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Dubbi teorici per problemi pratici: la posizione delle quote di emissione nel diritto amministrativo italiano

di Fatima Maria Pizzati

 

12 aprile 2017

 

La qualificazione giuridica delle quote di emissione rappresenta una questione irrisolsa e soggetta a diversi tentativi di definizione all’interno dei diversi Stati membri dell’Unione Europea che hanno adottato atteggiamenti differenti di fronte alla lacuna lasciata a livello comunitario. Il legislatore italiano si è limitato a riprodurre pedissequamente la definizione della Direttiva 2003/87/CEQQ all’art. 3 lett. p) del D.lgs. 216/2006 che descrive le quote di emissione come “il diritto ad emettere una tonnellata di biossido di carbonio equivalente nel primo periodo di riferimento o nei peridi di riferimento successivi, valido unicamente per rispettare le disposizioni del presente decreto e cedibile conformemente al medesimo”. Nulla è stato aggiunto in merito alla natura delle quote e la stessa espressione quote di emissione, utilizzata sia a livello nazionale che comunitario, sembra voler suggerire poco per cui gli operatori del diritto si sono trovati di fronte a problemi interpretativi di non facile soluzione anche per via del fatto che la giurisprudenza non ha preso una propria posizione e la dottrina che si è pronunciata scarsamente sulla materia non risulta essere unanime. Gli autori che si sono soffermati su di essa hanno enfatizzato l’origine pubblica delle quote di emissione dal momento che è la pubblica autorità a stabilire il numero totale delle quote da assegnare e il rilascio ai singoli avviene sulla base di provvedimento amministrativo, consistente nell’annotazione delle quote nel conto di proprietà di ciascun gestore. In questa prospettiva, le suddette quote sono state ricondotte nella categoria delle autorizzazioni amministrative oppure concessioni, partendo in entrambi i casi dal presupposto errato in base al quale l’oggetto che viene attribuito ai singoli operatori è rappresentato dalla proprietà dell’aria. Tuttavia, si tratta di affermazione errata in quanto l’aria continua ad essere un bene comune e la regolamentazione interviene solo per disciplinarne le modalità di godimento. E’ comunque interessante l’analisi degli elementi che non premettono l’identificazione della quota con un’autorizzazione amministratica o una concessione.

 

In primo luogo, la qualificazione delle quote di emissione come autorizzazione amministrativa non risponde alla concezione classica di autorizzazione. Nel diritto amministrativo, infatti, per autorizzazione si intende un provvedimento mediante il quale la pubblica amministrazione, nell’esercizio di un potere discrezionale, provvede a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto o di una facoltà alla quale il richiedente avrebbe già titolo sul piano civilistico in quanto attività lecita. Sulla base di questa conclusione, altri autori hanno ritenuto più conveniente ricondurre le quote di emissione all’interno della categoria delle concessioni che si differenziano delle autorizzazioni in quanto la pubblica amministrazione, in questo caso, attribuisce al soggetto richiedente un quid novi, una nuova facoltà o un nuovo diritto, avente per oggetto l’uso di un’utilità pubblica da cui il privato trae un vantaggio. Ciò significa che nell’autorizzazione il destinatario viene individuato a priori grazie ad un diritto preesistente di cui si richiede l’esercizio attraverso la rimozione di un limite ad opera dalla pubblica amministrazione; al contrario, nella concessione il destinatario viene individuato con una valutazione comparativa circa l’idoneità del richiedente a raggiungere le finalità pubbliche a cui l’atto è predisposto. In secondo luogo, un ulteriore elemento che rende ardua la possibilità di identificare le quote di emissione come autorizzazione amministrativa è dovuto al fatto che l’ipotesi di trasferire l’autorizzazione è limitativa: se il richiedente è in possesso dei requisiti previsti dalla legge e ottiene l’autorizzazione all’esercizio dell’attività, oggetto della richiesta, il trasferimento dell’autorizzazione non sarà praticabile nei confronti di un cessionario che non sia titolare dei medesimi requisiti richiesti ex lege. Per le quote di emissione viene, invece, sancita la libera trasferibilità ad altri soggetti, indipendentemente dai confini nazionali e a prescindere dal fatto che siano gestori di impianti che emettono gas serra. Le quote non sono legate al singolo impianto e il loro trasferimento non è soggetto ad alcuna valutazione dell’autorità pubblica.

