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La trasparenza nelle operazioni con strumenti finanziari derivati: Il caso Archegos

Tommaso Mazzetti di Pietralata

06/05/2021

Il caso di Archegos Capital Management, il fondo creato dal miliardario Bill Hwang per gestire unicamente il proprio patrimonio, ha sollevato consistenti perplessità sull’idoneità della disciplina vigente in materia di trasparenza delle operazioni finanziarie a garantire sia la correttezza e la completezza dell’informazione al mercato, sia una efficace attività di supervisione delle autorità di vigilanza competenti.

In particolare, l’attenzione si è rivolta sull’assenza di obblighi di comunicazione all’autorità di vigilanza delle operazioni con talune categorie di strumenti finanziari derivati complessi, nonché sull’opportunità di un regime di trattamento agevolato per i family offices, ossia quelle compagnie, come Archegos, che si occupano della gestione del patrimonio di un individuo o dei membri della medesima famiglia.

Prima di esaminare la vicenda, è necessario ripercorrere le caratteristiche del total return swap, lo strumento finanziario derivato che ha causato l’esposizione finanziaria di Archegos e il suo successivo dissesto.

Il total return swap (“trs”) è un’operazione finanziaria in base alla quale un soggetto (cd. “total return payer”), solitamente una grande banca commerciale o di investimento, acquista e conserva in portafoglio un bene o un’attività finanziaria (cd. “sottostante” o “reference asset”) su indicazione di un altro soggetto (cd. “total return receiver”), al quale cede tutto il rischio e il rendimento dell’investimento, a fronte del pagamento di una commissione a scadenze prefissate dal contratto. Alle medesime scadenze, inoltre, il proprietario del sottostante corrisponderà alla controparte una somma di denaro qualora ne sia aumentato il valore mentre, in caso contrario, la controparte dovrà fare altrettanto.

Il receiver ha diritto in ogni caso a percepire il rendimento dell’investimento (ad esempio i dividendi in caso di partecipazioni azionarie), ma si assume interamente il rischio dell’evento default del bene o attività sottostante e a tal fine il contratto può prevedere il deposito di una garanzia (“collateral”).

Mediante operazioni di questo tipo Archegos era arrivato ad essere esposto per 30 miliardi di dollari in azioni di varie società americane e cinesi senza risultare titolare delle stesse agli occhi del mercato e della Securities and Exchange Commission (“SEC”), l’agenzia federale statunitense preposta alla vigilanza sul mercato borsistico.

Quando il valore delle azioni sottostanti ai trs detenuti da Archegos è diminuito considerevolmente, le rispettive banche payer hanno richiesto la prevista integrazione della garanzia (cd. “margin call”) cui tuttavia Archegos non ha potuto far fronte in quanto non disponeva di capitale sufficiente.

Le banche payer allora hanno iniziato a disfarsi delle azioni in questione per limitare le perdite, spingendo così anche gli altri possessori di azioni dei medesimi emittenti a fare altrettanto e pertanto determinandone il definitivo crollo del prezzo di mercato.

Si stima che Credit Suisse e la giapponese Nomura, ossia le banche che hanno reagito con minore prontezza, abbiano subito perdite rispettivamente per 4 e 2 miliardi di dollari.

La vicenda ha innescato il dibattito sull’opportunità di una riforma della regolazione dei family offices e della disciplina sulla trasparenza delle operazioni con taluni strumenti finanziari derivati.

Ai sensi dell’Investment Adviser Act del 1940, ogni persona fisica o ente che offre professionalmente servizi di consulenza finanziaria e di gestione del risparmio (cd. “investment advisers”) è tenuto a registrarsi presso la SEC, a meno che non ricorra una delle cause di esclusione previste dalla legge (Adviser Act Section 202(a)(11)).

Dalla registrazione discendono una serie di obblighi di trasparenza nei confronti dell’autorità di vigilanza; in particolare gli investment advisers che gestiscono autonomamente più di 100 milioni di dollari devono periodicamente fornire alla SEC una descrizione dettagliata dei propri investimenti (cd. “13F form”). 

