INDICE
- La Corte di Giustizia dell’UE riconosce il diritto al silenzio nei procedimenti sanzionatori di competenzadella Consob. Di Roberto Macchia e Luciano Vitali
- In attesa della plenaria la “fuga in avanti” del TAR Toscana: la modifica del RTI in fase di gara è sempre possibile. Di Lorenzo Magnanelli
- La rideterminazione della soglia automatica di anomalia dopo la proposta di aggiudicazione: si o no? Di Gaia Mazzei
- La vicenda Wallstreetbets tra libertà di espressione e manipolazione del mercato. Di Tommaso Mazzetti Di Pietralata
- L’erronea annotazione dello stadio clinico della regione Lombardia e le sue conseguenze. Di Angelica Pizzini
- Le SS.UU. superano il divario tra preposizione pubblica e privata. Di Giuditta Russo
- La tutela del diritto alla salute come bene collettivo: il caso dei c.d. “furbetti del vaccino” e la pronuncia del TAR Sicilia. Di Emanuel Silvestri
- Il MIBACT individua le parti del Franchi da salvaguardare, negando la demolizione, ma ammettendo la ristrutturazione. Di Antonio Triglia
- L’obbligo di bonifica nelle società: il caso della fusione e del fallimento. Di Piergiorgio Vaccarini
- La rapidità dell’appalto «primule» per le vaccinazioni anti-Covid. Di Elisabetta Zinno
1. LA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UE RICONOSCE IL DIRITTO AL SILENZIO NEI PROCEDIMENTI SANZIONATORI DI COMPETENZA DELLA CONSOB.
ROBERTO MACCHIA e LUCIANO VITALI
Lo scorso 2 Febbraio 2021, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, riunita in Grande Sezione, ha riconosciuto l’esistenza, in capo alle persone fisiche, di un diritto al silenzio, tutelato dagli articoli 47, comma 2, e 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), nell’ambito dei procedimenti innanzi alla Consob per gli illeciti amministrativi di abuso di mercato.
Tale pronuncia giunge al termine di un lungo iter giudiziario, nel corso del quale sono stata avanzati dei dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies T.U.F. nella parte in cui sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della Consob ovvero nel ritardare l’esercizio delle funzioni di vigilanza della stessa Autorità, anche nei confronti di colui al quale la medesima Consob, nell’esercizio delle citate funzioni, contesti un abuso di informazioni privilegiate. Sul punto, la Corte costituzionale (adita dalla Corte di Cassazione) osserva preliminarmente come l’art. 187-quinquiesdecies sia stato introdotto nell’ordinamento italiano in attuazione della Dir. 2003/6/CE (la cui relativa disciplina è confluita nel Reg. UE n. 596/2014). Tale normativa, difatti, imponeva agli Stati Membri di sanzionare il silenzio serbato nel corso delle indagini delle Autorità di vigilanza sui mercati finanziari (in particolare in sede di audizione) dal soggetto autore di operazioni che integrano illeciti sanzionabili.
Con riferimento specifico ai dubbi di legittimità costituzionale di una tale normativa, la Consulta rileva come una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecises possa risultare “in contrasto con il diritto dell’Unione, nel caso in cui le suddette disposizioni del diritto derivato dell’Unione dovessero essere intese nel senso che impongono agli Stati membri di sanzionare il silenzio osservato, nell’ambito di un’audizione dinanzi all’autorità competente, da una persona sospettata di abuso di informazioni privilegiate”.
In virtù di tali considerazioni, la Corte ha conseguentemente rimesso alla Corte di Giustizia dell’UE le seguenti questioni pregiudiziali: in primo luogo, se l’articolo 14, paragrafo 3, della Direttiva 2003/6/CE, in quanto applicabile ratione temporis, e l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del Regolamento n. 596/2014, debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuta di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”; ed in secondo luogo, in caso di risposta negativa a tale prima questione, se l’articolo 14, paragrafo 3, della Direttiva 2003/6/CE, (e quindi
l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del Regolamento n. 596/2014) sia compatibile con gli articoli 47 e 48 CDFUE, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU in merito all’art. 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nella misura in cui impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’Autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”.
La Corte di Giustizia dopo aver affermato la ricevibilità delle questioni sottopostele, analizza in un primo momento la portata degli art. 47 e 48 CDFUE per affermare la vigenza, nel territorio dell’Unione, dell’art. 6 CEDU. Infatti, affermano i giudici di Lussemburgo, sebbene la Convenzione non costituisca uno strumento giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione, ai sensi dell’art. 6, par. 3 TUE i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU fanno parte integrante del diritto dell’Unione in quanto principi generali. Inoltre, ai sensi dell’art. 53, par. 3 CDFUE, tali diritti hanno un significato ed una portata identici a quelli attribuiti agli stessi dalla Convenzione. Gli artt. 47 e 48 CDFUE, come interpretati dalla giurisprudenza della stessa Corte, corrispondono rispettivamente all’art. 6, par. 1 CEDU e all’art. 6, parr. 2 e 3 CEDU, derivandone la necessità di un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte EDU in merito alle citate disposizioni.
Successivamente la Corte passa in rassegna l’applicabilità del c.d. diritto al silenzio nei procedimenti dinanzi all’Autorità amministrativa che sono suscettibili di sfociare nell’irrogazione di sanzioni amministrative aventi natura sostanzialmente penale, rammentando come sia il giudice a dover valutare i requisiti in presenza dei quali tutelare il diritto al silenzio.
La Corte ricorda, altresì, come tanto la Corte EDU quanto la CGUE, nella loro giurisprudenza precedente, siano giunte a ritenere come alcune delle sanzioni amministrative inflitte dalla CONSOB paiono perseguire finalità repressiva e presentare un alto grado di severità, circostanza che quindi consentirebbe il riconoscimento del diritto in questione. Tuttavia, pur riconoscendo la sussistenza del diritto al silenzio, la Corte di Giustizia coglie l’occasione per affermarne i limiti, riconoscendo che l’esercizio di tale diritto non può “giustificare qualsiasi omessa collaborazione con le autorità competenti, qual è il caso di un rifiuto di presentarsi ad un’audizione prevista da tali autorità o di manovre dilatorie miranti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa”.
Dopo aver affermato quanto precede, la Corte di Giustizia si concentra sulla possibilità di individuare una lettura delle disposizioni ex art. 14, par. 3 della Dir. 2003/6/CE e dell’art. 30, par. 1, lett. b) del Reg. UE n. 596/2014 conforme al diritto al silenzio, “nel senso che esse non impongono di sanzionare una persona fisica per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente a titolo della direttiva summenzionata o del regolamento sopra citato risposte da cui potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative a carattere penale oppure la sua responsabilità penale”. In tale ottica, dopo essersi richiamata al principio secondo cui il diritto derivato dell’UE deve essere interpretato in conformità con l’insieme del diritto primario, la Corte afferma che “tanto l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 quanto l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 si prestano ad una interpretazione conforme agli articoli 47 e 48 della Carta, in virtù della quale
essi non impongono che una persona fisica venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente risposte da cui potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale”. Attraverso una tale lettura delle disposizioni in discorso, si deve dunque escludere un contrasto con gli artt. 47 e 48 CDFUE per il solo fatto che esse non escludono espressamente l’inflizione di una sanzione per un tale rifiuto.
La pronuncia si colloca nel percorso di estensione delle garanzie tipiche del procedimento penale al procedimento amministrativo sanzionatorio, ampliando le garanzie nei confronti dei soggetti sottoposti alla vigilanza della Consob e riconoscendo loro il diritto a non auto-incriminarsi, pur con l’importante limite, affermato dalla Corte di Giustizia, consistente nel divieto, nell’esercizio di tale diritto, di omettere qualsiasi forma di collaborazione con l’Autorità provocando una dilatazione dei termini del procedimento.
2. IN ATTESA DELLA PLENARIA LA ‘FUGA IN AVANTI’ DEL TAR TOSCANA: LA MODIFICA DEL R.T.I. IN FASE DI GARA È SEMPRE POSSIBILE
LORENZO MAGNANELLI
La Sezione II del T.A.R. di Firenze, con la sentenza n. 217 del 10 febbraio 2021, si è pronunciata sull’annosa questione dei confini di applicabilità dell’art. 48, commi da 17 a 19, d.lgs. n. 50/2016, esprimendosi a favore della tesi di una generale possibilità di modifica soggettiva dei RTI, sia in fase di esecuzione che in fase di gara, in caso di vicende patologiche sopraggiunte che colpiscono un singolo componente e che ne determinano la perdita di alcuno dei requisiti di ordine generale di cui all’art. 80 del Codice dei contratti pubblici.
Nell’art. 48, d.lgs. n. 50/2016, si rinvengono tre ipotesi di deroga al principio di immodificabilità contenute nei commi 17, 18 e 19 limitatamente alla fase di esecuzione. Tuttavia, il comma 19 ter del medesimo articolo, introdotto con il decreto correttivo al codice del 2017, estende le medesime ipotesi anche alla fase di gara. Lo stesso d.lgs. n. 56/2017 ha inoltre introdotto ai commi 17 e 18 la possibilità di modificare la composizione soggettiva del RTI anche in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80. Dal combinato disposto delle due disposizioni risulterebbe quindi possibile la modifica soggettiva della compagine in costanza di gara negli stessi casi in cui tale modifica è possibile nella fase di esecuzione.
Il tema fondamentale è l’individuazione dell’esatto perimetro dello scopo elusivo, l’unico limite alla possibilità di variazioni soggettive che risulta espressamente dalla lettura delle disposizioni in esame. Il quesito è stato rimesso all’Adunanza plenaria, essendosi originati in seno al Consiglio di Stato due orientamenti contrapposti, il primo a favore di un’estensione anche alla fase di gara della deroga al principio di immodificabilità soggettiva delle formazioni complesse a fronte del chiaro disposto del comma 19 ter dell’art. 48 (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 2245/2020), il secondo che invece, attribuendo a tale norma natura eccezionale, ritiene preclusa qualsiasi variazione dei componenti del raggruppamento (Consiglio di Stato, sez. V, n. 833/2021).
