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IL D.D.L. “SALVA MILANO” E LA PREVARICAZIONE TRA POTERI: UN COPIONE GIA’ VISTO

29 aprile 2025

a cura di Federica Micarelli

A pochi giorni dall’apertura del primo dei processi penali collegati alle numerose inchieste che si sono susseguite nel capoluogo lombardo, si riaccende la questione legata alla cosiddetta disciplina “Salva Milano”. Da luglio 2024, infatti, è in discussione un progetto di legge (“Disposizioni in materia di piani particolareggiati o di lottizzazione convenzionata e di interventi di ristrutturazione edilizia connessi a interventi di rigenerazione urbana”, n. 1987/2024) volto a superare le recenti problematiche urbanistiche che hanno coinvolto la città di Milano. L’intento è quello di semplificare la gestione di alcune anomalie edilizie e consentire la sanatoria di taluni interventi reputati irregolari.

Negli ultimi anni, la città di Milano ha vissuto un’imponente trasformazione urbana, caratterizzata da un boom di demolizioni e ricostruzioni edilizie, anche con volumi e altezze maggiori rispetto agli edifici preesistenti.

Nello specifico, il punto controverso riguarda la qualificazione di tali interventi come “ristrutturazioni edilizie”, piuttosto che come costruzioni ex novo. Tali progetti, infatti, sono stati autorizzati dal Comune di Milano tramite una semplice SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), con tempi di attuazione più rapidi e costi inferiori, anziché attraverso un permesso di costruire, come previsto dal d.P.R. n. 380/2001 (Testo unico in materia edilizia).

Tale procedura “accelerata” ha sin da subito catturato l’attenzione della magistratura, secondo cui il provvedimento autorizzatorio impiegato non sarebbe sufficiente per realizzare grandi costruzioni, a seguito della demolizione degli edifici preesistenti, qualora si superino determinate dimensioni. Secondo gli inquirenti, infatti, in questi casi non si dovrebbe parlare di “ristrutturazione”, ma di una vera e propria nuova costruzione che, come tale, richiederebbe un nuovo Piano Attuativo rilasciato dal Comune, oltre che una valutazione d’impatto sul territorio circostante e contributi economici più elevati. Al contrario, non risulterebbe idonea una mera dichiarazione del costruttore che confermi di avere i requisiti necessari ad iniziare i lavori, occorrendo ulteriori verifiche e controlli da parte del Comune.

Censurata dai magistrati, dunque, è la prassi di autorizzare, tramite pratiche edilizie semplificate, la sostituzione di fabbricati preesistenti con grattacieli di molti piani che prevedano un incremento volumetrico significativo. L’art. 41 quinquies comma 6 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), modificata ed integrata dalla successiva legge 6 agosto 1967, n. 765 (c.d. Legge Ponte), che regola la materia, prevede infatti dei limiti volumetrici massimi, disponendo che “non possano essere realizzati edifici con volumi ed altezze superiori a detti limiti, se non previa approvazione di apposito piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata”.

In giurisprudenza, a tale disposizione hanno fatto seguito due orientamenti contrapposti. Il primo, più restrittivo, prevedeva l’assoluto divieto di realizzazione di interventi eccedenti i predetti limiti in assenza di un piano attuativo esteso all’intera zona. L’interpretazione opposta, invece, più espansiva, disponeva l’approvazione dello strumento urbanistico solo in presenza di aree non urbanizzate, e che quindi richiedono una necessaria pianificazione attuativa da parte dell’amministrazione, in quanto finalizzata ad un loro ordinato sviluppo.

Secondo la Procura milanese, molti dei progetti autorizzati tramite SCIA avrebbero dovuto seguire un iter più lungo e complesso, con oneri di urbanizzazione maggiori rispetto a quelli effettivamente corrisposti.

Pertanto, sospettandosi abusi edilizi, corruzione e conflitto di interessi, sono state acquisite le carte di circa quaranta progetti urbanistici. Il primo filone di inchiesta è stato aperto nel 2023 con l’ipotesi di reato di abuso edilizio, ma ben presto le indagini si sono moltiplicate, così come l’impiego di misure cautelari. Tali accertamenti, infatti, sono il più delle volte sfociati in provvedimenti di sequestro preventivo, alcuni dei quali già confermati dai GIP, che hanno bloccato oltre un centinaio dei cantieri da tempo avviati nella città.

La vicenda, strettamente legata al tema della rigenerazione urbana, rappresenta in realtà un punto nevralgico del rapporto tra poteri. Il settore edilizio, in particolare, costituisce un campo di battaglia privilegiato in cui si scontrano provvedimenti amministrativi, che autorizzano determinate attività, e provvedimenti giudiziari che, al contrario, tendono a congelare lo status quo.

Il conflitto tra le due funzioni deriva dal fatto che il sistema previsto dall’ordinamento italiano per le violazioni in materia urbanistico-edilizia è articolato su due piani paralleli. Al potere amministrativo di definire le scelte strategiche e operative per l’uso del territorio e di esercitare i relativi poteri autorizzatori, si contrappone il tradizionale strumento penalistico, con la previsione di specifiche fattispecie di reato volte a reprimere difformità ed abusi.

Nonostante spettino al potere amministrativo i poteri di pianificazione e controllo del territorio, la presenza di fattispecie penali che sanzionano trasformazioni effettuate in violazione della disciplina urbanistica vigente, rende inevitabile un controllo ad ampio spettro della magistratura.

