Giuditta Russo
26/03/2021
A causa delle frequenti interpretazioni volte ad ampliare la giurisdizione del G.O. in materia di sindacato sugli atti dei pubblici poteri e a restringere sia la sfera di questi ultimi sia il concetto di interesse legittimo, il confine tra giurisdizione del giudice ordinario e amministrativo in cui si articola il nostro sistema “a doppia giurisdizione” si pone come “mobile”, comportando come conseguenze incertezza del diritto e rischio di lesione dell’effettività della tutela. Tra i casi più problematici, si annoverano anche alcune tematiche risarcitorie.
Gli artt. 7 e 30 c.p.a. stabiliscono la cognizione del G.A. sulle questioni risarcitorie inerenti alla lesione di interessi legittimi derivanti dall’illegittimo esercizio o dal non esercizio dell’attività amministrativa, anche se introdotte in via autonoma rispetto al giudizio di annullamento, così unificando le tutele in capo al G.A., cui è riconosciuta una giurisdizione piena. Si elimina, pertanto, l’onere per il danneggiato di attivare un separato giudizio innanzi al G.O. (al quale era precedentemente riconosciuta la cognizione su tutti i c.d. “diritti patrimoniali consequenziali”). Il giudice della lesione degli interessi legittimi, quindi, è sempre il G.A. anche quando l’azione risarcitoria è esercitata in via autonoma rispetto a quella di annullamento ed anche nel caso dei c.d. comportamenti amministrativi, riconducibili comunque all’esercizio del pubblico potere, in quanto attuativi di atti o provvedimenti amministrativi (come confermato in Corte Cost.n.191/2006).
Tale impostazione, tuttavia, è parzialmente contrastata dalla recente ordinanza delle S.U. n. 8236/2020 che riprende in toto l’orientamento della Corte di Cassazione, propugnato nelle ordinanze c.d. “gemelle” delle SSUU del 2011 (Cass., SS.UU., 23 marzo 2011, n. 6594, n. 6595 e n. 6596).
In tali pronunce, quella che sembra riproporsi è una concezione ormai anacronistica e, per certi versi, in linea con la precedente norma di cui all’art. 7 della l.n.205/2000, secondo cui il presupposto della giurisdizione amministrativa sarebbe che il pregiudizio di cui si chiede il risarcimento nei confronti della PA sia causalmente collegato alla illegittimità del provvedimento amministrativo; in altri termini, la causa petendi dell’azione di danno sarebbe l’illegittimità dell’atto, esulando pertanto dalla giurisdizione amministrativa la pretesa risarcitoria fondata non su tale illegittimità, ma sulla deduzione di una lesione dell’affidamento nella correttezza del comportamento della PA, a fronte di una condotta difforme dai canoni di correttezza e buona fede, priva di collegamento, anche solo mediato, con l’esercizio del potere amministrativo. Poiché, quindi, un provvedimento, comunque illegittimo, annullato in autotutela o su ricorso di un altro soggetto leso, continua a rilevare come mero comportamento per il soggetto che ne aveva tratto vantaggio, l’unico rimedio esperibile sarebbe quello risarcitorio, per aver il privato confidato incolpevolmente nell’apparente legittimità del provvedimento. Il relativo danno prescinde così da valutazioni sull’esercizio del potere, con la conseguente affermazione della giurisdizione del G.O. Il soggetto il cui affidamento è stato leso non può infatti essere tenuto a domandare al G.A. un accertamento della illegittimità del suddetto comportamento, che ha invece tutto l’interesse a contrastare nel giudizio di annullamento da altri provocato.
Unica peculiarità dell’oggetto del recente giudizio deciso con l’ordinanza in esame, rispetto alle fattispecie decise dalle SSUU nel 2011: l’assenza di un precedente provvedimento. Benché infatti sempre rapportabile ad una questione ampiamente riconducibile al tema del c.d. danno da provvedimento favorevole, la fattispecie in questione è caratterizzata dalla semplice lesione dell’affidamento ingenerato nel privato da parte della condotta della PA, violativa dei canoni generali di correttezza e buona fede.
Il caso riguarda infatti la richiesta di risarcimento del danno avanzata da una società di costruzioni per la lesione dell’affidamento circa l’emanazione di un permesso a costruire che il Comune aveva determinato mediante ripetuti comportamenti interlocutori, ritenuti idonei a creare un’aspettativa positiva sul rilascio del provvedimento. Il pregiudizio lamentato consiste nel condizionamento alla libertà di autodeterminazione del privato e nella conseguente perdita patrimoniale e di tempo derivata dalle scelte negoziali formatesi medio tempore.
L’inquadramento sistematico della fattispecie compiuto dalle SSUU ha escluso le diverse ricostruzioni dell’amministrazione, volte a far valere la giurisdizione esclusiva del G.A., negando in primo luogo che si trattasse di controversia in materia di risarcimento del danno da mero ritardo, ex artt. 133, co 1, lett. a), n.1 c.p.a. e 2-bis, co 1 l.n.241/90, non essendo, nel caso di specie, causa del pregiudizio il ritardo nel pronunciamento della P.A., ma il suo comportamento positivo e produttivo di aspettative successivamente deluse. Né si trattava, secondo la ricostruzione delle SSUU, di controversia rientrante nell’art. 133, co 1, lett. f), c.p.a. ed avente ad oggetto «atti e provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio», essendo stato il danno cagionato, nella vicenda de qua, non da atti o provvedimenti, ma dal comportamento tenuto dalla P.A. nella gestione dei rapporti tra i propri uffici e la società, tale da ingenerare in quest’ultima un incolpevole affidamento nel rilascio del permesso, poi deluso dal diniego finale (del quale non viene contestata la legittimità).