Il T.A.R. di Firenze, aderendo al primo orientamento, ha cercato di anticipare quello che potrebbe essere il contenuto della statuizione dei giudici dell’Adunanza plenaria. Nel caso in esame la ricorrente, mandataria di una costituenda ATI, impugnava il provvedimento di esclusione di tale ATI dalla gara, basato sulla riscontrata carenza dei requisiti di ordine generale in seno ad una mandante che, già in precedenza, aveva comunicato il suo volontario intendimento di recedere dalla compagine. L’ATI, in costanza di gara, aveva quindi richiesto alla stazione appaltante la possibilità di modificare in riduzione il raggruppamento, senza tuttavia ricevere alcuna risposta. Solo nel momento in cui veniva comunicata l’esclusione dell’intero raggruppamento il RUP evidenziava che, a suo avviso, la proposta di modifica soggettiva era finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di cui all’art. 80.
Sebbene all’apparenza tale controversia potesse apparire di pronta soluzione, considerando che l’esclusione dell’intero raggruppamento era stata disposta senza contraddittorio e che in tempi non sospetti la mandante priva dei requisiti aveva manifestato la volontà di fuoriuscire dal raggruppamento, il T.A.R. decide di pronunciarsi sull’esatto confine del comma 19 ter dell’art. 48.
Come visto, l’orientamento giurisprudenziale restrittivo considera il comma 19 ter dell’art. 48 una norma eccezionale, al punto che non tutte le ipotesi previste dai commi 17 e 18 per la fase di esecuzione potrebbero legittimare una modificazione soggettiva del raggruppamento anche in fase di gara. A sostegno di un tale assunto, la parte ricorrente nel giudizio in esame ha sostenuto che, avendo il d.lgs. n. 56/2017 introdotto l’inciso “ovvero in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80” all’interno dei commi 17 e 18 e, al contempo, il comma 19-ter, l’intenzione del legislatore del correttivo sarebbe stata quella di estendere alla fase di gara le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 e di limitare, al contempo, la possibilità di modificare la composizione del raggruppamento per sopravvenuta perdita dei requisiti di cui all’art. 80 alla sola fase di esecuzione dei lavori.
Tale lettura viene sconfessata dal T.A.R. di Firenze sulla base di tre argomenti. In primo luogo, stando ad un’interpretazione letterale, i commi 17 e 18 si riferiscono espressamente e per ciascun profilo alla fase esecutiva e l’inciso aggiunto dal decreto correttivo si inserisce in modo coerente ed omogeneo in tale contesto regolatorio afferente i mutamenti intervenuti in corso di esecuzione. Il comma 19 ter va invece ad estendere la richiamata disciplina delle modifiche soggettive anche alla fase di gara, senza però operare alcuna differenziazione all’interno delle ipotesi dei commi 17, 18 e 19.
Sulla base dell’interpretazione basata sulla ratio della novella legislativa, non vi è ragione di operare una distinzione fra le varie cause di esclusione. Il decreto correttivo ha infatti apportato una deroga al principio dell’immodificabilità della composizione delle ATI al fine di evitare che un intero raggruppamento sia escluso dalla gara a causa di eventi riguardanti un’unica impresa componente. “Dunque, l’obiettivo del legislatore è quello di garantire la partecipazione degli operatori “sani” costituiti in raggruppamento, evitando che la patologia di un operatore travolga ingiustamente anche gli altri, salvaguardando al contempo l’interesse pubblico della stazione appaltante a non perdere offerte utili”.
Infine, sulla base di un’interpretazione logica e costituzionalmente orientata delle disposizioni, se tutte le fattispecie previste ai commi 17 e 18 si sostanziano nella perdita di requisiti di ordine generale, non è ravvisabile alcuna ragione che possa giustificare la diversità di conseguenze sulla permanenza in gara tra l’ipotesi in cui un’impresa raggruppata sia, ad esempio, raggiunta da un’interdittiva antimafia anche per fatti gravissimi (caso in cui sarebbe pacificamente consentita la modifica soggettiva del raggruppamento in corso di gara) e quella in cui sia invece interessata dalla perdita di un altro requisito di carattere generale: una tale differenziazione sarebbe contraria ai principi di ragionevolezza, uguaglianza, proporzionalità e logicità. Non è possibile, a giudizio del collegio, operare una categorizzazione delle cause di esclusione di cui all’art. 80 sulla base di una supposta maggiore e minore imputabilità soggettiva al fine di giustificare l’effetto del contagio di alcuni eventi patologici a tutte le altre
imprese raggruppate “posto che, in materia di appalti, le cause di esclusione assumono rilievo a livello oggettivo a prescindere dall’atteggiamento psicologico del concorrente”.
L’unico limite alle modifiche soggettive è ravvisabile nel fatto che le stesse non devono essere finalizzate ad eludere la normativa sugli appalti pubblici, essendo chiaro che tale ipotesi non si configuri nei casi di sopravvenuta carenza dei requisiti di qualificazione, “dovendosi distinguere fra “mancanza” originaria e “perdita” sopravvenuta di un requisito già sussistente alla data della domanda di partecipazione”.
In questo senso, secondo il TAR, deve essere letto anche il comma 19 dell’art. 48, che riguarda il recesso di una delle imprese raggruppate, che non è possibile ove sia finalizzato allo scopo elusivo. In questo caso, considerando che la modifica opererebbe “in riduzione”, il favor partecipationis accordato al RTI non entrerebbe in collisione con il principio della par condicio competitorum. In altre parole, nel caso di recesso, sarebbe difficile ipotizzare che la variazione soggettiva abbia lo scopo di eludere la mancanza di un requisito di partecipazione, essendo gli operatori economici rimanenti all’interno del RTI in possesso delle qualificazioni necessarie richieste dal Codice e dalla lex specialis di gara.
3. LA RIDETERMINAZIONE DELLA SOGLIA AUTOMATICA DI ANOMALIA DOPO LA PROPOSTA DI AGGIUDICAZIONE: SI O NO?
GAIA MAZZEI
La sentenza del Tar Calabria, sez. I, n.1417/2020 ha ad oggetto una controversia relativa all’interpretazione dell’art. 95, co 15, del d.lgs. 50/2016, il quale sancisce che ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte.
La vicenda prendeva avvio con il ricorso proposto dall’impresa Cosmo Baffa, che aveva partecipato alla procedura indetta dalla impresa Sorical S.p.a. in liquidazione per l’affidamento dell’appalto dei lavori di manutenzione delle infrastrutture idrauliche e civili del complesso delle opere idropotabili della Regione Calabria, con importo a base d’asta di 975.000.00 euro.
La gara, da aggiudicare ex art. 36, comma 9-bis, del codice dei contratti pubblici, d.lgsl. n. 50/2016, secondo il criterio del massimo ribasso unico sull’elenco prezzi a base d’asta e con esclusione automatica delle offerte ai sensi dell’art. 97, comma 8, del medesimo codice, aveva visto inizialmente prima classificata e, pertanto, destinataria della proposta di aggiudicazione l’impresa individuale Baffa Cosmo, in virtù del maggior ribasso da questa offerto di € 32,956% rispetto alla soglia di anomalia del 32,959%.
La soglia veniva tuttavia rideterminata in 32,950%, in seguito alla riammissione in gara di un’altra concorrente, la Edilbotro s.r.l., inizialmente esclusa per mancata sottoscrizione digitale dell’offerta al momento del suo caricamento nel sistema informatico utilizzato per lo svolgimento della procedura in forma telematica.
Per effetto di ciò la migliore offerta, immediatamente al di sotto della soglia da ultimo menzionata, era risultata quella della impresa Angelo Chimento s.r.l., pertanto dichiarata aggiudicataria.
La ricorrente impresa Baffa Cosmo aveva lamentato, in primo luogo, la violazione del principio di invarianza, di cui all’art 95, co 15, del d.lgs. n. 50/2016, secondo cui la riammissione della EdilBotro non avrebbe potuto incidere sulla soglia di anomalia precedentemente determinata. Tuttavia, proprio sulla base di tale norma, la contro interessata aveva dedotto l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, affermando, in sostanza, che un’eventuale pronuncia giurisdizionale emessa in esito al presente giudizio non avrebbe potuto, in base al principio di invarianza, incidere sull’individuazione della soglia di anomalia.
Nondimeno, il ricorso proposto dall’impresa Baffa Cosmo non era volto ad ottenere una variazione che avrebbe inciso sulla soglia di anomalia, ma piuttosto all’affermazione dell’illegittimità di una diversa soglia di anomalia a seguito della riammissione in gara della EdilBotro S.r.l.
Quindi, un’eventuale sentenza che avesse accolto le tesi dell’impresa ricorrente avrebbe ristabilito una situazione da considerare già cristallizzata e non avrebbe determinato alcuna variazione.
Il seggio di gara aveva ritenuto non operante, prima dell’aggiudicazione definitiva o dell’accettazione della proposta di aggiudicazione, il principio di invarianza, con la conseguenza che, nel caso di specie, nel quale vi era stata solo proposta di aggiudicazione in favore dell’impresa Baffa Cosmo, la riammissione della EdilBotro S.r.l. aveva determinato la ridefinizione della soglia di anomalia. È questa anche la tesi esposta dalle parti resistenti nel presente giudizio.
Il Collegio aveva osservato un contrasto di vedute in giurisprudenza.
Si era registrato, infatti, un orientamento secondo il quale la cristallizzazione della soglia sarebbe conseguita solo al provvedimento di aggiudicazione definitiva. Secondo tale opzione ermeneutica, prima dell’aggiudicazione definitiva dalla stazione appaltante, la riammissione di un concorrente avrebbe determinato la necessità di rideterminare la soglia di anomalia.
