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Partecipazione e concertazione nelle procedure di localizzazione delle infrastrutture strategiche: l’opposizione agli investimenti infrastrutturali

di Marco Tricarico

18/01/16

Da molti anni uno dei più gravi handicap competitivi per l’Italia è rappresentato dal ritardo infrastrutturale. Numerosi studi, compiuti nell’ultima decade, hanno messo in evidenza le maggiori criticità che ostacolano l’adeguamento infrastrutturale italiano agli standard medi dei paesi membri dell’Unione Europea. Tali criticità rendono particolarmente difficile e soprattutto lungo il processo di realizzazione delle opere.
L’opposizione agli investimenti infrastrutturali è un fenomeno ormai endemico sia in Italia che altrove. Nel caso dell’Italia l’opposizione dipende, certamente, dalla mancata previsione di adeguati strumenti partecipativi nel procedimento di localizzazione delle infrastrutture strategiche. La trattazione del fenomeno presenta diversi profili problematici, concettuali oltre che statistici. Da quest’ultimo punto di vista, la misurazione delle contestazioni agli investimenti infrastrutturali e dei loro effetti è scarna e poco sistematica: poco si sa su quali tipologie di investimenti attirino maggiori contestazioni e su quali aspetti, di contesto socio-economico e istituzionale, si correlino maggiormente con la presenza di contestazioni. Il fenomeno dell’opposizione agli investimenti nella sua forma più acuta si presenta come una vera e propria sindrome, definita con l’acronimo Nimby (“Not In My BackYard”). In particolare, con questa terminologia, si vuole indicare il fenomeno di opposizione alla localizzazione di nuovi impianti o infrastrutture da parte delle comunità direttamente interessate. Esso va distinto dalla opposizione tout court all’effettuazione di un determinato investimento ritenuto inutile o troppo costoso; almeno in linea di principio, infatti, il Nimby riguarda situazioni in cui vi è consenso circa la desiderabilità sociale dell’infrastruttura e l’opposizione nasce dal fatto che, a fronte di benefici diffusi, i costi sono concentrati sulla comunità ospitante. Qualunque metodo d’approccio per la sua risoluzione deve pertanto partire dal presupposto che una maggiore inclusione dei cittadini nel procedimento di localizzazione diminuirà drasticamente l’insorgere di successive opposizioni. È necessario rilevare che, attualmente, si è arrivati al paradosso per cui non è più solo il “conflitto” in sé a rappresentare una patologia, ma anche l’incapacità di valutarne le cause, di rispondere alle domande che pone, di prevenirlo o, comunque, di governarlo. Dunque è di fondamentale importanza, al fine di consentire la realizzazione dei programmi necessari allo sviluppo, affrontare il problema del “metodo di promozione e gestione del consenso”. Occorre, in particolare, comprendere che alla base di questa tipologia di conflitti si pone un problema di governance e, quindi, che la soluzione del problema sta nel superare i limiti dell’attuale processo decisionale al fine di innovarlo e renderlo più efficace.
A livello internazionale l’emersione del problema della partecipazione è stato affrontato dapprima con la Dichiarazione di Rio de Janeiro, del 13 giugno 1992 in conclusione della United Nations Conference on Environment and Development (UNCED), che ha sottolineato la necessità di un ampia e diffusa partecipazione del pubblico in materia ambientale e sociale.
In seguito la convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, cui anche l’Italia ha aderito, ha fissato in modo definitivo la necessità di costruire le politiche di trasformazione territoriale in modo aperto alla valutazione dell’opinione pubblica, attraverso l’ascolto e il coinvolgimento dei portatori di interessi, i cd. stakeholder. Secondo la Convenzione per partecipazione non si deve intendere un generico coinvolgimento di generici rappresentanti di interessi. Per essere efficace la partecipazione deve essere un processo molto organizzato al fine di garantire tutti i soggetti coinvolti.
Per questo è necessario che il metodo partecipativo determini strutturalmente il processo decisionale. E’ questa una scelta di fondo che comporta la chiarezza dei criteri in base ai quali si verifica la rappresentanza e la rappresentatività dei soggetti coinvolti nel processo partecipativo, che richiede grandi professionalità e, quindi, soggetti, sedi, metodologie e strutture dedicate.
In Italia la Convenzione di Aarhus è stata ratificata (senza riserve) in forza della legge 16 marzo 2001, n. 108. Nonostante la ratifica di tale convenzione, le problematiche relative alle procedure di localizzazione di opere pubbliche sono state affrontate, nel nostro Paese, per lo più sotto il profilo dei rapporti interistituzionali tra Stato e Regioni. Il rapporto tra gli organi cui spetta la decisione di localizzazione e la comunità locali coinvolte, pur non essendo meno importante del precedente, visti anche i conflitti che ne possono scaturire, non ha ricevuto, sul piano giuridico, uguale attenzione. In aggiunta a quanto appena detto è importate sottolineare come, il legislatore italiano abbia addirittura introdotto previsioni più restrittive in materia. Segnatamente, la legislazione in materia di opere strategiche dettata dalla legge 21 dicembre 2001, n. 443 (cd. Legge obiettivo) che, restringendo i tempi di decisione, comprime inevitabilmente il diritto alla partecipazione.
