Lab-IP

From Paris to Marrakech: l’accordo sul clima che si promette di salvare il pianeta e le sorti incerte dell’Emission trading scheme

di Fatima Maria Pizzati

22/01/17

La ventunesima Conferenza delle Parti della UNFCCC (COP-21) ha sancito il raggiungimento di quello che il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon ha definito come “a monumental triumph for poeple and our planet” ed è così che il 12 Dicembre 2015 è stato siglato il Paris Climate Agreement. Si tratta di un punto di approdo raggiunto dopo oltre due decadi di negoziati che, a partire dalla Convezione quadro delle Nazioni Unite sul clima aperta nel 1992, ha toccato più tappe di cui le principali possono essere rintracciate nel Protocollo di Kyoto e nell’Accordo di Copenhagen. In particolare, quest’ultimo ha preparato il terreno fertile sul quale le speranze delle Parti si sono alimentate dal momento che, alla data di apertura dei negoziati del 2015, si respirava un clima di ottimismo sebbene i punti critici da superare non fossero pochi. In realtà, molti Paesi tra i maggiori emissori di gas a effetto serra avevano tentato di arrivare preparati alla COP-21 e l’esempio principale era rappresentato dall’accordo bilaterale sui cambiamenti climatici stipulato tra Stati Uniti e Cina già nel Novembre del 2014. A Parigi, le Parti riescono a superare l’impostazione del Protocollo di Kyoto: non  più  obiettivi vincolanti imposti ai soli Paesi industrializzati, ma una strategia fondata sulla partecipazione di tutti gli Stati in ragione di una responsabilità comune ma differenziata con contributi determinati  a  livello  nazionale  da  ciascuno  Stato  con  appositi  piani.  Il  rispetto  degli  impegni  non  è assistito  da  un  apparato  sanzionatorio,  ma  favorito  da  regole  di  trasparenza  e  di  informazione  e  da strumenti di assistenza tecnica e di cooperazione. L’Articolo 2 dell’Accordo individua gli scopi che si propone di raggiungere: il mantenimento dell’aumento della temperatura globale molto al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali con l’intento di contenerlo entro 1,5 gradi centigradi; l’incremento della capacità di adattamento agli impatti avversi del cambiamento climatico con la resilienza climatica e lo sviluppo a basse emissioni di gas climalteranti in una maniera che non minacci la produzione di cibo; c) l’adeguatezza dei flussi finanziari rispetto a percorsi verso uno sviluppo a basse emissioni. Per conseguire tali obiettivi, le Parti dovranno raggiungere il picco globale di emissioni il più presto possibile per poi intraprendere rapide  riduzioni  in  seguito  e  raggiungere  un  bilanciamento  tra  le  emissioni  e  gli  assorbimenti  entro  la seconda  metà  di  questo  secolo.  A  tal  fine,  ciascun Paese  firmatario  si  impegna  ad  inviare  un  proprio piano  nazionale  di  riduzione  dei  gas  a  effetto  serra  e  a  revisionarlo  ogni  cinque  anni.  In  particolare,  i «contributi determinati a livello nazionale» (INDCs) dovranno essere pubblicati su un registro gestito dal Segretariato ONU e presentati ogni cinque anni sulla base di un sistema di revisione degli impegni assunti che prenderà avvio dal 2018. L’Unione Europea, oltre ad avere svolto un ruolo guida durante i negoziati, ha contribuito alla rapida entrata in vigore dell’Accordo, ratificandolo con una procedura straordinaria il 4 Ottobre 2016. Decisione rivelatasi provvidenziale di fronte all’affermazione del nuovo Presidente degli Stati Uniti di non avere alcuna intenzione di dare attuazione agli accordi di Parigi. Inoltre, il  Parlamento  europeo  il  6  ottobre  2016  ha  adottato  una  risoluzione che  evidenzia  come  gli  attuali INDCs non siano idonei a conseguire gli obiettivi dell’intesa, esortando gli Stati membri a ridurre il loro livello di emissioni rispetto agli impegni attuali. Recentemente, la ventiduesima Conferenza delle Parti (COP-22) svoltasi a Marrakech dal 7 al 18 Novembre 2016 ha confermato di impegni di Parigi, ma, in assenza della definizione delle modalità attraverso cui dovranno essere raggiunti, si è conclusa con il proposito di definire entro Dicembre 2018 il regolamento di attuazione dell’Accordo. Allo stato attuale, siamo di fronte a molte incertezze perchè la lotta al cambiamento climatico richiede azioni in tempi brevi e i benefici saranno, al contrario, conseguiti solo nel medio-lungo periodo. Ciò rende difficile l’operato dei governi che spesso assumono il c.d. “wait-and-see approach” nei confronti dei rischi del global warming anche a causa della ridotta durata dei cicli elettorali ( R. Falkner, The Paris Agreement and the new logic of international climate policy, 2016). Si comprende come siano gli Stati ad assumere il ruolo di protagonisti, essendo stata abbandonata la strategia degli impegni imposti dall’alto (top-down),  propria  del  Protocollo  di  Kyoto,  a  favore  della  diversa  opzione  di  autodeterminazione  dei singoli contributi alla riduzione globale delle emissioni da parte degli Stati (bottom-up).