Secondo altro orientamento il principio di invarianza avrebbe dovuto operare già a seguito della proposta di aggiudicazione.
Il Collegio aveva ritenuto di aderire a questo secondo orientamento prettamente letterale, giacché la giurisprudenza aveva messo in luce che qualunque modifica della platea dei partecipanti si poteva prestare, ancorché del tutto astrattamente, a dubbie ed opportunistiche soluzioni che il legislatore aveva esplicitamente inteso scongiurare adottando una formulazione ampia e priva di distinzioni, per la delicatezza degli interessi coinvolti. Infatti, quanto all’eventuale riammissione ovvero esclusione a seguito di pronuncia giurisdizionale, l’intervento ex post rendeva ipoteticamente possibile per ogni concorrente scegliere quali ammissioni o esclusioni contestare, giovandosi del principio processuale della domanda, modulando tale scelta al fine di ottenere la soglia di anomalia per lui più utile.
Tale interpretazione era apparsa, oltre che aderente alla lettera della norma, quella maggiormente conforme alla ratio della stessa, in quanto consentiva di evitare qualsiasi comportamento teso ad ottenere in maniera strumentali variazioni incidenti sulla determinazione della soglia di anomalia.
Aveva ritenuto, pertanto, il Collegio che il motivo fosse fondato, con conseguente illegittimità degli atti impugnati.
Ad oggi, l’impresa Angelo Chimento s.r.l., resistente in primo grado, ha proposto appello avverso la sentenza del Tar Calabria, e il Consiglio di stato, Sez. V, 22/01/21, n. 683 ha ribaltato la decisione precedentemente statuita ed accoglie l’appello: la giurisprudenza della Sezione ritiene che occorra aver riguardo ad un’interpretazione teleologica della norma, incentrata cioè sullo scopo con essa perseguito dal legislatore, ravvisabile nella esigenza di impedire impugnazioni di carattere strumentale, in cui il conseguimento della aggiudicazione è ottenibile non già per la portata delle censure dedotte contro gli atti di gara e per la posizione in graduatoria della ricorrente, ma solo avvalendosi degli automatismi insiti nella determinazione automatica della soglia di anomalia.
Nell’ambito di questo indirizzo giurisprudenziale si è precisato, sul piano sistematico, che l’art.95, co 15, del d.lgs. n. 50/2016 non può invece essere inteso nel senso di precludere iniziative giurisdizionali legittime, che anzi sono oggetto di tutela costituzionale, dirette in particolare a contestare l’ammissione alla gara di imprese prive dei requisiti di partecipazione o autrici di offerte invalide che nondimeno abbiano inciso sulla soglia di anomalia automaticamente determinata.
In tale prospettiva si è ritenuto quindi che fosse a fortiori consentito all’amministrazione aggiudicatrice di rivedere il proprio operato ed in particolare di regolarizzare offerte da mere irregolarità non invalidanti e suscettibili di essere sanata, avuto riguardo anche al fatto che l’art. 95, co 15, d.lgs. n. 50/2016 fa riferimento alla fase di regolarizzazione, oltre che di ammissione o esclusione delle offerte, come sbarramento temporale oltre il quale non è possibile alcun mutamento della soglia di anomalia.
Questa è l’ipotesi verificatasi nel caso di specie.
Come risulta, infatti, dalle deduzioni delle parti e dai verbali di gara versati agli atti di causa, la soglia di anomalia è stata modificata quando ancora non si era pervenuti ad un provvedimento di aggiudicazione, sussistendo solo una proposta del seggio di gara a favore della originaria ricorrente impresa.
Questa è poi venuta meno per effetto della riapertura della gara in seguito alla riammissione della EdilBotro S.r.l., da cui è conseguita una nuova soglia di anomalia che ha portato all’aggiudicazione all’appellante.
4. LA VICENDA WALLSTREETBETS TRA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE E MANIPOLAZIONE DEL MERCATO
TOMMASO MAZZETTI DI PIETRALATA
La Securities Exchange Commission (SEC), con un comunicato rilasciato il 29 gennaio 2021, ha annunciato la propria intenzione di avviare un’indagine sulla peculiare situazione di volatilità del mercato che ha caratterizzato il prezzo di alcuni dei titoli negoziati sui mercati regolamentati durante l’ultima settimana del mese di gennaio.
La vicenda ha riguardato principalmente il titolo della catena di negozi americana GameStop il cui fatturato era in costante declino da qualche anno, e le cui difficoltà finanziarie erano aumentate a seguito dell’emergenza pandemica.
All’inizio del mese di gennaio 2021 il nuovo consiglio di amministrazione aveva presentato il piano di rilancio della società. A seguito di questa notizia alcuni piccoli investitori, operanti singolarmente ed in modo diretto sui titoli della società quotati tramite piattaforme di trading online, hanno iniziano ad acquistare azioni di GameStop, determinandone una risalita nei prezzi di quotazione.
Nei giorni successivi alcuni fondi speculativi hanno effettuato alcune operazioni di vendita allo scoperto di ingenti quantità di titoli di GameStop, confidando che la società non si sarebbe ripresa dalla situazione di difficoltà in cui essa versava. Tanto più che il rilevante volume di vendite allo scoperto ha prodotto un calo della fiducia dei possessori del titolo rispetto alle possibilità di permanenza nel mercato della società, con la conseguenza che, intimoriti dalla mole di scommesse sulla perdita di valore delle azioni, hanno cominciato a disfarsene, contribuendo così al crollo della quotazione di mercato dei titoli azionari.
In risposta a tali operazioni finanziarie, alcuni piccoli investitori, hanno avviato un consistente numero di acquisti dei titoli azionari, che hanno determinato un esponenziale aumento del valore del titolo. Questa moltitudine di operazioni è stata propiziata da numerose sollecitazioni provenienti in particolare da alcuni piccoli investitori attivi su WallStreetBets, che costituisce una sezione della più ampia piattaforma di discussione online Reddit, all’interno della quale i membri si confrontano e discutono in merito alle operazioni finanziarie da intraprendere.
Né è derivata una considerevole perdita economica per i fondi di investimento che avevano inizialmente scommesso sul crollo della quotazione del titolo. La medesima dinamica finanziaria si è ripetuta poi in seguito, con analogo esito, con riferimento ai titoli azionari di altre compagnie (tra cui Blackberry e Nokia), che erano stati venduti allo scoperto in grande quantità da fondi speculativi.
In questo contesto la SEC, nel comunicato del 29 gennaio, ha dichiarato che la propria indagine sarà diretta a ricostruire se siano state poste in essere condotte di
manipolazione del mercato (“abusive or manipulative trading activities”), e ha inoltre invitato tutti coloro che effettuano acquisti nei mercati regolamentati ad astenersi dal porre in essere condotte di questo genere.
La manipolazione del mercato consiste nella condotta orientata a fornire al mercato una falsa indicazione di prezzo, presentandola come se costituisse il risultato dell’incontro tra domanda e offerta, allo scopo di indurre gli operatori ad effettuare scelte non fondate su elementi finanziari corretti e completi, ledendo così il diritto della generalità degli investitori ad effettuare valutazioni finanziarie consapevoli.
La disciplina legislativa vigente negli Stati Uniti si rinviene in numerose previsioni, tra cui spicca la sezione 9(a)2 del Securities Exchange Act del 1934, che proibisce in via generale a chiunque, da solo o assieme ad altri, di porre in essere con ogni mezzo, anche telematico, azioni dirette a determinare delle variazioni in aumento o in diminuzione del valore di un titolo, al solo scopo di indurre altri ad acquistare o vendere quel determinato strumento finanziario.
Dall’analisi dell’attività condotta dalla SEC, le condotte manipolatorie poi perseguite dall’autorità statunitense possono dividersi in due categorie: da una parte, la creazione di un aumento fittizio del volume di scambi di uno strumento finanziario; dall’altra, la diffusione di informazioni false al fine di determinare variazioni nel prezzo del titolo finanziario.
Alla prima categoria appartengono, ad esempio, le operazioni di wash trading, espressamente vietate dalla sezione 9(a)1 del Securities Exchange Act, ossia quelle operazioni di acquisto e vendita del medesimo strumento finanziario effettuate in serie dal medesimo soggetto al fine di fornire al mercato una rappresentazione falsa del volume di scambi del titolo.
Alla seconda categoria si riconducono, sempre in via esemplificativa, gli schemi pump and dump, tipologia di frode che consiste nel far lievitare artificialmente il prezzo di azioni a bassa capitalizzazioneacquistate ad un prezzo conveniente di modo da poterle rivendere ad un prezzo superiore. Si sollecitano infatti, tramite telefonate o comunicazioni telematiche, gli investitori ad acquistare un titolo rappresentandolo come redditizio, creando così una piccola bolla di valore destinata a sgonfiarsi poco dopo (ma non prima) che i promotori abbiano effettuato la loro plusvalenza tramite la vendita degli stessi titoli finanziari.
Nel caso in esame, invece, le sollecitazioni dei membri della piattaforma online non erano in alcun modo ingannevoli, bensì estremamente trasparenti nel loro obiettivo di sollecitare l’acquisto di un titolo che ritenevano oggetto di un numero non giustificato di vendite allo scoperto, riponendo quindi la propria fiducia nel piano economico di rilancio presentato da GameStop.
Nella prassi della SEC il mero scambio di opinioni circa le operazioni da porre in essere sul mercato non pare pertanto integrare una ipotesi di manipolazione del mercato se non è corredato da alcun elemento che implichi dichiarazioni mendaci o una incompletezza delle informazioni. Un sindacato sulla liceità di dichiarazioni non truffaldine susciterebbe anzi delle perplessità circa la sua compatibilità con il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che tutela la libertà di espressione.
D’altro canto, in chiave comparatistica, si può osservare come anche nella disciplina italiana in materia di manipolazione del mercato la condotta manipolatoria è quella che si sostanzia nel fornire al mercato informazioni non veritiere o nella rappresentazione ingannevole del volume degli scambi.