Alle procure, infatti, viene ormai riconosciuto un potere di valutazione autonomo sulla legittimità delle scelte territoriali compiute a livello amministrativo. Nello specifico, al fine di prevenire reati quali abuso edilizio e lottizzazione abusiva, l’autorità giudiziaria agisce spesso con misure cautelari, come sequestri preventivi, che si contrappongono all’assenso dell’amministrazione e che in concreto producono, come nel caso di specie, il blocco dei cantieri in corso.

L’intreccio tra la materia urbanistica e la sfera di prevenzione e repressione dei reati urbanistico-edilizi, dunque, si mostra di grande attualità e riporta al centro la questione della reciproca influenza ed interdipendenza tra diritto amministrativo ed accertamento penale.

Specialmente quando il casus belli tra i due poteri coinvolge l’uso di provvedimenti cautelari, tuttavia, è il privato a rimanere in bilico: da una parte, egli riceve l’assenso dell’amministrazione; dall’altra, risulta impedito a causa del sequestro disposto dall’autorità penale. Come in un copione già visto, a fare affidamento sul “via libera” concesso dall’amministrazione sono i privati, i quali mettono in campo attività che, almeno dal punto di vista del diritto amministrativo, risultano del tutto lecite. Il potere autorizzatorio dell’amministrazione, infatti, ingenera in essi l’aspettativa di “poter contare” sul provvedimento loro concesso all’esito di un’istruttoria il più delle volte complessa e soppesata.

Nel caso in commento, sono molte le famiglie che, a seguito del rilascio dei provvedimenti di SCIA, hanno acquistato case e concluso accordi per edifici del capoluogo lombardo la cui costruzione e/o ristrutturazione risulta ad ora del tutto ferma, divenendo così vittime incolpevoli del suddetto conflitto tra poteri.

Per far fronte all’impasse, con il disegno di legge Salva Milano il legislatore tenta di riordinare la disciplina di settore e di fornire un’interpretazione c.d. autentica del suddetto art. 41 quinquies comma 6 della legge urbanistica.

Il testo approvato alla Camera, in particolare, prevede che i piani attuativi comunali, che finora erano necessari per la demolizione e la ricostruzione degli edifici, non siano più obbligatori se gli interventi edilizi sono realizzati in “ambiti edificati e urbanizzati”. Per costruire un nuovo palazzo in luogo di edifici preesistenti, pertanto, non sarebbe più necessaria l’approvazione preventiva di strumenti urbanistici, quali piani particolareggiati o di lottizzazione convenzionata, ma risulterebbe sufficiente la via semplificata della SCIA. Tra i casi contemplati rientrano l’edificazione di nuovi immobili su lotti situati in ambiti edificati e urbanizzati; la sostituzione di edifici esistenti in ambiti caratterizzati da una struttura urbana definita; gli interventi su edifici esistenti che determinino la creazione di altezze e volumi eccedenti i limiti massimi previsti dall’art. 41 quinquies comma 6.

Di fatto, viene quindi legittimata l’interpretazione estensiva della disposizione in commento, già adottata dal Comune di Milano nell’approvazione dei più recenti progetti edilizi e censurata, al contrario, dalla Procura.

Il progetto di legge, funzionale a sanare le opere edilizie realizzate a Milano in assenza del necessario permesso di costruire, è stato immediatamente contestato da più fronti. La magistratura, in particolare, si è mostrata da subito critica, mettendo in luce come tale disciplina sembri legittimare retroattivamente interventi edilizi che non risultano, in realtà, conformi alla normativa vigente.

Il d.d.l., tuttavia, dopo aver ricevuto parere positivo della Commissione Ambiente ed essere stato approvato alla Camera nel novembre scorso, ha subito una brusca frenata al Senato, a seguito della decisione del Comune di fare un passo indietro. Nello specifico, l’amministrazione ha scelto di non sostenere più il provvedimento, mettendo in luce la necessità di garantire maggiori controlli e più trasparenza nella gestione delle pratiche urbanistiche che la riguardano. Il termine per la presentazione degli emendamenti, inizialmente fissato per marzo 2025, risulta tuttora sospeso in attesa di ulteriori sviluppi, creando un importante vuoto decisionale. Manca al momento, peraltro, un’alternativa efficace al progetto, che è stata ipotizzata nella riscrittura del Testo unico in materia edilizia o nell’inserimento di una norma ad hoc nel disegno di legge sulla rigenerazione urbana, attualmente in discussione al Senato. Strade che, tuttavia, risultano ancora alquanto lontane.

Dallo snodo degli eventi, a fronte di un progetto ormai quasi sfumato, emerge il fallimento della disciplina emergenziale che caratterizza il Salva Milano, ennesimo tentativo in extremis del legislatore di sopire la “logica del nemico” instauratasi tra potere amministrativo e potere penale.

Si tratterebbe in ogni caso di una disciplina derogatoria, volta a “blindare” il potere autorizzatorio dell’amministrazione e consentire ex lege la prosecuzione delle attività edilizie, nonostante i sequestri disposti dall’autorità giudiziaria. La normativa in questione, infatti, risulta finalizzata alla risoluzione immediata di problemi contingenti, allo scopo di fornire una pronta risposta ai cittadini che si trovano a scontare, come di frequente accade quando due poteri si incontrano, una lotta di prevaricazione tra di essi. Così, provvedimenti amministrativi, adottati all’esito di un ponderato bilanciamento di interessi ad opera di soggetti competenti, risultano vani a fronte di un intervento esterno, e spesso estraneo, finendo per allargare le maglie di una rete che intrappola i privati e di un conflitto che, in fin dei conti, diviene sfiancante per entrambi i poteri in gioco.

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