineare il frammento di motivazione inerente alla tutela del diritto di difesa degli indagati. In effetti, la Corte in un primo momento indica che il pregiudizio derivante dal protrarsi delle indagini senza un formale avvio dell’istruttoria consiste nella possibile sopravvenuta difficoltà di recuperare o irreperibilità di documenti che risalgono ad un periodo lontano nel tempo (par. 64). Eppure, in seguito, nella decisione si smentisce il vulnus al diritto di difesa, sulla base della conduzione della fase istruttoria in contraddittorio (par. 72). A ben vedere, suddetta argomentazione non è coerente con l’obiezione, in quanto non si era mai dubitato dell’assunzione dei mezzi di prova in contraddittorio, ma solo del vantaggio strategico derivante dalla prolungata espletazione d’indagini all’insaputa dell’impresa. 

Pertanto, sembra che nei fatti a tale obiezione non si sia trovata risposta, reputando semplicemente il diritto di difesa soccombente in parte qua rispetto all’interesse pubblico alla repressione degli illeciti anticoncorrenziali. Ne segue, dunque, una situazione d’incertezza dovuta alla reviviscenza del semplice canone del “termine ragionevole”. Peraltro, non sembra inutile rammentare che la pronuncia della Corte costituzionale 63/2019 ha definitivamente esteso anche alla materia del diritto amministrativo sanzionatorio il principio di irretroattività in pejus. E la pronuncia della Corte di Giustizia produce invero un mutamento in pejus del quadro normativo, per cui può per lo meno porsi il dubbio circa la conformità costituzionale della sua applicazione retroattiva. E non basterebbe, a liquidare sic et simpliciter la questione, la constatazione che la decadenza è un istituto processuale, a differenza della prescrizione, che sarebbe un istituto sostanziale (tant’è che, come noto, la Consulta vi ha opposto i controlimiti nella famosa vicenda Taricco), dal momento che anche a istituti di diritto processuale è stato applicato il principio dell’irretroattività in pejus (Corte Cost., 26 febbraio 2020, n. 32).

Si potrebbe dire che il d.lgs. 185/2021, che attua la direttiva (UE) 2019/1 ha perso un’importante occasione per definire meglio i poteri dell’AGCM che le consentano realmente di definire le priorità da seguire. In effetti, l’art. 4, co. 5 della direttiva, di cui si è già detto, è stato attuato semplicemente trasfondendo il testo della disposizione all’art. 12, co. 1-ter, senza definire concretamente modalità adeguate ad istituire tali priorità. Una possibile soluzione, nel caso in cui l’autorità intenda posporre la compiuta investigazione di un determinato illecito che le è stato segnalato, potrebbe essere un sistema analogo a quello descritto dall’art. 406 c.p.p., che consente la proroga delle indagini preliminari, ma impone che questa sia notificata d’ufficio all’indagato. Prima della sentenza in oggetto, non pareva possibile per l’AGCM disciplinare un analogo meccanismo nell’ambito della propria autonomia regolatoria, dal momento che si sarebbe scontrata con il disposto dell’art. 14, co. 2, l. 689, che veniva comunemente ritenuto applicabile. Ora, però, che è stata accertata l’incompatibilità eurounitaria di tale termine, l’Autorità potrebbe, proprio in attuazione del nuovo art. 12, co. 1-ter, l. 287/1990, disporre un simile sistema che consente di contemperare discrezionalità dell’autorità e diritto di difesa.

Ad ogni modo, la disamina della presente sentenza impone di evidenziare ulteriori contrasti giurisprudenziali e questioni di pregiudizialità recentemente sollevate.

Ancora, pare rilevante dipanare, come anticipato, ulteriori questioni che si sono presentate nella recente giurisprudenza in merito alla successiva fase dei procedimenti antitrust, ossia la fase istruttoria che si conclude con l’emanazione dell’ordinanza-ingiunzione. Per tale fase, neanche la legge 689 prevede in via generale un termine massimo, tant’è che l’art. 6, co. 3 del d.p.R. 217/1998 impone all’AGCM di indicare di volta in volta nella contestazione dell’illecito (che apre, come detto, la fase istruttoria) il termine di conclusione del procedimento. In merito, la giurisprudenza largamente maggioritaria ritiene che il termine indicato sia perentorio (Cons St., ord. 26 agosto 2024, n. 7243, nonché, per l’ARERA, Cons. St., 19 aprile 2023, n. 3977 e per l’AGCOM Cons. St. 17 novembre 2020, n. 7150).

Eppure, sono sorti due contrasti interpretativi che meritano di essere menzionati. 

