Lab-IP

LA RIGENERAZIONE URBANA NELLE POLITICHE EUROUNITARIE DI COESIONE

13 gennaio 2020

Saverio Santoro

Sarebbe stato logico che il tema della rigenerazione urbana fosse divenuto, prima che nei singoli Stati membri, un tema centrale nelle politiche dell’Unione Europea rivolte all’uso ed all’assetto del territorio.

Purtroppo, così non è stato, o almeno non è avvenuto attraverso un atto fondamentale.

Nell’Unione Europea, infatti, dopo il fallimento del tentativo nel 2006 approvare una direttiva quadro su questo tema, e nonostante proprio in tale sede, e per la prima volta, fosse stata introdotta la problematica del diritto dell’ambiente urbano (art. 174 del Trattato, oggi art. 191 del TFUE), ci si era limitati, in un più ristretto ambito di soft law, a semplici raccomandazioni alle amministrazione dei singoli paesi membri ad inserire regole tecniche e modalità di attuazione, nell’adozione delle misure rivolte al perseguimento dell’obiettivo, entro il 2020, del minimo consumo delle risorse non rinnovabili, tra le quali, in particolare, quella del suolo e del suo utilizzo.

È noto che la Comunità europea, già nel 1972 con la Carta europea del suolo avesse già individuato il tema del suolo come risorsa non rinnovabile, essenziale per la vita e salute delle persone, per l’equilibrio dell’ecosistema e per la produzione agricola, con innegabili implicazioni sociali ed economiche per uno sviluppo sostenibile.

La Commissione europea aveva poi adottato nel 2006 una Strategia generale per la protezione del suolo” caratterizzata dai princìpi guida della prevenzione, conservazione, recupero e ripristino della funzionalità del suolo, articolata in interventi di diverse autorità centrali e locali, secondo il principio di sussidiarietà, inteso sia in senso verticale che orizzontale, dato che il problema dell’assetto del territorio e del suolo in generale richiede per sua natura un coordinamento tra tutte le istituzioni ed autorità, come collocate secondo una gerarchia verticale di competenze.

Nel 2011 questa strategia della Commissione europea era stata inquadrata in più vasto obiettivo rivolto ad ottimizzare l’uso delle risorse secondo un’economia di tipo circolare, intendeva conseguire entro il 2050 la “quota zero” nell’occupazione di nuovo suolo, invitando i soggetti interessati a seguire orientamenti e buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo.

La Commissione a quella data aveva messo a fuoco soprattutto i rischi derivanti dalla sempre maggiore impermeabilizzazione del suolo per effetto della più incontrollata urbanizzazione, realizzata al di fuori delle città nel verde agricolo, con perdita delle sue funzioni essenziali rispetto all’ecosistema naturale, e quello dei brownfields, gli agglomerati vetero-industriali abbandonati nel territorio dopo l’esaurimento della loro utilità economica senza attivare processi di rinaturalizzazione del suolo, con spreco di aree e degrado ambientale.

Altrettanto rilevante, a quell’epoca, era stata l’attenzione rivolta dalla Commissione al miglioramento della costruzione e dell’uso degli edifici, per diminuire il consumo finale di energia, di materiali estratti, di acqua, nonché le emissioni di gas serra, ritenute a ragione responsabili dei cambiamenti climatici e delle conseguenti calamità, talora estreme come gli tsunami. La strategia indicata era nel senso di promuovere l’efficienza energetica e l’uso di energie rinnovabili negli edifici e integrarle con una maggiore efficienza delle risorse, prendendo in considerazione una gamma più ampia di impatti ambientali durante il ciclo di vita degli edifici e delle infrastrutture e anche i costi legati all’intero ciclo di vita degli edifici, inclusi quelli derivanti dai costi complessivi del trattamento dei rifiuti e dalle demolizioni, dalla costruzione e poi dalla gestione.

Per un utilizzo efficace delle risorse a livello di edifici, ma anche per la mobilità, era ritenuto indispensabile pianificare il miglioramento di edifici ed infrastrutture, per ottenere una sensibile diminuzione dei rifiuti di costruzione e demolizione e dei correlati consumi energetici.

Tutte queste iniziative della Commissione europea erano state realizzate mediante Comunicazioni, quindi con atti ad efficacia non vincolante, volti a rendere pubblico il punto di vista dell’Istituzione e l’intenzione di assumere iniziative e adottare misure in quella direzione: tant’è che, pur non disponendo di una base giuridica specifica loro propria, si riteneva trovassero fondamento in specifiche direttive di settore, come la direttiva 2010/31/UE sulla prestazione energetica nell’edilizia e la direttiva 2008/98/CE sui rifiuti, adottata sulla base dell’articolo 175, par. 1, TCE.

Nella relazione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni del 13 febbraio 2012 relativa all’attuazione della strategia tematica per la protezione del suolo e attività in corso, la Commissione aveva del resto dato atto che la proposta di direttiva quadro per la protezione del suolo, risalente al 2006, che affrontava anche il tema della dimensione transfrontaliera della degradazione del suolo, era stata adottata dal Parlamento europeo in prima lettura nel novembre 2007 con una maggioranza di circa due terzi, ma era stata poi bloccata da una minoranza di Stati nel Consiglio Ambiente di marzo 2010, per ragioni legate alla sussidiarietà, ai costi eccessivi e all’aggravio dei procedimenti amministrativi relativi, lasciando però intendere di voler proseguire nella propria strategia, utilizzando a tale fine competenze derivanti da altre politiche settoriali. 