Inoltre, gli individui e gli enti registrati sono soggetti al potere ispettivo della SEC, esercitabile dal momento in cui l’autorità ritenga che la gestione dell’adviser presenti profili di rischio elevati, normalmente sulla base dell’analisi delle suddette comunicazioni periodiche.

Tra i soggetti che la legge esclude espressamente dalla nozione di investment adviser, e pertanto dall’obbligo di registrazione, vi sono proprio i family offices, purché soddisfino cumulativamente determinati requisiti, tra cui la condizione che l’attività di consulenza sia offerta esclusivamente a membri della famiglia e che questi detengano il controllo della compagnia stessa, ossia il potere di esercitare un’influenza dominante sull’organo di amministrazione o più in generale sulle policies della compagnia (Advisers Act Rule 202(a)(11)(G)-1).

La ratio del particolare regime di supervisione accordato ai family offices risiede tradizionalmente nel fatto che la loro attività si limita a gestire il patrimonio della famiglia controllante e non anche patrimoni di altri clienti (“no outside clients”). Il rischio delle attività di queste compagnie ricade pertanto esclusivamente sul patrimonio della facoltosa famiglia cliente e non anche sui patrimoni di altri investitori (“no-investor, no-harm”) e, di conseguenza, non attiverebbe la missione tipica dell’autorità di vigilanza, ossia la protezione dei piccoli investitori.

Tuttavia, a seguito della vicenda Archegos, questo assunto è stato messo in discussione, in quanto è divenuto evidente che la crisi di un family office di grandi dimensioni può contagiare altre istituzioni finanziarie con conseguenze significative sulla loro stabilità finanziaria.

La natura di family office di Archegos, e la relativa esenzione dalla registrazione, ha sicuramente determinato carenze nella supervisione, non essendo tenuto a fornire alla SEC le comunicazioni periodiche sulla propria attività che avrebbero potuto costituire dei campanelli di allarme sui rischi della gestione.

Per questa ragione l’organizzazione no-profit Americans for Financial Reform, in una lettera del 31 Marzo 2021 al Direttore ad interim della SEC, ha sollecitato una riflessione circa l’opportunità di assoggettare alla registrazione quantomeno quei family offices che gestiscono più di 1 miliardo di dollari, in ragione della potenziale rilevanza sistemica del loro eventuale dissesto.

L’altra questione oggetto di dibattito è il deficit di trasparenza che in ogni caso caratterizza le operazioni con derivati.

Nella normativa vigente, infatti, gli obblighi periodici di comunicazione all’autorità di vigilanza hanno ad oggetto solamente partecipazioni azionarie che conferiscono un diritto di voto, e non strumenti finanziari complessi come i trs. Laddove venga stipulato un contratto di trs, il receiver non acquista la proprietà del sottostante, che rimane nel portafoglio della banca payer, e dunque non è tenuto a comunicare la propria esposizione alla SEC.

Nel caso in esame ogni singola banca payer non era a conoscenza del fatto che Archegos avesse stipulato contratti aventi ad oggetto le medesime azioni con più di un payer, e pertanto ciascuna di esse confidava in una più ampia platea di istituzioni creditizie cui poter cedere all’occorrenza le azioni acquistate. 

La medesima asimmetria informativa ha impedito alle banche di determinare correttamente l’esposizione complessiva di Archegos.

Da questo punto di vista si comprende l’esigenza di introdurre obblighi di comunicazione al mercato delle operazioni con determinate categorie di derivati. 

Nella lettera inviata alla SEC, l’organizzazione no-profit Americans for Financial Reform suggerisce di rendere più frequenti le comunicazioni da parte degli investment advisers registrati e di includervi anche informazioni dettagliate circa le posizioni detenute in derivati sofisticati, quali i trs. Ne conseguirebbe in effetti una riduzione delle asimmetrie informative tra i soggetti del mercato nonché la sottoposizione al vaglio dell’autorità di vigilanza dei rischi che tali operazioni possono presentare per il sistema finanziario nel suo complesso.

Può dunque rilevarsi come, a più di dieci anni dall’entrata in vigore del Dodd-Frank Act, persistano tuttora delle zone d’ombra in grado di minare il raggiungimento dell’obiettivo della trasparenza nelle operazioni finanziarie.

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