L’art. 185 del D.lgs n. 58/1998 (t.u.f.) definisce infatti manipolazione del mercato il comportamento di chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate, o altri artifizi, che siano concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari.
Tuttavia, la formulazione ampia della sezione 9(a)2 del Securities Exchange Act garantisce un margine di discrezionalità per censurare quelle attività che, pur non sostanziandosi in pratiche oggetto di un espresso divieto, o nella diffusione di informazioni non veritiere, sono comunque dirette ad influenzare i meccanismi di formazione del prezzo di uno strumento finanziario con l’obiettivo ultimo di indurne l’acquisto o la vendita. L’esercizio di tale discrezionalità sarebbe poi ulteriormente giustificato dalla considerazione che il fenomeno in esame non ha precedenti, e può condurre ad una ridefinizione sostanziale i tradizionali equilibri tra gli operatori del mercato.
Pertanto, una valutazione nel senso della illiceità dell’azione degli utenti di WallStreetBets potrebbe discendere dalla prova di una sua preordinazione ad influenzare in modo artificioso il mercato di un titolo.
Tuttavia, come chiarito in precedenza, l’analisi della prassi applicativa della sezione 9(a)2 del Securities Exchange Act rivela come la SEC si sia sempre orientata nel senso di non sanzionare tale condotte laddove non si riscontrano elementi di falsità o in presenza di rappresentazioni ingannevoli.
La SEC dovrà quindi adottare le sue determinazioni e definire il labile confine tra le semplici dichiarazioni espresse nel contesto di una piattaforma online di discussione online e le condotte di tipo manipolatorio nel mercato azionario.
Giova comunque osservare che a confrontarsi sulle strategie di investimento non sono solo gli utenti dei forum, ma anche i fondi di investimento. Si pensi alle cosiddette idea dinners, ossia quegli incontri informali in cui gli amministratori dei fondi discutono di azioni, mercati e trend economici, ed in conseguenza dei quali programmano pertanto gli investimenti. La novità risiede ora nel progresso tecnologico che permette anche ai comuni investitori di esercitare un’influenza rilevante sui meccanismi di determinazione dei prezzi, dal momento che sono in condizione non solo di comunicare su vasta scala e aggregarsi in modo immediato, ma anche di operare sul mercato autonomamente e con relativa semplicità attraverso l’utilizzo delle piattaforme consumer di trading online.
5. L’ERRONEA ANNOTAZIONE DELLO STADIO CLINICO DELLA REGIONE LOMBARDIA E LE SUE CONSEGUENZE
ANGELICA PIZZINI
Nel mese di gennaio 2021 si è sviluppata una diatriba fra la regione Lombardia da un lato e il Ministero della salute e Istituto superiore della sanità dall’ altro.
La causa di questo scontro è da ricercare in alcuni errori nella annotazione del c.d. stadio clinico relativo alla regione Lombardia con la conseguenza che, a seguito della rettifica dei dati trasmessi, la regione in questione sembrerebbe aver affrontato un periodo in zona rossa, senza che ne ricorressero necessariamente i presupposti.
Ai sensi del Decreto del Ministro della salute del 30 aprile 2020, il Ministero della Salute, tramite apposita cabina di regia, che coinvolge sia le Regioni sia l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), ha il compito di raccogliere le informazioni necessarie per la classificazione del rischio e realizza una classificazione settimanale del livello di rischio di una trasmissione non controllata e non gestibile di SARS- CoV-2 nelle Regioni.
Il monitoraggio prevede il calcolo di 16 indicatori che tengono conto di molteplici fattori, quali le capacità di monitoraggio del soggetto interessato, la stabilità di trasmissione e la tenuta dei sistemi sanitari e le capacità di accertamento diagnostico e gestione dei contatti. A questi indicatori di carattere obbligatorio se ne possono aggiungere 5 di carattere opzionale tramite la raccolta di dati da numerosi flussi informativi.
L’ISS svolge un ruolo di coordinamento e di sorveglianza epidemiologica con la raccolta dati che avviene su base giornaliera e successivamente questi dati vengono consolidati settimanalmente al fine di stabilire il grado di rischio per il soggetto interessato e sancirne quindi la permanenza nella stessa categoria di rischio (gialla arancione o rossa) o l’eventuale passaggio ad una categoria diversa in base all’aggravarsi o meno del rischio calcolato.
Normalmente, un primo calcolo degli indicatori da parte dell’ISS viene inviato ai referenti regionali che hanno la possibilità di evidenziare incongruenze ed errori, consentendo così l’instaurazione di un contraddittorio preventivo alla cristallizzazione dei dati e alle eventuali modifiche. Nello specifico, trova applicazione il meccanismo del silenzio assenso da parte della
regione interessata: infatti, in caso non vi siano rilevati problemi il dato viene quindi in un report standard e discusso nella Cabina di Regia.
Il riferimento al meccanismo del silenzio assenso entro termini definiti è esplicitato nelle e-mail di validazione.
La regione Lombardia, al pari di tutte le regioni, partecipa regolarmente all’aggiornamento e al consolidamento dei dati.
La settimana che ha interessato i c.d. errori di calcolo è la trentacinquesima settimana di monitoraggio (relativa al periodo che va dal 4 al 10 gennaio 2021).
Per questo periodo è stata seguita la procedura consueta e all’esito della valutazione, la Lombardia è stata considerata a rischio alto di una epidemia non controllata e non gestibile.
Tale valutazione è stata effettuata sulla base di una valutazione combinata della probabilità di diffusione del virus SARS-CoV-2 e dell’impatto della malattia COVID-19 sui servizi sanitari assistenziali. Il sistema di monitoraggio, infatti, stabilisce il dato finale sulla base della valutazione di entrambi questi fattori e solo in presenza di almeno un indicatore “alto” la regione viene considerata zona rossa (ai sensi della c.d. matrice di valutazione del rischio).
La regione presentava una probabilità di diffusione del virus SARS-CoV-2 moderata ma una valutazione dell’impatto con rischio elevato e come tale era stata giudicata zona rossa.
Il 20 gennaio 2021, la regione Lombardia ha inviato come di consueto l’aggiornamento dei suoi dati: in tale aggiornamento si procedeva anche ad una rettifica dei dati relativi anche alla settimana 4-10 gennaio 2021. La modifica riguarda in particolare i dati sul c.d. stato clinico ovvero il conteggio di quante persone sono sintomatiche, con data inizio sintomi, e quante asintomatiche.
Sulla base dei nuovi dati, l’indice Rt (indice di trasmissione del virus che tiene conto solamente dei soggetti sintomatici) che prima della modifica era pari all’1.4 sarebbe stato ricalcolato pari allo 0.8 anche per la settimana precedente, trascorsa dalla regione in zona rossa.
Secondo l’ISS la regione Lombardia aveva spesso lasciato incompleta la colonna relativa allo stadio clinico e questo comportamento si era ripetuto anche a seguito di segnalazioni in tal senso da parte dell’ISS, a ciò va aggiunto il dato relativo all’assenza di contestazione da parte della Lombardia dei dati prodotti dall’ISS con la conseguente e continua operatività del meccanismo del silenzio assenso, come fatto notare dall’ISS stesso nel comunicato stampa n. 6 del 23 gennaio 2021. Stando a questi dati quindi, l’errore che ha causato una sovrastima del valore Rt sarebbe interamente da ricondurre alle omissioni della regione la quale non è stata in grado di fornire i dati necessari, o al più ha fornito dati contraddittori o incompleti.
La difesa da parte della regione si è invece fondata sulla constatazione del fatto che il dato relativo allo stato clinico non rientrerebbe fra quelli obbligatori ma fra quelli facoltativi e che quindi un’eventuale omissione o mancata segnalazione non sarebbe sufficiente ad individuare la regione come responsabile e sostenendo che l’errore dovesse essere invece individuato nell’algoritmo elaborato dall’ISS e dalla fondazione Bruno Kessler.
Probabilmente la verità potrà emergere solo con la completa disclosure dei dati reperiti dall’ISS e con il raffronto degli stessi con quelli in possesso della regione Lombardia.
In ogni caso, emerge un problema di comunicazione e collaborazione fra la regione coinvolta e gli organismi centrali che ha riversato i suoi effetti sui cittadini che
hanno dovuto affrontare conseguenze economiche gravi (la classificazione della zona rossa comporta ad esempio la chiusura della gran parte delle attività commerciali) sostanzialmente non giustificate dai dati scientifici.
Un errore che, forse, dato il clamore che la questione ha suscitato, non verrà ripetuto ma che fa riflettere sui meccanismi di coordinamento e controllo fra i vari organismi coinvolti e che sembra richiedere una stretta degli stessi da parte dell’ISS e del Ministero della salute per evitare che le singole regioni possano in futuro trovarsi nella medesima situazione.
6. LE SSUU SUPERANO IL DIVARIO TRA PREPOSIZIONE PUBBLICA E PRIVATA
GIUDITTA RUSSO
Nell’analisi del tema che attiene alla responsabilità della PA per fatti illeciti dei propri dipendenti, di notevole importanza appare la posizione assunta dalle S.U., nella sent.n.13246/2019, in un giudizio avente ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno cagionato alla parte di un giudizio di divisione, a seguito della condotta di un funzionario (poi condannato per peculato), che illecitamente aveva sottratto le somme depositate presso un ufficio giudiziario e alle quali la parte attrice avrebbe avuto diritto.
Il provvedimento di prime cure emesso dal Tribunale di Catania, che condannava il Ministero convenuto al risarcimento, ritenuti sussistenti i presupposti dell’estensione della responsabilità all’Amministrazione, a norma dell’art. 28 Cost (sent.n.4400/2011), era poi stato riformato in secondo grado dalla Corte d’Appello (n.1353/2015), con l’assoluzione dell’appellante (Ministero) da ogni pretesa risarcitoria, per avere il suo dipendente agito per un fine strettamente personale ed egoistico, estraneo all’Amministrazione e addirittura contrario ai fini che essa perseguiva, come tale idoneo ad escludere ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente.