Si era in particolare ricondotta la protezione del suolo, a quella di utilizzo sostenibile, e dunque a coniugare la finalità, minore ma essenziale, di “consumo di suolo”, a quella più tradizionale della minore occupazione di suolo (Land Take o Land Use), in funzione di prevenzione dei processi di degrado, preservazione, recupero e ripristino della funzionalità del territorio, ad esempio procedendo all’analisi d’impatto sul suolo e sull’ambiente in generale delle decisioni in materia di pianificazione territoriale; alla integrazione delle politiche ambientali e di tutela dei territori con le altre politiche; allo sviluppo urbano sostenibile, mediante il coinvolgimento di tutti i livelli territoriali di governo (quello locale, quello statale e quello della medesima Unione Europea).

Era stato addirittura previsto l’azzeramento del consumo di suolo in un più lungo periodo (sino al 2050) attraverso la Strategia tematica per la protezione del suolo del 2006 e la Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse, formulata nel 2011, quasi a significare un diffuso desiderio di decrescita guidata.

Tutte queste finalità, corrispondenti ciascuna a ben individuabili interessi pubblici, hanno trovato oggi, almeno in sede eurounitaria, una sintesi nella «politica di coesione europea» che, come noto, rappresenta il quadro politico-economico alla base delle centinaia di migliaia di progetti che in tutta Europa ricevono finanziamenti attraverso il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), il Fondo sociale europeo (FSE) e il Fondo di coesione (quello cioè, destinato gli Stati membri dell’UE con un PIL inferiore al 90 % rispetto alla media UE a 27). La coesione economica e sociale, così com’è definita dall’Atto unico europeo del 1986, mira a «ridurre il divario fra le diverse regioni e il ritardo delle regioni meno favorite», ed addirittura, secondo il Trattato di Lisbona, si evolve in «coesione economica, sociale e territoriale», interessando ormai significativamente e definitivamente le comunità territoriali. 

La rigenerazione urbana, nel quadro comunitario così delineatosi, è divenuta sinonimo di «sviluppo urbano sostenibile integrato», nel senso di realizzarsi necessariamente mediante la compresenza di diversi interessi pubblici, talora eterogenei, ma in realtà reciprocamente collegati, tanto da generare, se attuati contestualmente in modo coordinato e sinergico, una serie di circoli virtuosi, tutti rivolti al medesimo fine della elevazione dei livelli di qualità della vita nelle comunità territoriali interessate.

Le varie dimensioni della vita urbana – ambientale, economica, sociale e culturale – debbono considerarsi dunque reciprocamente collegate, tanto che il migliore sviluppo urbano può considerarsi perseguibile soltanto attraverso un approccio integrato. 

Questo significa anche che non si può pensare alla trasformazione del territorio, soltanto con l’obiettivo della massima rendita o del plusvalore, cioè quello che le imprese di costruzione comunemente chiamano valorizzazione di aree e immobili.

Le misure riguardanti il rinnovamento fisico urbano, in ambito europeo, sono state, viceversa, abbinate, anche e soprattutto mediante formule di partenariato, a quelle che in parallelo promuovono l’istruzione, lo sviluppo economico, l’inclusione sociale e la protezione dell’ambiente. Un tale approccio multidimensionale si rivela poi particolarmente significativo in questo particolare momento della storia economica d’Italia e dell’Europa, considerata la dimensione delle sfide che le città europee devono attualmente affrontare, che vanno dai cambiamenti demografici specifici, alle conseguenze della stagnazione economica, sia in termini di creazione di posti di lavoro che di progresso sociale, fino all’impatto del cambiamento climatico. 

La risposta a queste sfide era stata giustamente considerata fondamentale per realizzare la società intelligente, sostenibile e inclusiva prevista dalla Strategia Europa 2020, anche con l’ausilio di una rete di sviluppo urbano (UDN) dalla quale potesse dipendere la revisione della distribuzione sul terreno dei fondi europei e del potenziamento della condivisione delle conoscenze tra le città coinvolte nello sviluppo urbano sostenibile integrato e nelle azioni innovative urbane. D’altra parte, le città sono considerate al contempo causa e soluzione alle difficoltà di natura economica, ambientale e sociale, come avvertite dalle comunità interessate. 

Oltretutto, le aree urbane d’Europa ospitano oltre due terzi della popolazione dell’UE, utilizzano circa l’80% delle risorse energetiche e generano fino all’85% del PIL europeo, rivestendo un’innegabile centralità nell’economia europea, dove accanto alle eccellenze in termini di creatività e innovazione persistono aree di disoccupazione, segregazione e povertà.  Tant’è vero che l’Unione Europea assegna questi problemi, per un verso ascrivibili alle politiche urbane, anche a quelle di interesse transfrontaliero, quali entrambi espressione delle politiche regionali dell’UE.

La rigenerazione urbana può considerarsi quindi un elemento centrale nelle politiche di coesione europea, destinata a realizzarne il migliore successo con la minore spesa, sia in termini di risparmio di risorse economiche vere e proprie, sia in termini di miglioramento dell’arredo urbano che della qualità della vita, dato che nel suo ambito convergono tutti gli interessi pubblici rivolti allo sviluppo economico sostenibile, non raggiungibili singolarmente, tanto più se non in collaborazione, almeno in partenariato, tra Stato, Enti Locali, imprese, associazioni di categoria e cittadini, nell’ottica comune del riuso del territorio, del suo patrimonio immobiliare e del minimo spreco di risorse.

FacebooktwitterredditpinterestlinkedintumblrmailFacebooktwitterredditpinterestlinkedintumblrmail