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I poteri e le parole del Presidente Trump

Giulio Napolitano 

La Corte Suprema degli Stati Uniti salva il divieto presidenziale di ingresso degli stranieri ma richiama Trump al rispetto della tradizione liberale americana

 

 

La recente decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti sul divieto di ingresso nel paese dei cittadini provenienti da otto nazioni “sospette” o “non collaborative”, di cui sei a maggioranza musulmana, segna un importante punto a favore del Presidente Trump. La Corte infatti ha dichiarato la piena legittimità, anche sul piano costituzionale, di una delle misure più controverse adottate all’indomani dell’insediamento. Etichettato come “Muslim Ban”, il provvedimento presidenziale è subito diventato oggetto di un’aspra battaglia politica e giudiziaria. Di questa battaglia sì è avuta eco anche nella serrata discussione in seno alla Corte Suprema, conclusasi lo scorso 26 giugno con una votazione a stretta maggioranza 5-4 a sostegno della sentenza redatta dal Chief Justice Roberts. E la tensione morale che ha profondamente diviso la Corte al suo interno si può ben cogliere nell’appassionata opinione dissenziente della Giudice Sotomayor, la quale ha voluto mettere nero su bianco che “gli Stati Uniti d’America sono stati fondati sulla promessa della libertà religiosa” e che la decisione presa a maggioranza dalla Corte fallisce nel salvaguardare il fondamentale principio della neutralità religiosa sancito nella Costituzione.

La sentenza giunge particolarmente propizia per il Presidente Trump nel momento in cui egli è esposto a dure critiche per il trattamento dei migranti provenienti dal Messico. Ma sarebbe un errore leggere la decisione della Corte come un pieno lasciapassare alla politica del Presidente in materia di sicurezza e di immigrazione. E sarebbe tanto più sbagliato intenderla come un’implicita ode universale al neo-sovranismo e alle scelte di chiusura delle frontiere che stanno emergendo a diverse latitudini.

Nella sentenza, la Corte ribadisce a chiare lettere la propria consolidata giurisprudenza secondo cui la decisione di ammettere ed escludere gli stranieri dal territorio nazionale costituisce esercizio di una “prerogativa sovrana fondamentale” e ricorda come non esista un diritto costituzionalmente protetto degli stranieri all’ingresso sul suolo americano. Sono affermazioni che non devono sorprendere se si considera la tradizionale refrattarietà degli Stati Uniti e delle sue corti ad assumere e a riconoscere la cogenza di vincoli internazionali e l’assenza di ogni riferimento al diritto di asilo nel Bill of Rights. Ma tali affermazioni non potrebbero certo formularsi negli stessi termini nei paesi europei, le cui più recenti costituzioni, memori degli orrori della seconda guerra mondiale, salvaguardano espressamente quel diritto e operano nell’ambito dei vincoli comuni volontariamente assunti nell’ambito delle politiche migratorie dell’Unione Europea.

Nel merito, la Corte Suprema afferma chiaramente che la legge americana su l’immigrazione e la cittadinanza conferisce un’ampia delega al Presidente nel sospendere con un apposito “Proclama” (Proclamation) l’ingresso di stranieri o classi di stranieri che possa risultare dannoso per l’interesse nazionale, e in particolare per la sua sicurezza interna. E anzi sottolinea che il testo della norma in questione “trasuda ossequio per il Presidente in ogni clausola”. Anche in questo caso, però, l’esatta portata di questa impegnativa affermazione della Corte non va fraintesa. Essa, infatti, va collocata nell’ambito di una più generale tendenza dell’ordinamento statunitense al rafforzamento di quella che è stata chiamata la “Amministrazione Presidenziale” e di cui hanno beneficiato, contribuendo ad erigerla, anche i presidenti democratici. Ciò dovrebbe indurre a rifuggire da polemiche partigiane, come osserva tra le righe la sentenza, citando precedenti provvedimenti di Presidenti sia repubblicani, sia democratici. Un ammonimento che forse non andrebbe dimenticato anche qui in Europa.

Va inoltre sottolineato che la Corte dà il via libera al “Proclama” presidenziale soltanto nella terza (opportunamente emendata e ben più calibrata) versione. Questa, infatti, include anche paesi di religione non musulmana, come la Corea del Nord e Venezuela. E, come sottolinea la Corte, è stata adottata a seguito di un’ampia istruttoria, interloquendo con i governi stranieri in causa, coinvolgendo vari dipartimenti e agenzie federali, e dopo che il Presidente ha consultato diversi membri dell’Esecutivo. A conferma che decisioni così rilevanti e complesse (come sarebbe da noi la ventilata “chiusura dei porti”) non possono certo prendersi in modo improvvisato o con iniziative estemporanee e individuali anche da parte delle più alte autorità politiche.

Il punto più sensibile rimane naturalmente quello del possibile carattere discriminatorio del bando che esclude gli stranieri sulla base della loro nazionalità, ma in realtà anche, almeno secondo i ricorrenti e alcuni giudici della stessa Corte, sulla base del loro credo religioso. Il nodo è qui costituito dalle parole con cui il Presidente Trump, durante la campagna elettorale e una volta eletto ha annunciato e accompagnato la sua decisione, con affermazioni ambigue e talvolta apertamente anti-islamiche. La Corte supera il problema concentrando l’attenzione sul tenore oggettivo del provvedimento, che giudica neutrale sul piano religioso, e sull’ampiezza dei poteri presidenziali. Ma la Corte non si sottrae a un seppur implicito richiamo al Presidente Trump, sottolineando la rilevanza dello “straordinario potere di parola” dei Presidenti americani e ricordando la lunga e ininterrotta tradizione di grandi discorsi con cui, da George Washington in poi, essi hanno sempre vigorosamente ribadito l’impegno a onorare i principi di libertà religiosa, rispetto e tolleranza. Anche questo è un ammonimento che potrebbe essere esteso ai governanti al potere da questa parte dell’Atlantico, che rischiano di tradire il senso della propria funzione quando il suo quotidiano esercizio finisce per essere soverchiato da una comunicazione pubblica assordante, orientata a mere esigenze di propaganda politica.

Del dibattito in seno alla Corte Suprema, le parole forse più efficaci risultano allora quelle contenute nell’opinione concorrente con cui il Giudice Kennedy si è di fatto accomiatato dalla Corte, al termine di uno straordinario mandato svolto lungo il difficile crinale che ha spesso separato al suo interno conservatori e progressisti: per quanto possa essere ampia la sfera di discrezionalità politica riconosciuta ai membri del Governo, “questa non significa che essi siano liberi di ignorare la Costituzione e i diritti e le libertà che essa protegge”. Un “mondo in ansia” deve sapere che “il nostro Governo rimane sempre devoto a quelle libertà che la Costituzione cerca di conservare e di proteggere, affinché esse si estendano anche all’esterno e durino”.

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