Alla luce dell’impianto dell’Accordo di Parigi emerge come le sue implicazioni per l’Emission trading scheme (ETS) siano estremamente marginali. L’ETS è il principale strumento europeo finalizzato alla riduzione delle emissioni di gas climalteranti, tuttavia tale mercato artificiale ha avuto l’effetto opposto rispetto a quello auspicato in quanto non ha portato al passaggio dai combustibili fossili a fonti meno emissive o rinnovabili. L’Europa ha investito molto nello sviluppo della produzioni da fonti rinnovabili eppure il risultato ambito non è stato raggiunto a causa del basso prezzo delle quote di emissione tanto che la questione, secondo uno studio recente, è stata definita come “il paradosso ambientale europeo” (Nomisma Energia, Cambiare il mercato della CO2per decarbonizzare l’Europa e aumentare la competitività del sistema Italia, novembre 2016). L’eccesso di offerta è stato provocato da una serie di decisioni errate: nel primo periodo, definito di prova, il 95% delle quote è stato assegnato a titolo gratuito e questo ha fatto crollare il prezzo delle quote a livelli prossimi allo zero tanto da vanificare l’effetto di incentivare gli investimenti in efficienza energetica che guidava il sistema stesso. Nel secondo periodo l’Unione Europea ha tentato di rimediare definendo un’allocazione più precisa delle quote nei confronti dei soggetti sottoposti all’ETS. Tuttavia, anche in questo caso è stato commesso una grave incautela: l’assegnazione ex ante delle quote sulla base della produzione industriale storica. La crisi economica si è abbattuta sui consumi di energia con il conseguente surplus di quote di emissione sul mercato e il relativo calo dei prezzi. Le imprese energivore hanno preferito acquistare quote di emissione e produrre con fonti energetiche economiche e inquinanti. Il periodo 2013-2020 rappresenta la terza fase, disciplinata dalla Direttiva 29/2009/ce che ha modificato il precedente regime con la previsione di un tetto unico europeo di emissioni e con l’introduzione del principio generale dell’allocazione a titolo oneroso, tramite asta, delle quote di emissione anche se l’allocazione a titolo gratuito rimane un’eccezione ampiamente utilizzata. Sul fronte dell’eccesso dell’offerta, la Commissione ha adottato una misura di back loading togliendo dal mercato un numero significativo di quote e, inoltre, con la Decisione UE 2015/1814 il Parlamento europeo e il Consiglio hanno istituito una riserva stabilizzatrice del mercato nel sistema ETS, operativa dal 2019, per regolare i volumi annuali di quote da mettere all’asta in modo da mantenere il prezzo a un livello considerato efficiente ovvero tra 15 e 20-30 euro a tonnellata. Probabilmente, le misure europee riusciranno a raggiungere questo scopo anche se con il rischio di rendere le produzioni del vecchio continente meno competitive sul mercato a vantaggio di beni prodotti fuori dall’Unione Europea con il ricorso a fonti energetiche altamente emissive e poco costose perciò si finirebbe per continuare a incentivare l’industria fortemente emissiva dei paesi extra-ue. E’ in questi termini che si pone un secondo paradosso: la delocalizzazione delle emissioni nei paesi terzi grazie alla maggiore competitività dei prodotti stranieri e la minaccia dello spostamento delle attività comunitarie. Fenomeno solo in parte scongiurato con l’assegnazione di quote a titolo gratuito alle industrie europee più energivore. La sola correzione del funzionamento dell ‘ETS non potrà garantire il superamento di questa situazione fino a quando il sistema continuerà a essere limitato all’Europa. Si rende necessario un approccio globale eppure l’Accordo di Parigi non prevede l’adesione della comunità internazionale ad schema come l’ETS. Complessivamente, qualche speranza viene dalla Cina che si sta muovendo verso un sistema di scambio di quote di emissione vicino a quello europeo. Al contrario, preoccupa l’atteggiamento della nuova amministrazione USA in materia, considerando le recenti contestazioni delle evidenze scientifiche sul cambiamento climatico e la dichiarazione di voler incrementare l’estrazione di combustibili fossili già nel corso delle campagne elettorali. Sul fronte interno, l’Unione Europea ha deciso di mantenere l’ETS e il Consiglio europeo del 23-24 Ottobre lo aveva già indicato come principale strumento per il raggiungimento degli obiettivi al 2030. Diversi Stati Membri hanno avanzato delle proposte di fiscalità ambientale non alternative all’emission trading, ma complementari rispetto ad esso. La soluzione più interessante è rappresentata dalla potenziale introduzione di un’imposta sul carbone aggiunto applicata al bene- ovunque prodotto- sulla base del contenuto di carbone ovvero della quantità di CO2 prodotta durante il processo di fabbricazione ( A. Gerbeti, CO2 nei beni e competitività industriale europea). Il vantaggio emergerebbe dalla circostanza che l’imposta non sarebbe limitata a colpire le imprese del Paese impositore con effetto delocalizzante poichè andrebbe a incidere sul consumo e non sulla produzione: i beni immessi sul mercato avrebbero un’imposta aggiuntiva variabile in ragione del contenuto di carbone con la diretta conseguenza di rendere più competitivi i beni prodotti con una minore quantità di emissioni. La  Commissione  europea  ha  previsto  la definizione e l’approvazione entro il 2018 del Piani nazionali energia e clima dei singoli Stati membri al fine di rendere coerenti gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas climalteranti e quelli per l’efficienza perciò sarà nel futuro prossimo che potremo assistere al superamento o meno delle contraddizioni che, fino ad ora, hanno ostacolato il corretto funzionamento dell’ETS.

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