La parte soccombente proponeva quindi ricorso per Cassazione basato, peraltro, su un unico motivo. Ad essere contestata era la violazione e falsa applicazione dell’art. 28 Cost. e dell’art. 2049 cc: ci si doleva dell’esclusione della responsabilità del Ministero, negando che, ai fini dell’applicazione dell’art. 28 Cost., oltre al nesso di causalità fra il comportamento del funzionario e l’evento dannoso, dovesse necessariamente ricorrere anche l’ulteriore presupposto della «riferibilità all’amministrazione di quel comportamento» e si contestava, in ultimo, il fatto che ricadesse esclusivamente sul danneggiato la scelta della PA di affidare la direzione di un ufficio a soggetto rivelatosi privo dei requisiti morali necessari. Si chiedeva, quindi, che l’amministrazione rispondesse del «danno occasionato dalla mancanza o inefficienza dei controlli» e si negava invece operatività al principio secondo cui la responsabilità dell’Amministrazione, nelle ipotesi previste dall’art. 28 Cost., dovesse ritenersi esclusa ogniqualvolta l’agente, profittando delle sue precipue funzioni, avesse dolosamente commesso il fatto per ritrarre egli stesso utilità, non trovando questo giustificazione né nel dettato costituzionale, né in norme di legge e integrando, di contro, un disparitario trattamento a favore dell’Amministrazione. Dal canto suo, il Ministero sosteneva l’esclusione di ogni responsabilità dello Stato nel caso in esame, propugnando, oltre alla possibilità di costituirsi parte civile nel procedimento penale per peculato a carico del funzionario infedele (attesa la natura plurioffensiva del delitto in questione), il carattere assolutamente imprevedibile ed eterogeneo della condotta dell’agente rispetto ai compiti istituzionali cui era preposto, così da escludere un collegamento con essi.
Con ord. n. 28079/2018 la Terza Sezione ha rimesso la questione alle S.U., evidenziando la non univocità degli indirizzi giurisprudenziali sul tema. Nell’ordinanza si sottolinea, da un lato, l’esistenza di un orientamento proprio della prevalente giurisprudenza di legittimità civile e di quella penale più risalente (Cass.n.24744/2006; Cass.n.9260/97; Cass.n.10896/96;
Cass.n.12786/95; Cass.n.12960/91), secondo cui la responsabilità dello Stato (o degli enti pubblici) ex art. 28 Cost. per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è diretta e sussiste, in forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù del rapporto organico, l’attività vada imputata direttamente all’ente. Dall’altro lato, la Suprema Corte prende atto dell’esistenza di un secondo orientamento, proprio invece della giurisprudenza penale più recente (Cass.,Sez.pen.n.13799/2015) e di quella civile minoritaria, riferita in prevalenza a rapporti di preposizione privatistici, in base al quale sussiste la responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico in applicazione dei criteri privatistici che disciplinano la responsabilità indiretta del preponente ai sensi dell’art. 2049 cc, sol che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno. Si configura quindi una responsabilità civile della PA anche nel caso di condotta dei dipendenti pubblici diretta a perseguire finalità esclusivamente personali mediante la realizzazione di un reato doloso, che trova la propria occasione necessaria nell’adempimento di funzioni pubbliche, sempre che detta condotta costituisca uno sviluppo prevedibile dello scorretto esercizio di tali funzioni.
Prima di passare alla soluzione cui hanno aderito le S.U., occorre brevemente soffermarsi sugli artt. 28 Cost. e 2049 cc.
È noto l’ampio dibattito, soprattutto in dottrina e all’indomani dell’entrata in vigore della Carta fondamentale, sulla portata dell’art. 28 Cost.: superate le prime tesi sulla natura meramente sussidiaria della responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quella dell’agente, è invalso il riconoscimento della natura concorrente o solidale delle due responsabilità. La responsabilità dello Stato è ricostruita come diretta in forza del principio dell’immedesimazione organica, dovendo escludersi che l’attività posta in essere al di fuori dei compiti istituzionali dal dipendente pubblico possa imputarsi allo Stato o all’ente pubblico. Secondo la prevalente dottrina pubblicistica, peraltro, la vera portata innovativa dell’art 28 Cost. al momento della sua introduzione fu proprio la previsione, accanto alla responsabilità diretta della PA, di una responsabilità concorrente, sempre diretta, del funzionario o del dipendente, che invece, nel sistema previgente, poteva essere chiamato a rispondere, in solido con l’Ente di appartenenza, solo nei casi previsti da specifiche disposizioni di legge; la norma costituzionale avrebbe cioè disegnato un sistema fondato su due responsabilità concorrenti e solidali, entrambe dirette, spettando esclusivamente al danneggiato la scelta se far valere l’una o l’altra o entrambe.
Il codice civile regola la responsabilità dei padroni e committenti come responsabilità senza colpa. Il concetto di padrone o committente è stato nel tempo ampliato in forza di un’interpretazione evolutiva ed esteso a molte figure di soggetti che, per conseguire i propri fini, si avvalgono dell’opera di terzi a loro legati in forza di vincoli di varia natura. Si è, al riguardo, superata l’originaria configurazione della responsabilità almeno per colpa in eligendo o in vigilando e giunti alla consapevolezza che si è dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui. Si tratta di un’applicazione moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del quale l’avvalimento da parte di un soggetto dell’attività di terzi per il perseguimento dei propri fini comporta l’attribuzione al primo dell’attività compiuta dai terzi nei limiti dei poteri conferiti, comprensiva sia degli effetti favorevoli che di quelli pregiudizievoli, riallocando così i costi delle condotte dannose in capo a colui che si avvale dell’operato altrui.
Dato il contrasto giurisprudenziale in materia e analizzato il quadro normativo rilevante, le S.U., aderendo all’orientamento minoritario più recente della giurisprudenza di legittimità civile e penale, rilevano che nessuna ragione giustifichi più, nell’odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall’esercizio di poteri pubblicistici e quindi vada riconsiderato il preponderante orientamento civilistico dell’esclusione della responsabilità in ipotesi di condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici. Per queste ragioni, la Cassazione ha accolto il ricorso, cassando la sentenza gravata e rinviando il giudizio alla Corte d’Appello.
Deve ammettersi quindi la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui, i quali non si escludono reciprocamente, venendo invece in considerazione singolarmente a seconda del tipo di attività della PA di volta in volta posta in essere: infatti, se l’attività è resa nell’esercizio, pur se eccessivo o illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, l’illecito sarà riferito direttamente all’Ente e questi ne risponderà, altrettanto direttamente, ex art. 2043 cc; se, invece, l’attività è posta in essere dai dipendenti pubblici, approfittando della titolarità o dell’esercizio di quelle funzioni, per il perseguimento di fini obiettivamente estranei o contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali le stesse funzioni erano state conferite, la responsabilità dell’Ente sarà indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di principi corrispondenti a quelli elaborati nei rapporti di diritto privato e desunti dall’art. 2049 cc. Ai fini del riconoscimento in capo alla PA della responsabilità ex art. 2049 cc., è necessario che la condotta del dipendente non costituisca una imprevedibile estrinsecazione della funzione affidata al preposto, sulla base di un giudizio oggettivo di probabilità di verificazione, non riferito alle peculiarità del caso, ma alle ipotesi in astratto definibili come probabili secondo il criterio del «più probabile che non» in un dato contesto storico. Ogni diversificazione di trattamento, per di più in senso favorevole alla PA, non solo non potrebbe giustificarsi sulla base di generiche esigenze di finanza pubblica, non potendo queste ultime compromettere del tutto la tutela dei diritti, ma contrasterebbe apertamente con il principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3, co.1, Cost. e col diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost., riconosciuto anche a livello sovranazionale dall’art. 6 CEDU e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria, perseguibile, invece, con il riconoscimento della responsabilità concorrente del preponente. In definitiva, non può più accettarsi, perché in insanabile contrasto con tali principi fondamentali, la conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da soggetti dai quali è legittimo attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti. Tale conclusione comporta che debba prescindersi in modo rigoroso da ogni colpa del preponente (anche in virtù del superato orientamento che richiedeva per la configurabilità della responsabilità ex 2049 cc. almeno la sua culpa in eligendo o in vigilando) e lascia intatta la concorrente e solidale responsabilità del funzionario (salvo esplicita diversa previsione normativa che, ad es. per la peculiarità della specifica materia, mandi esente da responsabilità l’ente pubblico e mantenga esclusivamente quella dell’agente o viceversa). Deve quindi superarsi la rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di imputazione pubblicistica (o diretta) e privatistica (o indiretta): l’art. 28 Cost. non preclude l’applicazione della normativa del codice civile, essendo piuttosto finalizzata all’esclusione dell’immunità dei funzionari per gli atti di esercizio del potere pubblico, e la contemporanea affermazione della responsabilità della PA. Ne consegue che la responsabilità concorrente della PA e del suo dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest’ultimo al di fuori delle finalità istituzionali di quella debba seguire, in difetto di deroghe normative espresse, le regole del diritto comune. Non osta, peraltro, a che la PA sia dichiarata responsabile nei confronti di terzi il fatto che la stessa possa rivestire la qualità di parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del dipendente infedele (rilevando ciò solamente nei rapporti interni con quello). La conseguenza è l’integrale applicazione della disciplina della responsabilità oggettiva, che implica a sua volta la vigenza delle regole in tema di accertamento del nesso causale e l’applicazione dell’art. 1227 cc in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato. L’Amministrazione, pertanto, andrà esente dalle conseguenze dannose delle condotte illecite, anche omissive, dei propri preposti solo se non prevedibili da questa come estrinsecazione non anomala dei poteri conferiti, in base ad un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante. Nella specie, risulta incontestato che le funzioni attribuite al cancelliere in servizio presso un ufficio giudiziario (quale il Tribunale di Catania), comprendessero anche quelle di custodia o di cooperazione nella custodia delle somme depositate presso il medesimo, ricavate nelle fasi di un giudizio civile – nella specie, di divisione – e funzionalizzate al perseguimento dello scopo istituzionale della loro consegna agli aventi diritto, a garanzia dell’imparzialità della Giustizia e del corretto andamento della PA ed è altrettanto evidente che la violazione, in concreto avutasi da parte dello stesso del divieto di distrarre quelle somme dal loro fine istituzionale era una conseguenza riconducibile ad una sequenza causale oggettivamente non improbabile e che quindi avrebbe dovuto prevenirsi da parte di qualunque preponente: il cancelliere infedele in tanto ha potuto appropriarsi di quelle somme, in quanto era titolare di quei poteri, sia pure appunto piegandoli a fini eminentemente personali od egoistici ed oltretutto delittuosi. Del danno conseguente a tale complessiva condotta criminosa, obiettivamente prevenibile da chi conferisca ad altri il potere di custodire somme o di eseguire ordini o mandati di pagamento a valere sui relativi documenti rappresentativi, non può quindi che essere responsabile in solido l’ente pubblico da cui il funzionario dipende.