In primo luogo, l’ordinanza del Consiglio di Stato 26 agosto 2024, n. 7243 ha sollevato una questione pregiudiziale interpretativa ai sensi dell’art. 267 TFUE circa la possibilità, per l’AGCM, di prorogare unilateralmente il termine di conclusione del procedimento originariamente indicato al di fuori di casi espressamente individuati nei propri regolamenti o nella legge ordinaria. Il ricorrente nella causa sub iudice, che ha promosso il rinvio, reputava che tale strumento mettesse a rischio la tutela d’interessi di rango eurounitario, e segnatamente il diritto ad una buona amministrazione di cui all’art. 41 CDFUE, il diritto ad un ricorso effettivo di cui all’art. 47 CDFUE nonché il diritto ad un equo processo di cui all’art. 6 CEDU. Il collegio, benché obbligato al rinvio ex art. 267, co. 3, TFUE, propende nettamente per la legittimità di tale pratica, che consente di tenere in debita considerazione sopravvenienze che impongano di allargare lo scopo dell’indagine anche ad altri soggetti senza dover moltiplicare i procedimenti. In effetti, tale possibilità sembra essenziale al razionale svolgimento delle indagini dell’AGCM, soprattutto alla luce della sentenza della Corte di Giustizia che è stata in questa sede commentata, la quale ha valorizzato l’importanza della discrezionalità dell’autorità antitrust.

Infine, un ultimo contrasto giurisprudenziale riguarda la possibilità di integrare le lacune della l. 689/1981 ad opera della legge generale sul procedimento amministrativo. Un orientamento consolidato ritiene che le disposizioni della l. 689 costituiscano un sistema organico e compiuto, ciò impedendo integrazioni esterne (orientamento definitivamente acclarato con la pronuncia delle SSUU 27 aprile 2006, n. 9591). Di conseguenza, non essendo previsto un termine per l’emanazione dell’ordinanza-ingiunzione, verrebbe unicamente in rilievo il termine quinquennale di prescrizione previsto all’art. 28 l. 689/1981.

Eppure, una recente pronuncia (Cons. St., 19 aprile 2023, n. 3977) si pone nettamente in contrasto con tale ricostruzione, muovendo da due ordini di premesse, entrambe tratte dalla già menzionata pronuncia della Corte costituzionale 12 luglio 2021, n. 151. In primo luogo, si dice, l’attività delle autorità indipendenti, pure quando sia sanzionatoria, resta comunque incardinata nel genus dell’attività amministrativa. In secondo luogo, nella specifica materia del diritto amministrativo sanzionatorio è estrema l’esigenza di certezza dei tempi del procedimento, essendo dunque inammissibile l’assenza di qualsivoglia indicazione in merito. Da queste premesse, il collegio trae la possibilità di applicare, in via residuale, il termine di 30 giorni previsto all’art. 2, co. 2, l. 241/1990 anche nei procedimenti dinanzi alle autorità indipendenti.

La pronuncia 3977/2023 da ultimo citata assume dunque una posizione oltremodo garantista ed innovativa, ma non risolve alcune criticità. In particolare, essa riguarda un procedimento dinanzi l’ARERA e si giustifica per la circostanza che detta autorità non ha adempiuto all’obbligo di disciplinare in via generale e preventiva il termine di conclusione dei propri procedimenti sanzionatori con regolamento, obbligo che si desume dal combinato disposto dell’art. 2, co. 5, l. 241/1990 e 45, co. 6, d.l.gs 93/2011. Si tratta, dunque, di un quadro normativo differente da quello che emerge per l’AGCM (che, come visto, è tenuta ad indicare ad ogni apertura di istruttoria il termine di conclusione), e che dunque giustifica l’appello all’integrazione ad opera della legge generale del procedimento. Eppure, l’ARERA, non avendo fissato un termine in via generale con regolamento, procede, come l’AGCM, ad indicare di volta in volta un termine di conclusione del procedimento – da considerarsi senz’altro perentorio. E nel caso analizzato dalla sentenza 3977 il provvedimento risultava assunto tardivamente anche rispetto al termine fissato dall’ARERA, per cui non si chiarisce quale sia la vera ratio decidendi, se la scadenza del termine fissato dall’autorità per il singolo caso o la scadenza del termine di trenta giorni previsto in via residuale dalla legge 241. Tale incertezza risulta invero di massima importanza perché laddove la ratio decidendi fosse la seconda essa implicherebbe l’illegittimità della quasi totalità dei provvedimenti dell’ARERA; laddove la ratio decidendi fosse invece la prima non si comprenderebbe bene il motivo dell’obiter dictum sull’integrazione della l. 689 ad opera della legge 241. 

Ad ogni modo, risulta evidente che l’ultima giurisprudenza amministrativa oscilla tra la tutela garantista del privato, che vorrebbe vedere la propria posizione cristallizzarsi decorsi termini certi, e la tutela dell’interesse pubblico, che sarebbe meglio curato mediante termini flessibili. Appare indubbio che non si tratta di valutazioni puramente giuridiche, bensì anche di politica giudiziaria, che ciclicamente tende verso l’uno o l’altro polo. 

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