 

In ogni caso, la qualificazione delle quote di emissione in termini di autorizzazione e concessione presenta un ostacolo aggiuntivo: nelle quote manca una valutazione discrezionale da parte della pubblica amministrazione e l’attribuzione delle stesse appare un atto dovuto quando il richiedente in possesso dei requisiti previsti dalla Direttiva 2003/87/CE. Sebbene il connubio con le autorizzazioni amministrative e le concessioni appaia forzato, è innegabile affermare che le quote di emissione sono rilasciate ai singoli impianti attraverso un provvedimento amministravo che si manifesta nell’annotazione delle quote nel conto di ogni operatore. Si tratta di un atto dovuto in merito al quale l’autorità pubblica non compie alcun tipo di valutazione preventiva nè dell’idoneità del privato a raggiungere determinati fini pubblici nè della conformità dell’esercizio dell’attività all’interesse pubblico. Una parte della dottrina ritiene che una valutazione di questo tipo viene effettuata in riferimento all’autorizzazione all’emissioni di gas serra di cui all’art. 4, D. lgs. 216/2006 rispetto alla quale l’amministrazione valuta che l’esercizio delle attività di cui all’Allegato A non contrasti con l’interesse pubblico della tutela della salubrità dell’aria e della riduzione dei gas serra. In questo contesto, si evidenzia un legame con la concessione alla luce dei vantaggi che derivano per il privato dall’utilizzo di CO2. Per l’impresa che non ha superato il cap, vale a dire il quantitativo massimo di quote assegnategli, si apre la possibilità di vendere ad altri operatori meno virtuosi le quote rimaste inutilizzate, generando così un guadagno. D’altra parte, ad ogni impresa virtuosa ne corrisponde un’altra che supera il cap e deve ricorrere all’acquisto di quote aggiuntive per non essere costretta a restituire il quantitativo emesso oltre il tetto massimo consentito e ad andare incontro alla sanzione pecuniaria da corrispondere all’amministrazione nella misura prevista dall’art. 20 del D.lgs. 216/2006. Occorre ricordare che siamo in presenza di un market based instrument e la sua finalità tipica consiste nell’incentivare la tutela dell’ambiente attraverso il ricorso a meccanismi di mercato. La parte della dottrina che si è espressa in senso favorevole circa la natura concessoria delle quote di emissione ha ribadito a sostegno del proprio orientamento l’esempio della gestione delle frequenze radiotelevisive. Alla fine degli anni settanta, il servizio nazionale di telediffusione rientrava nel monopolio dello Stato. Nonostante ciò, numerose emittenti private trasmettevano programmi a livello locale pur non essendo in possesso di alcun provvedimento autorizzativo e facendo emergere dubbi sulla natura giuridica dell’etere. E’ stato necessario un intervento da parte della Consulta con cui è stata affermata la natura di res comunes omniun dell’etere ed è stato riconosciuto il potere pubblico di regolamentare il suo utilizzo mediante il rilascio di provvedimenti di natura tipicamente concessoria, concludendo che le attività delle emittenti locali si potevano considerare lecite previo rilascio dell’autorizzazione della pubblica amministrazione. Specificamente, è stato chiarito che si tratta di un atto amministrativo con cui si conferisce a determinati soggetti un bene comune, l’etere, da parte dello Stato affinchè gli assegnatari possano propagarvi in via esclusiva onde radioelettriche connotate da frequenze predefinite. I privati hanno un interesse legittimo ad ottenere l’assegnazione del suddetto bene comune e non un diritto soggettivo ed in questo si manifesta la tipica natura concessoria. A partire da questo esempio si è sostenuto che, nel sistema di emissions trading, il provvedimento autorizzatorio che permette l’instaurarsi del rapporto tra la pubblica amministrazione e il privato avrebbe natura concessoria: esso attribuirebbe un diritto nuovo a emettere CO2. Si tratta di un’impostazione teorica che, nell’ottica dei suoi sostenitori, non può essere esclusa dal fatto che il provvedimento autorizzativo non conterrebbe sin dall’origine i limiti quantitativi relativi alle quote in quanto stabiliti con l’approvazione del Piano Nazionale di Assegnazione. Questa posizione risulta ulteriormente avvalorata dall’eliminazione del compito di predisporre i PNA a livello nazionale secondo le modifiche intervenute successivamente sulla Direttiva 2003/87/CE. Inoltre, un’altra conferma discenderebbe dal d.lgs. n. 59/2005 che, nonostante preveda il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale anche per le emissioni in atmosfera e per i medesimi impianti ricadenti nello schema Ets, ha espressamente escluso che l’Aia possa valere per le emissioni di gas ad effetto serra di cui alla direttiva 2003/87/CE. E ciò, nonostante la previsione di una eventuale unificazione di procedimenti, come previsto dall’art. 9 del d.lgs. n. 216/2006. Tuttavia, si osserva anche come non vi sarebbe stato motivo di tenere distinti i due procedimenti autorizzativi in questione che hanno ad oggetto i medesimi impianti industriali e le emissioni in atmosfera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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