7. LA TUTELA DEL DIRITTO ALLA SALUTE COME BENE COLLETTIVO: IL CASO DEI C.D. “FURBETTI DEL VACCINO” E LA PRONUNCIA DEL TAR SICILIA.
EMANUEL SILVESTRI
Con decreto del Ministro della Salute del 2 gennaio 2021, in attuazione dell’art. 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n.178 (Legge di Bilancio 2021), è stato adottato il Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da virus SARS-CoV2. Il piano contiene la stima della potenziale quantità di dosi disponibili in Italia nel 2021, suddivise per trimestre e per casa farmaceutica, in base agli accordi preliminari di acquisto stipulati dalla Commissione europea a nome di tutti i 27 Stati membri.
Oltre a ribadirsi che la vaccinazione sarà gratuita e garantita per tutti attraverso un sistema di governance che prevede un coordinamento costante tra Ministero della Salute, Commissario straordinario e Regioni, vengono individuate specifiche categorie con priorità nella fase iniziale a limitata disponibilità dei vaccini. Nella prima categoria sono compresi operatori sanitari e sociosanitari, residenti e personale delle RSA per anziani.
Tuttavia, diverse inchieste di stampa hanno mostrato che oltre 400 mila persone abbiano usufruito della prima dose dei vaccini Pfizer-Biontech e Moderna, unici attualmente disponibili in Italia, senza averne alcun diritto arrivando a stimare che ben 3 vaccinati su 10 non rientrassero nelle categorie con priorità. Il fenomeno è stato particolarmente accentuato nelle Regioni dell’Italia meridionale, tra cui in Sicilia.
Di fronte a questo evento, il 29 gennaio 2020, l’Assessore alla Sanità della Regione Siciliana decide di emettere una propria ordinanza in cui vieta a tutte le aziende sanitarie siciliane di somministrare la seconda dosa a coloro che non rientrino nelle categorie indicate dal Piano.
Non soddisfatti, alcuni di costoro hanno deciso di adire il TAR Sicilia lamentando una violazione del loro diritto alla salute chiedendo la sospensione dell’ordinanza in via cautelare.
I ricorrenti hanno denunciato che il divieto di somministrazione imposto alle Asl di riferimento avrebbe causato effetti gravemente dannosi per la loro salute, da un lato, a causa del mancato completamento del ciclo vaccinale e, dall’altro, per il rischio di essere sottoposti ulteriormente ad un nuovo ciclo vaccinale con due dosi.
Il TAR Sicilia, Sez. IV di Catania, con decreto n. 102/21 del 13 febbraio 2020 respinge l’istanza di sospensiva. Quanto alla prima censura, i giudici hanno appurato che non risultano evidenze scientifiche di eventuali rischi derivanti dalla mancata somministrazione della seconda dose facendo notare come gli istanti non abbiano fornito alcun principio di prova assumendolo come dato oggettivo. L’unica conseguenza dimostrabile, semmai, è di riportare costoro ad una situazione quo ante a quella che li ha portati ad avere accesso alla prima dose senza averne diritto.
A questo si collega anche il secondo motivo di rigetto. Il danno paventato alla salute dovuto ad un nuovo ciclo vaccinale è “meramente ipotetico” non essendo dato sapere se e quando i ricorrenti saranno riconvocati per la somministrazione delle loro dosi nel rispetto del Piano strategico. Non vi è inoltre alcuna evidenza scientifica dimostrata per cui l’effetto della prima dose possa durare nel tempo ricordando come le stesse informazioni sull’uso del farmaco, pubblicate sul sito dell’EMA, abbiano provato che anche in caso di sovradosaggio, non sono state indicate reazioni avverse.
Bisognerà attendere l’udienza di merito e i possibili ricorsi al Consiglio di Stato prima di poter avere un quadro completo dell’intera vicenda ma alcuni spunti di riflessione possono comunque registrarsi. Il TAR sembra sottintendere nei motivi di rigetto come il diritto alla salute riconosciuto come “fondamentale” dalla Carta costituzionale all’art.32 non possa essere invocato come scriminante al più basilare senso civico. La necessità di consolidare questa convinzione mira a preservare la salute di tutti attraverso la tutela delle categorie più fragili prevalendo finanche sul diritto del singolo a essere comunque definitivamente “coperto” dalla malattia. Tutto ciò a prescindere persino dai costi di esclusività di sottoporre questi individui ad un nuovo ciclo vaccinale (ribadendosi però il limite del se e quando sarà possibile) sottraendolo ingiustamente ad altri. Prezzo che vada comunque pagato affinchè sia riaffermato quel principio di responsabilità di ognuno volto a preservare la salute nella sua dimensione collettiva di bene comune.
8. IL MIBACT INDIVIDUA LE PARTI DEL FRANCHI DA SALVAGUARDARE, NEGANDO LA DEMOLIZIONE, MA AMMETTENDO LA RISTRUTTURAZIONE.
ANTONIO TRIGLIA
La vicenda della ristrutturazione del Franchi è interessante in quanto rappresentativa della complessa realtà di soggetti e di differenti interessi che vengono in rilievo, nonché delle difficoltà che emergono in caso di ammodernamento di impianti sportivi gravati dal vincolo di interesse culturale.
La proprietà della Fiorentina aveva manifestato l’intenzione di investire sul rinnnovamento dello Stadio Comunale di Firenze, ma il percorso intrapreso sembrava essersi interrotto a seguito di un espresso provvedimento di tutela del 20 maggio 2020, emesso dalla Commissione Regionale per il Patrimonio culturale.
Il parere reso in primavera consentiva l’intervento ma col limite che venissero salvaguardate alcune parti dell’impianto, così sancendo l’impossibilità di procedere ad una demolizione o ad una massiccia ristrutturazione. I limiti posti dalla Commissione avevamo indirettamente bocciato il principale Progetto sposato dalla Fiorentina e dal Comune e ciò sembrava aver fatto abbandonare l’idea della ristrutturazione del Franchi come nuovo stadio della Fiorentina al Presidente Commisso.
Tuttavia, nel settembre del 2020 veniva approvato l’emendamento “Sbloccastadi”, apparentemente modellato su misura per superare l’impasse dovuta alle difficoltà di procedere all’ammodernamento dello Stadio Comunale di Firenze.
La nuova norma prevede infatti la possibilità di derogare alle precedenti “dichiarazioni di interesse culturale eventualmente già adottate” e prevede un nuovo procedimento speciale, che coinvolge il Ministero dei Beni Culturali, per i lavori su impianti sportivi che ospitano manifestazioni di livello professionistico. In particolare, ai sensi dell’attuale co. 1-bis dell’art.62 d.l. n. 50 del 2017, il soggetto, “che intenda realizzare gli interventi” di ristrutturazione, in virtù della specificità dell’edificio su cui verrebbero effettuati i lavori, deve inviare una richiesta al Ministero per i beni e le attività Culturali, affinchè quest’ultimo individui le parti dell’edificio di cui sia strettamente necessaria la conservazione a fini testimoniali.
Nel novembre dello stesso anno la Fiorentina ha quindi inviato una lettera al Mibact con cui, mettendo in evidenza le “gravi criticità di sicurezza dello stadio Franchi” e le “difformità agli standard UEFA” e la conseguente opportunità di procedere a un “intervento di ristrutturazione o sostituzione edilizia”, chiedeva al Ministero di specificare quali “elementi strutturali, architettonici o visuali” dovessero essere salvaguardati necessariamente in caso di lavori sulla struttura.
Con la lettera di risposta, inviata dal Mibact alla Società viola nello scorso mese di gennaio, sono stati individuati come parti meritevoli di tutela la pensilina, le scale elicoidali, la torre di Maratona, le curve e l’anello strutturale. Appare dunque evidente che anche secondo questo parere lo stadio non potrà essere demolito, ma si potrà intervenire sulla struttura
esistente, con “interventi di riqualificazione degli elementi strutturali, architettonici o visuali sopra indicati”.
Il Ministero ha anche proposto alcune possibili soluzioni per la copertura, suggerendo di realizzare “un sistema di copertura integrale degli spalti con parziali interruzioni in corrispondenza della torre di Maratona e della pensilina che copre la tribuna autorità, favorendo l’utlizzo di “una tamponatura transparente”. Inoltre, in merito all’adeguamento agli standard internazionali ed alle normative UEFA, potranno essere eseguiti “interventi di replica delle gradinate delle curve Fiesole e Ferrovia in parallelo a quelle attuali”, permettendo di avvicinare le prime file al rettangolo di gioco.
Ma il Progetto di rinnovamento della proprietà viola prevedeva un intervento di ristrutturazione di gran lunga più corposo.
