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Dal “too big to fail” al “too big to regulate”? La prevenzione delle crisi bancarie a confronto

 

di Benedetta Barmann

22/04/16

 

Negli Stati Uniti la regolazione delle grandi banche appare sempre più come una disperata “corsa contro il tempo”. Lo segnala il New York Times in un articolo dal titolo “Banks still too big to regulate” pubblicato lo scorso 14 aprile. Il procedimento di controllo delle autorità di vigilanza (in particolare la Federal Reserve e la Federal Deposit Insurance Corporation) sull’adozione dei requisiti prescritti dal Dodd – Frank Act per la prevenzione delle crisi bancarie da parte degli enti creditizi, infatti, è ancora troppo lento e complicato.

Al centro del problema ci sono i c.d. “living wills”. Si tratta di un documento che deve essere redatto periodicamente dall’istituto bancario (o finanziario in generale) e contenere la descrizione della strategia che l’istituto stesso intende adottare ai fini di una  rapida ed ordinata risoluzione nelle ipotesi di c.d. financial distress o di fallimento. Il living will deve essere approvato dall’autorità di vigilanza. La legge stabilisce che, nel caso in cui l’autorità non approvi il piano di risoluzione, l’istituto bancario ha a disposizione un termine di 90 giorni per rivederlo e correggerlo, a meno che l’autorità stessa non decida di accorciare o allungare il termine. Se il piano viene nuovamente rigettato, l’autorità ha il potere di ridimensionare la struttura e le attività soggette a rischio dell’istituto, ad esempio imponendo dei requisiti di capitale più rigorosi o delle restrizioni alle operazioni effettuate. A questo punto, la banca (o l’istituto finanziario) ha a disposizione altri due anni per presentare un piano credibile, trascorsi i quali, in caso di esito negativo, l’Autorità può imporne il fallimento.

I primi living wills dopo l’entrata in vigore del Dodd – Frank Act (2010) sono stati redatti e presentati nel 2012 da parte dei maggiori istituti bancari e finanziari statunitensi e in seguito respinti dalle Autorità di controllo; mercoledì scorso sono stati nuovamente bocciati, in particolare quelli di Bank of America, Bank of New York Mellon, JP Morgan Chase, State Street e Wells Fargo. L’articolo evidenzia come tra la presentazione della prima e della seconda stesura di piani di risoluzione sono trascorsi quattro anni; attenendoci al disposto normativo, dopo la bocciatura del 2012 gli istituti in questione avrebbero invece dovuto ripresentare il piano entro 90 giorni, mentre all’epoca la Federal Reserve e la F.D.I.C. hanno deciso di concedergli un termine più lungo. Lo stesso modus operandi è stato adottato mercoledì quando, in occasione della nuova bocciatura, le Autorità hanno concesso tempo fino all’1 ottobre per la presentazione di un nuovo piano.

Proprio tali lungaggini costituiscono uno dei maggiori fattori di rischio per la stabilità finanziaria: “the longer it takes to develop living wills and enforce them, the bigger the risk of uncontrollod crisis”. La grandi dimensioni di tali istituti ed il peso che esercitano all’interno del sistema finanziario determinano il sorgere di difficoltà nella regolazione degli stessi. Così come in passato la maggior parte di essi è stata considerata “too big to fail” e, pertanto, si è avuto un massiccio intervento statale per evitarne il fallimento, oggi essi appaiono “too big to regulate”. Probabilmente, i larghi tempi concessi per la redazione dei living wills derivano proprio dalle conseguenti difficoltà.

Uno strumento analogo al living will è previsto anche dalle nuove misure di prevenzione e risoluzione delle crisi bancarie individuate nella Direttiva 2014/59/UE (BRRD “Banking Recovery and Resolution Directive”, recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. 16 novembre 2015, n. 180). Nello specifico, la Direttiva distingue tra piano di risanamento e piano di risoluzione. Il piano di risanamento (o recovery plan), ai sensi dell’art. 5, deve contenere  le misure volte al ripristino della situazione finanziaria dopo un deterioramento significativo dell’ente creditizio e, ai sensi del successivo art. 6, deve essere sottoposto per l’approvazione all’autorità di vigilanza. La direttiva sembra meglio specificare, rispetto al Dodd – Frank Act, le tempistiche per l’approvazione o le modifiche dei piani di risanamento: difatti, una volta presentato, il piano deve essere valutato dall’autorità competente entro sei mesi. Qualora lo stesso presenti  sostanziali carenze o l’autorità accerti che la sua attuazione è soggetta a sostanziali impedimenti, l’ente creditizio ha due mesi, estensibili a un massimo di tre, per presentare un nuovo piano, mentre nel sistema statunitense, come si è visto, il termine di 90 giorni può essere discrezionalmente allungato o abbreviato dall’autorità. La direttiva attribuisce poi alle autorità competenti una serie di poteri, come ad esempio quello di imporre all’ente determinate modifiche, tramite la riduzione del profilo di rischio, la ricapitalizzazione, e via dicendo.

Tuttavia, tra piano di risanamento e living will sussiste una grande differenza: mentre il primo, difatti, è diretto a risanare l’attività dell’ente, il secondo è diretto alla vera e propria  risoluzione dello stesso. Pertanto, il living will sembra avvicinarsi maggiormente all’altro strumento individuato dalla Direttiva, ovvero il piano di risoluzione (o resolution plan). Anche tra questi due strumenti sussistono, tuttavia, delle sostanziali divergenze: in particolare, il piano di risoluzione viene redatto, ai sensi dell’art. 10, direttamente dall’Autorità di risoluzione, attraverso l’individuazione  delle misure che possono essere adottate in caso di crisi.

In questo modo, dunque, il legislatore europeo sembra aver superato il problema evidenziato dall’articolo del NYT: è chiaro, infatti, che la circostanza che sia direttamente l’autorità di risoluzione a predisporre il piano permette di risparmiare le tempistiche necessarie per la valutazione e approvazione dei living wills.

Occorre comunque ricordare che queste misure, pur rappresentando un significativo passo avanti nella gestione delle crisi bancarie, costituiscono tuttavia solo uno degli strumenti a disposizione. In definitiva, la vigilanza costante da parte delle autorità competenti rimane il modo più efficace per prevenire le crisi.

Qui il link all’articolo del New York Times.

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