L’ampiezza della resistenza contro le grandi opere in Italia è testimoniata dai dati raccolti annualmente dal Nimby Forum. Secondo le rilevazioni più recenti, nonostante il cospicuo aumento delle contestazioni, tra il 2009 (283 progetti contestati) e il 2014 (355 progetti contestati) l’andamento è stato altalenate. Nel contrastare il fenomeno Nimby è fondamentale la scelta del momento e delle modalità con cui viene attivato il confronto con le comunità interessate. Al riguardo è possibile distinguere due “approcci”: l’approccio ex post e l’approccio ex ante. Il primo segue una logica di tipo topdown: la sequenza degli eventi vede il gestore (o il decisore pubblico) adottare la scelta localizzativa sulla base di valutazioni tecniche e formulare il progetto dettagliato dell’opera senza informare o coinvolgere preventivamente la popolazione o gli enti locali interessati (cd. metodo DAD – decidi,annuncia,difendi). Il confronto avviene successivamente e solo con la comunità prescelta; riguarderà forme di compensazioni e varianti finalizzate a ridurre o annullare le disutilità dell’opera, massimizzandone l’accettazione. Questo primo approccio è quello che più si avvicina a quanto previsto dall’ordinamento italiano. Infatti l’unico momento partecipativo, esclusivamente scritto e a fini istruttori, si ha durante la procedura di Valutazione Impatto Ambientale, quando le scelte più importanti sul progetto sono state già effettuate. L’approccio ex ante si basa su una logica di tipo bottom-up: tutte le comunità interessate (ovvero tutti gli stakeholders: enti locali, cittadini, associazioni ecc..) vengono coinvolte in una fase preliminare; tutte le scelte principali dell’intervento infrastrutturale vengono discusse. Nel caso dell’approccio top-down, saranno privilegiati metodi compensativi quali incentivi economici, compensazioni di tipo occupazionale, compensazioni in natura, compensazioni fiscali. Nel caso in cui si scelga un approccio bottom-up, saranno privilegiati metodi di democrazia partecipativa o deliberativa. Tale approccio ha ricevuto il massimo grado di istituzionalizzazione in Francia, attraverso l’istituto del Debat public, istituto della cd. dèmocratie de proximitè. Quest’ultimo appare come l’istituto più consono, nel panorama europeo, a contrastare il fenomeno Nimby, in tutti i suoi aspetti. Dunque, l’istituto più importante a cui guardare per un eventuale modifica della disciplina italiana in materia di localizzazione di infrastrutture strategiche. Il Debat public si svolge nella fase iniziale del progetto, esso riguarderà l’opportunità o meno di realizzare l’opera, oltre che le modalità e le caratteristiche della sua realizzazione, e vi potrà partecipare tutta la popolazione interessata, chiamata ad esprimersi sul progetto. La responsabilità del procedimento è affidata ad una apposita commissione nazionale indipendente la CNDP (Commission National du Debat Public). Tale istituto, quindi, elimina quasi del tutto l’insorgenza di futuri conflitti e rende effettivo il contributo delle comunità locali nel processo decisionale (come richiesto peraltro dalla convenzione di Aarhus). Benché l’Italia si fosse mossa, nello stesso periodo di approvazione del Debat public, in una direzione diametralmente opposta, soprattutto con la «legge obiettivo» del 2001, che conferiva pieni poteri alle autorità centrali marginalizzando gli interessi locali, negli ultimi tempi anche nel nostro paese si è cominciato a guardare con interesse all’esperienza francese, di fronte ai frequenti insuccessi della strategia autoritativa. Nel 2007 il meccanismo del débat public è stato riproposto dalla legge sulla partecipazione della regione Toscana, la Legge Regionale 27 dicembre 2007, n. 69.
Il testo della legge è costruito attorno a tre pilastri: l’istituzione di un dibattito pubblico regionale, condotto da un organismo terzo ed imparziale; l’azione di sostegno ai processi locali di partecipazione promossi dagli enti locali e dai cittadini; il rafforzamento e l’estensione dei momenti partecipativi già esistenti a livello regionale attraverso l’adozione del principio di inclusività.
In tema di partecipazione democratica e marginalizzazione del fenomeno Nimby in Italia si registrano, oltre al virtuoso esempio della Legge regionale toscana, ulteriori casi di coinvolgimento “proattivo” delle comunità locali. Segnatamente, è opportuno menzionare il primo dibattito pubblico «alla francese» tenutosi in Italia sul progetto di una grande infrastruttura. Esso ha avuto luogo a Genova, tra il 6 febbraio e il 30 aprile 2009, sulla proposta di un nuovo tratto autostradale di circa 20 km tra Voltri e Genova Ovest, noto come Gronda di Ponente. Il dibattito, caratterizzato da incontri pubblici, si è svolto sotto la supervisione di una commissione presieduta da Luigi Bobbio.
In conclusione si può affermare che, in Italia, la celere realizzazione delle grandi infrastrutture e la contestuale capacità di programmazione delle stesse ha, tra gli elementi necessari per assicurare il successo di un progetto, come presupposto imprescindibile la partecipazione dei cittadini interessati alle procedure di localizzazione. Attualmente l’approccio ordinario alla programmazione e realizzazione di nuove infrastrutture rimane fortemente orientato al modello DAD (come nel caso della ferrovia Torino-Lione cd. TAV), modello che tralascia le modalità di concertazione con il territorio. In tale processo lo spazio dedicato all’informazione ed alla comunicazione è estremamente ridotto e spesso volto a rendere noto e a difendere il risultato finale del processo decisionale piuttosto che a permettere un effettivo scambio comunicativo tra le parti in gioco, rendendo pressoché inevitabile l’insorgere di fenomeni oppositivi. L’approccio proattivo, al contrario, permetterebbe un accrescimento del livello di consapevolezza dei cittadini, un miglioramento dell’informazione e della comunicazione e in definitiva una diminuzione di costi e tempi di realizzazione.

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