Il Ministero comunque sembra aver tenuto conto, almeno formalmente, delle esigenze della società nel voler realizzare aree dell’impianto da destinare ad attività ulteriori rispetto a quelle strettamente inerenti la fruizione dell’evento sportivo, considerando che una ingente parte dei ricavi generati dagli stadi contemporanei derivano proprio dalla loro natura di corpo multifunzionale, capace di attrarre il pubblico non solo per la assistere al match, ma anche offrendogli servizi aggiuntivi a pagamento e la possibilità di svolgere varie attività durante il match-day. Infatti il Mibact apre alla possibilità di realizzare “idonee volumetrie nelle quali dislocare servizi e attività varie, anche commerciali” e “volumetrie, anche parzialmente interrate, destinate anche ad hospitality, operando addizioni di qualità rispetto alla struttura esistente”.
Ad ogni modo la Fiorentina, dopo aver ricevuto la lettera del Mibact, ha pubblicato sul sito ufficiale un comunicato con toni perentori, intitolato “Il tema Stadio Franchi per la Fiorentina è chiuso”.
E’ molto probabile che la Società viola abbia ritenuto gli interventi consentiti molto onerosi. E allo stesso tempo il Franchi “rinnovato”, pur essendo senza dubbio preferibile all’attuale struttura, insicura e inadatta, non consentirebbe di ricavare le entrate che assicurerebbe uno stadio costruito ex novo.
Il Presidente Commisso ha fortemente criticato l’esito del procedimento, ritenendo un paradosso quello di preferire il mantenimento di un impianto con delle parti addirittura insicure, piuttosto che consentire ad un investitore privato una ristrutturazione che avrebbe realizzato gli interessi del Comune, della Fiorentina e dei tifosi. Di contro il mondo accademico ha evidenziato come a livello mediatico ci sia stata una sottovalutazione dell’importanza della struttura realizzata dall’architetto razionalista Nervi. Struttura che, a differenza dello Stadio San Siro, oggi caratterizzato da successive stratificazioni, mantiene la sua unitarietà e conserva ancora oggi i tratti tipici di una pregevole opera architettonica, testimonianza di grandi innovazioni.
In molti avevano visto nell’emendamento “Sbloccastadi” un “via libera” ad ogni possibile opera di rinnovamento degli stadi, ritenendo che avrebbe messo in secondo piano la tutela del valore culturale di questi edifici, in nome della necessità di intervenire per ammodernare le strutture che ospitano le manifestazioni dello sport nazionale, da tempo palesemente carenti e inadatte, specialmente se paragonate a quelle delle altre realtà calcistiche più importanti d’Europa.
Da un primo esame sul provvedimento del Mibact, confrontato rispetto al parere reso nel Maggio 2020, emerge come, pur nel contesto di un nuovo quadro legislativo, che avrebbe dovuto favorire le ristrutturazioni, il Mibact ha ribadito la necessità di preservare alcune parti della struttura già individuate col precedente parere e ha addirittura individuato altri elementi di cui è necessaria la conservazione, limitando ulteriormente, almeno sotto l’aspetto “quantitativo”, la portata di un possibile intervento. Allo stesso tempo non può dirsi violata l’ultima parte della disposizione, secondo la quale l’esigenza di preservare il valore testimoniale è recessivo anche rispetto alla “sostenibilità economico-finanziaria dell’impianto”. Infatti senza dubbio il Mibact tiene in considerazione la “scala di valori” imposta dalla norma e, almeno “sulla carta”, non contravviene all’obbligo, che gli è imposto dall’emendamento sbloccastadi, mostrando di offrire soluzioni per favorire dei ricavi necessari per la gestione di uno stadio contemporaneo.
Infine non si può negare che lo scenario precedente all’emendamento sbloccastadi, cioè quello in cui era stata ammessa una ristrutturazione dell’impianto, ma non così corposa, quanto avrebbero voluto gli investitori privati, proprietari della Fiorentina, si è di fatto ripetuto. E che quindi l’emendamento, pur essendo stato probabilmente proposto per “sbloccare” il Franchi, non ha conseguito quello che era l’obiettivo quasi dichiarato. Non è escluso, tuttavia, che i benefici dell’intervento legislativo, tra i quali una più rapida pronuncia, che giunga in modo chiaro e definitivo, dal soggetto preposto alla tutela dei beni culturali possa portare ad esiti più favorevoli in futuro per altri stadi, magari gravati da una minore eredità culturale rispetto al Franchi.
Per quanto riguarda invece il futuro dello Stadio Comunale di Firenze, le sue sorti sono adesso interamente nelle mani del Comune. Il Sindaco di Firenze nel corso dell’ultimo Consiglio Comunale ha dichiarato che si impegnerà, a prescindere dal ruolo che avrà la Fiorentina, in un progetto di restyling dello Stadio Comunale, che porterà alla nascita di un polo sia sportivo, vista la presenza in zona di altri stadi e palasport, che culturale, istituendo un museo dedicato alla Viola e uno al calcio storico fiorentino. Il prospettato progetto di ristrutturazione prevede una prima fase, volta alla messa in sicurezza statica dell’impianto, e una seconda fase, che consiste nella trasformazione vera e propria dello stadio e prevede una rigenerazione urbana dell’area Campo di Marte, con parcheggi, pedonalizzazione e costruzione di una nuova linea tramviaria dedicata.
9. L’OBBLIGO DI BONIFICA NELLE SOCIETÀ: IL CASO DELLA FUSIONE E DEL FALLIMENTO
PIERGIORGIO VACCARINI
In materia di inquinamento ambientale, secondo quanto disposto dal principio «chi inquina paga» il soggetto che infligge un danno all’ambiente ne è sempre responsabile ed è tenuto ad intraprendere tutte le azioni necessarie a riparare quanto cagionato, sostenendone chiaramente i rispettivi costi.
Fermo restando ciò, l’individuazione del responsabile di un danno ambientale non sempre rappresenta un punto di arrivo nella tutela del bene giuridico leso in quanto spesso, dopo l’attribuzione di un evento al suo autore, possono verificarsi una serie di vicende giuridiche in grado di mutare la soggettività del responsabile della contaminazione: il riferimento è alla morte per le persone fisiche, e ai casi delle operazioni straordinarie e del fallimento per le persone giuridiche. Si parla di fenomeni che, nel momento in cui si verificano, pongono l’interrogativo circa la sorte degli obblighi ambientali facenti capo al responsabile dell’inquinamento.
Per quanto riguarda il primo gruppo di soggetti, la giurisprudenza è abbastanza univoca nel ricomprendere l’obbligo di bonifica tra le posizioni soggettive passive del de cuius e, per questo, ne riconosce la piena trasmissibilità agli eredi.
La questione risulta invece più spinosa nel caso delle persone giuridiche visto che la loro «vita» può essere interessata da diversi fenomeni, chiaramente diversi dalla morte, che sono perfettamente in grado di mutarne il profilo soggettivo, compromettendo anche l’attribuzione dell’obbligo di bonifica.
L’argomento in questione è stato affrontato dal Consiglio di Stato in Adunanza plenaria, con due diverse pronunce: la sentenza n.10 del 10 Ottobre 2019 e la recentissima sentenza n. 3 del 26 Gennaio 2021.
Nella prima pronuncia il Giudice Amministrativo ha esaminato l’obbligo di bonifica nel contesto di una fusione per incorporazione di una società; nel caso di specie la controversia traeva origine da un giudizio di impugnazione promosso da parte di una società, contro un provvedimento con il quale la Provincia di Asti le ordinava, in qualità di successore delle società autrici dell’inquinamento, la bonifica di uno stabilimento industriale le cui falde acquifere risultavano, già da molto tempo, contaminate da cromo e cloruro.
La ricorrente, tanto nel ricorso promosso in primo grado dinanzi al Tar Piemonte, quanto in appello dinanzi al Consiglio di Stato, sosteneva di non essere tenuta a procedere ad alcuna bonifica dal momento che non si riteneva in nessun modo responsabile di quanto addebitatole. Ciò almeno per due ragioni: in primo luogo la ricorrente affermava che l’inquinamento, all’epoca in cui avvenne non rappresentava una condotta avente disvalore giuridico dal momento che l’obbligo di bonifica fu introdotto per la prima volta con il decreto legislativo n.22 del 1997; in secondo luogo evidenziava che la contaminazione del suolo sarebbe avvenuta nel periodo ricompreso tra il 1975, anno in cui lo stabilimento veniva gestito da una società poi estintasi nel 1991 per incorporazione, al 2007, anno in cui l’ appellante veniva a sua volta incorporata dalla società autrice della contaminazione del sito.
Il giudice di primo grado respinse entrambi i motivi del ricorso, ma contro questa pronuncia la società propose appello; dopodiché la Sez. IV del Consiglio di Stato rimise la causa all’Adunanza plenaria nell’intento di risolvere il conflitto giurisprudenziale presente sul punto. Il collegio investito della questione osservò, relativamente al primo motivo di ricorso, che anche prima dell’introduzione dell’obbligo di bonifica l’inquinamento ambientale era comunque considerato, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, come un illecito civile ai sensi dell’art. 2043 del Codice Civile. Riguardo il secondo motivo, invece, il giudice, esaminata la vicenda alla luce del regime giuridico vigente all’epoca dei fatti, ossia quello antecedente alla riforma del diritto societario avvenuta con d.lgs. n.6 del 2003, affermò la piena trasmissibilità dell’obbligo di bonifica nei casi di operazioni straordinarie, come appunto quelle di fusione ed incorporazione tra due o più società.
Il giudice sottolineò che l’obbligo in questione si trasferisce al momento della fusione visto che, l’art. 2504 bis cc, tanto nella sua formulazione antecedente la riforma quanto in quella successiva, dispone la piena trasferibilità, nei confronti di tutte le partecipanti alla fusione, di ogni obbligo facente prima capo alla società estinta. In aggiunta il collegio osserva come quanto disposto dalla norma appena citata si applichi anche nel caso in cui l’accertamento dell’illecito ambientale sia successivo all’operazione straordinaria di fusione.
