Lab-IP

La fioritura del “Pesco” tra aspettative tradite e punti da chiarire

di Christian Curzola

 

12 gennaio 2018

 

La primavera della difesa comune europea è definitivamente arrivata. Dopo un lungo periodo di gestazione, culminato con la sottoscrizione della “notifica congiunta” da parte di 23 Stati membri, il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato la “Decisione 11 dicembre 2017”, istituendo ufficialmente la “Cooperazione strutturata permanente di difesa” (Pesco), che ha così ricevuto l’endorsement politico più autorevole. Nell’ambito dei lavori dello stesso Consiglio, peraltro, è stato espresso l’apprezzamento per l’accordo raggiunto dagli Stati partecipanti (saliti nel frattempo da 23 a 25) su una lista di 17 progetti in materia di difesa, la cui formale adozione è prevista per “la prima parte del 2018”. Tra questi, meritano di essere menzionati  la creazione di un “Comando medico europeo”, l’implementazione della mobilità militare UE, l’istituzione di squadre specializzate per la “Cyber rapid response” e la creazione di un centro addestramento degli eserciti europei. Nonostante siano stati compiuti notevoli passi avanti lungo il sentiero della difesa comune, restano tuttavia alcuni punti da chiarire. Il primo riguarda proprio la “Pesco”. Prima della sua definitiva istituzione, la cooperazione strutturata permanente era stata concepita come uno strumento tale, da consentire ad un numero esiguo di Stati membri, intenzionati a parteciparvi (willing) e dotati di specifiche capacità economiche e militari (capable), di avviare un cammino di integrazione nell’ambito della difesa, nell’ottica dello svolgimento in comune delle “missioni più impegnative” (articolo 42, 6 paragrafo del Trattato di Lisbona). La “Pesco”, per sua natura snella, avrebbe dovuto dunque costituire una sorta di “Europa della difesa a due velocità”, guidata da un nucleo ristretto di Stati “apripista” e caratterizzata dalla rapidità della sua attuazione. Nei mesi che ne hanno visto concretamente la nascita, ha prevalso tuttavia la configurazione “inclusiva” e “modulare”. Ciò implica non solo che ciascuno degli Stati membri sia libero di aderirvi (“inclusività”), a prescindere dunque dal possesso di determinati requisiti, ma anche che, una volta preso parte ad almeno un progetto per la difesa comune, possa tarare la propria partecipazione sul livello che riterrà più opportuno (“modularità”). A ciò si aggiunga che, contrariamente a quanto auspicato da Francia, Germania e Italia, il Consiglio dell’Unione Europea ha optato per l’introduzione del quorum della maggioranza assoluta, per ciò che concerne l’adozione di decisioni in materia di cooperazione di difesa. La configurazione “inclusiva” e “modulare”, del resto, è stata la chiave di volta dell’ampio consenso riscosso dalla “Pesco”, anche in quei Paesi che inizialmente non vi avevano mostrato particolare interesse o che, come il Portogallo, la Polonia o l’Irlanda, nutrivano anzi un palese scetticismo. Non è un caso, dunque, che una certa delusione per l’ampiezza (e per il rischio di minore efficacia) della “Pesco”, sia stata espressa da alcuni leader europei, tra cui il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Il secondo punto da chiarire riguarda il rapporto con la Nato. L’Alto rappresentante della politica estera UE ha reso la collaborazione con l’Alleanza atlantica uno dei pilastri portanti su cui si erge il “pacchetto difesa”, senza tuttavia specificare attraverso quali programmi sarà possibile definire l’effettiva interazione tra i progetti “Pesco” e le strategie militari della Nato. Basti pensare, ad esempio, al settore della difesa aerea che, come illustrato dal Generale Vincenzo Camporini in una recente intervista, «E’ una responsabilità specifica dell’Alleanza sotto il cui comando e controllo esistono già assetti e capacità». Di conseguenza, si rende necessaria un’accorta riflessione «per evitare duplicazioni o sovrapposizioni che risulterebbero dannose». Il terzo ed ultimo punto tuttora controverso, concerne l’effettiva guida della cooperazione strutturata permanente. L’improvvisa e recente accelerazione sul tema della difesa comune, da un lato ha rilanciato l’Unione europea dopo gli anni bui della crisi economico-finanziaria, dall’altro ha tuttavia determinato una sorta di competizione tra Stati membri per garantirsi la leadership della “Pesco” ed usufruire dei benefit economici ad essa correlati (si pensi al Fondo istituito dalla Commissione europea, che prevede lo stanziamento di 500 milioni di euro l’anno per la parte “research” e di 1 miliardo di euro per la parte “capability”, a partire dal 2020). Non deve sorprendere, dunque, la circostanza che Francia e Germania abbiano già presentato le rispettive candidature. Dal canto proprio l’Italia, tra i principali fautori del “progetto Pesco”, sembra voler reagire di conseguenza. Come recentemente affermato dal Ministro della Difesa Roberta Pinotti, «nonostante le prese di posizione degli alleati nascondono una lettura dei propri interessi, noi non dobbiamo essere da meno. Occorre procedere con il percorso della difesa comune, che è ineludibile, ma anche guardare all’interesse nazionale. Una politica di difesa è una delle cose costituzionalmente fondanti di uno Stato».

 

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