Il Consiglio di Stato sul punto decide la controversia ed enuncia il seguente principio di diritto: «la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento».
A questo punto, esaminato quanto disposto dal giudice in relazione alla trasmissibilità dell’obbligo di bonifica nel caso di operazioni straordinarie, occorre analizzare quanto stabilito dallo stesso collegio nel caso di fallimento di una società.
Il secondo giudizio analizzato in questa nota, infatti, ha origine dall’impugnazione proposta da parte della curatrice di un fallimento avverso un’ordinanza con la quale il Comune di V. le intimava di presentare un programma di smaltimento e di procedere alla rimozione dei rifiuti presenti nel bene immobile appreso al fallimento.
Il giudice di prima istanza, con sentenza n. 744/2019, accoglieva il ricorso proposto e procedeva all’annullamento dell’ordinanza impugnata. Tuttavia, avverso questa pronuncia, il Comune proponeva appello lamentandone l’erroneità e continuando a sostenere l’assoggettabilità del Curatore fallimentare agli obblighi di bonifica.
Sul punto la sez. IV del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 5454/2020, rimette nuovamente la questione all’Adunanza plenaria al fine di risolvere il dubbio interpretativo in relazione alla sussistenza di un obbligo di bonifica in capo alla curatela fallimentare.
Nel caso di specie il collegio giudicante chiarisce, sin dal principio, che il fallimento non rappresenta per le società un’ipotesi di fenomeno successorio in quanto, nel momento in cui viene dichiarato, l’ente economico in questione «conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio» per quanto comunque la facoltà di gestione e disposizione dello stesso, venga trasferita al curatore.
In virtù di ciò, osserva il giudice, l’organo del fallimento non si sostituisce mai alla società fallita nella responsabilità per la contaminazione di un sito e non acquisisce mai la qualifica di detentore dei rifiuti dal momento che la sua detenzione risulta sempre e comunque limitata al solo bene immobile nel quale questi insistono.
Posto ciò, il curatore può sempre essere destinatario di misure amministrative che ordinano la bonifica del sito inquinato o, come in questo caso, la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti. Sul punto il giudice osserva che la disponibilità materiale del bene inquinato, unita ad un titolo giuridico che autorizza l’amministrazione del patrimonio nel quale l’immobile è ricompreso, sono sufficienti a rendere il curatore un legittimato passivo degli obblighi ambientali in questione.
Secondo il giudice, infatti, la posizione dell’organo del fallimento non è affatto paragonabile a quella del proprietario incolpevole dei rifiuti o comunque di un soggetto terzo ed estraneo al fenomeno di contaminazione e, pertanto, questo non può mai invocare a sua tutela la «esimente interna» prevista dall’art. 192 comma 3 del d.lgs. 152/2006. Il curatore quindi non può mai esonerarsi dall’obbligo di rimuovere i rifiuti ed all’avvio di questi a trattamenti appositi di smaltimento e/o recupero.
A dire il vero, il curatore non potrebbe nemmeno avvalersi della facoltà, che l’art. 42 comma 3 della Legge fallimentare gli riconosce, di «rinunciare ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi». Secondo il collegio infatti, la facoltà in questione non troverebbe applicazione nel caso di specie dal momento che questa, attenendo maggiormente al puro profilo delle scelte che il curatore è legittimato a compiere nella gestione della procedura fallimentare, non può incidere in alcun modo sui profili amministrativi inerenti all’obbligo di bonifica. In aggiunta a tutto ciò, il giudice evidenzia come il comma 3 riguardi soltanto quei beni entrati nel patrimonio del debitore dopo la dichiarazione di fallimento e non anche quelli che al tempo già facevano parte di questo.
Il collegio, per avvalorare ulteriormente la propria posizione in merito, fa riferimento anche al fattore legato alla distribuzione dei costi di smaltimento. Sul punto osserva che l’abbandono dei rifiuti, in quanto fenomeno di inquinamento, va considerato come un’esternalità negativa di produzione, e in quanto tale i suoi costi, che normalmente gravano sull’imprenditore, nel caso di fallimento gravano sulla massa dei creditori; osserva inoltre che, se così non fosse, non sarebbe rispettata la ratio del principio europeo del «chi inquina paga».
In conclusione, quindi, alla luce di quanto osservato in entrambe le pronunce, si può evidenziare come il Consiglio di Stato si dimostri particolarmente interessato alla tutela del bene ambiente e come, nel perseguire il suo intento, riveli una straordinaria agilità nell’individuazione puntuale dei soggetti sui quali grava l’obbligo di bonifica. Un atteggiamento che probabilmente mira ad impedire che le situazioni di incertezza si traducano in occasioni di impunità degli autori di un determinato danno ambientale.
10. LA RAPIDITÁ DELL’APPALTO «PRIMULE» PER LE VACCINAZIONI ANTI-COVID
ELISABETTA ZINNO
Il 20 gennaio 2021 è stato pubblicato il bando per l’individuazione delle imprese che costruiranno i padiglioni al fine di somministrare il vaccino anti-covid. Si tratta di una procedura di massima urgenza, in deroga al codice degli appalti, in applicazione dell’art.122 della legge 4 aprile 2020, n.27.
In tale bando di gara sembrano presenti delle criticità circa vari profili a partire dalle tempistiche brevissime entro le quali le società interessate dovranno presentare le offerte tecnico-economiche. Infatti, il termine per la presentazione era stato previsto entro il 27 gennaio, poi posticipato al 3 febbraio, quindi un termine di pochi giorni per creare un’offerta adeguata alle esigenze richieste.
Altro termine previsto è quello dei trenta giorni, aumentati a quarantacinque, per la realizzazione dei cd. «padiglioni» prefabbricati per un numero minimo di ventuno, in tutti i capoluoghi di regione, per un massimo di milleduecento. Ciò comporterebbe che più squadre contemporaneamente dovranno essere occupate dalla loro costruzione.
Inoltre, è previsto un termine di intervento per qualsiasi problema possa sorgere di trenta minuti dalla sua segnalazione.
L’obiettivo del bando è la realizzazione dei padiglioni al fine di somministrare il maggior numero di vaccini nel minor tempo possibile.
Il progetto di Stefano Boeri disloca circa trecento metri quadrati a padiglione, quaranta per la sala d’attesa che fungerà anche da ingresso e uscita non separate e reception. Prevede uno spazio di altezza di 2,7 metri, profondità dei locali di 2,6 metri, corridoi di 1,4 metri, mentre per gli ospedali la misura minima di quest’ultimi è di 2,8 metri, e sala «reazioni inverse» di circa nove metri quadrati. Ipotizzando un numero di circa cinquanta persone sempre presenti nella primula, con due servizi per i pazienti e uno per gli operatori.
Il progetto, inoltre, prevede un numero di sei postazioni per la somministrazione, per un tempo di dieci o quindici minuti per paziente, compresa di anamnesi. Anche in assenza di contrattempi, dunque vengono calcolate circa trenta vaccinazioni all’ora, ventisette mila soggetti vaccinati in tre mesi, ai quali aggiungere gli altri centri di somministrazione, quali ospedali e gli stessi centri di vaccinazione.
Il bando, in applicazione dell’art.95 del d.lgs. 50/2016, prevede la possibilità per il commissario straordinario di riservarsi il diritto di non procedere all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti conveniente o idonea in relazione all’oggetto da disciplinare. Si tratta di una potestà pubblica che può essere esercitata in base alla valutazione degli interessi pubblici in gioco.
L’esercizio di tale potere, seppur legittimo, incontra il limite nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza e nella tutela dell’affidamento, a cui è strettamente collegato un obbligo motivazionale.
Proprio tale istituto, alla luce dell’indeterminatezza di alcuni elementi delle offerte richieste, in caso di esito non completamente soddisfacente della gara (per offerte ritenute non idonee a soddisfare gli obiettivi perseguiti con la gara da parte del soggetto aggiudicatario) potrebbe essere la via che conduce alla soluzione in concreto più efficace.
Vanno evidenziate alcune problematiche dal punto di vista operativo, amministrativo e giuridico, circa la funzionalità e l’economicità del progetto.
Sotto il profilo operativo, emergono alcune perplessità in ordine all’aderenza critica alla realtà operativa. Infatti, prevedere una tempistica di intervento di appena trenta minuti dalla segnalazione per «qualsiasi evenienza», si deve ritenere irrealistico, a meno che non vi sia l’obbligo contrattuale di avere a disposizione in loco delle squadre di manutentori. Il rischio, quindi, è che la richiesta possa non essere rispettata in concreto.
In relazione alle misure previste nel progetto, si tratta di spazi che potrebbero risultare insufficienti sia ai fini delle operazioni da effettuare sia a tutela delle norme anti-contagio. Il rischio sarebbe quello di trasformare i centri di vaccinazione in occasione di infezione.
Dal punto di vista della pianificazione economico-finanziaria, l’indeterminatezza del numero dei padiglioni effettivamente richiesti (da 21 a 1.200), anche da parte delle imprese aggiudicatrici, comporta l’assunzione di un’alea tale da non consentire oggettivamente un’offerta adeguatamente ponderata, che garantisca la corretta esecuzione del contratto.
Per quanto attiene alle questioni più specificatamente giuridiche, l’ampiezza della discrezionalità riconosciuta al Commissario straordinario in merito alla possibilità di ritenere non idonee o convenienti le offerte e quindi non procedere all’aggiudicazione, sebbene per i principi dell’ordinamento debba essere motivata, può appare in ogni caso eccessivamente penalizzante per le imprese coinvolte, soprattutto in ragione del principio del legittimo affidamento.
Tuttavia, per le ragioni sopra individuate, per opera degli esperti è stata promossa una segnalazione all’Osservatorio degli appalti e alla Corte dei Conti affinché si verifichi l’effettiva funzionalità del progetto e la spesa prevista per la sua esecuzione.