Secondo la Suprema Corte veniva integrata, invero, la fattispecie del danno da comportamento (non da provvedimento), generato dalla violazione dei criteri privatistici di correttezza e buona fede e privo di ogni collegamento con l’esercizio del potere. La condotta della p.a, nel caso de quo, si pone su un piano diverso rispetto a quello della scansione degli atti procedimentali che conducono al provvedimento, collocandosi piuttosto in una più ampia dimensione relazionale complessiva tra l’amministrazione ed il privato.
Nel motivare la possibilità di estendere la posizione assunta nel 2011 anche al caso in esame, le SSUU hanno in primis rilevato come l’essenza stessa del principio sancito nelle ordinanze “gemelle” consista nel ritenere, nelle ipotesi in esse considerate, il provvedimento amministrativo illegittimo quale presupposto – sia applicativo che causale – del danno verificatosi, il quale, però, non è scaturito dal provvedimento, ma dalla fattispecie complessa costituita dall’emanazione dell’atto favorevole illegittimo, dall’incolpevole affidamento del beneficiario nella sua legittimità e dal successivo (legittimo) annullamento dell’atto. La lesione, in altri termini, discenderebbe non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo che si estrinseca nel provvedimento, bensì dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell’amministrazione, la cui violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Conseguenza di questa premessa sarebbe l’inevitabile applicazione del suddetto principio anche alle ipotesi in cui manchi del tutto un precedente provvedimento della P.A. ed in cui il danno derivi esclusivamente da comportamenti scorretti dell’amministrazione. A sostegno della assimilazione tra le due situazioni, vale anche, secondo la Corte, il fatto che l’annullamento, in autotutela o giurisdizionale, del provvedimento, agendo retroattivamente, è idoneo a determinare una mancanza ab origine del provvedimento stesso, che, pertanto, è come se non fosse mai venuto ad esistenza.
L’adesione a tale impostazione ermeneutica non è però del tutto condivisibile: sia nel caso di annullamento di un provvedimento favorevole, sia nel caso di sua mancata adozione, lesiva però dell’affidamento, la relazione tra le parti si estrinseca all’interno del procedimento amministrativo, che è il luogo e modo fisiologico di manifestazione del potere, e, in tale sequenza di atti e comportamenti, non è concepibile una condotta procedimentale non riconducibile ad esso, anche in via mediata. Il danno eventualmente arrecato, di conseguenza, non può che essere “collegato” al potere amministrativo e la tutela risarcitoria che si intende azionare non può che essere comunque rivolta a ristorare le conseguenze di un potere illegittimamente esercitato. Ad essere controverso è comunque l’agire provvedimentale nel suo complesso, del quale l’affidamento costituisce un riflesso, privo di incidenza sulla giurisdizione. La pretesa di non vedere lese le aspettative del privato verso l’agire provvedimentale costituisce una realtà unitaria, inscindibile con il provvedimento, qualora emanato (anche se successivamente annullato), e che in ogni caso dialoga con una funzione autoritativa (qualora il provvedimento sia negato). Si è in presenza, quindi, di un interesse legittimo con l’ovvia conseguenza, in punto di giurisdizione, che i danni da comportamenti scorretti nella gestione del procedimento amministrativo vanno ricondotti alla giurisdizione generale di legittimità del G.A., quale giudice non dell’atto ma del potere, ex art. 7 c.p.a.. L’amministrazione, nel perseguire il fine della “buona amministrazione” (art. 41 Carta dei diritti fondamentali della UE), non agisce da corretto contraente: la buona fede e la correttezza rilevano invece come regole modali dei pubblici poteri e non come parametro privatistico di un’azione amministrativa considerata nel suo aspetto “precontrattuale”.
Ad altrettante criticità si espone anche la configurazione compiuta dalle SSUU dell’affidamento rilevante nel caso di specie, che sarebbe, secondo la Corte, di natura civilistica ovvero di tipo soggettivo (incolpevole), rilevando la condotta delle parti (così da distinguerlo da quello legittimo/oggettivo che connota, invece, l’esercizio dell’autotutela amministrativa e che si risolve nella verifica della legittimità degli atti formali). Si porrebbe, pertanto, come una situazione autonoma, tutelata in sé, e non nel suo collegamento con l’interesse pubblico, quale aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione fondata sulla buone fede, sostanziandosi non in un presunto «diritto soggettivo alla conservazione dell’integrità del patrimonio» (concetto pur ricorrente nella giurisprudenza della Corte), ma nell’affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della P.A. Intendendosi invece l’affidamento più correttamente quale riflesso dell’agire procedimentale, lo stesso si connoterebbe come diritto meramente strumentale alla tutela dell’interesse legittimo (come i diritti procedimentali e le facoltà connesse alla partecipazione), ma non come autonomo diritto di natura privatistica. E’ proprio la sua natura pubblica che non può essere persa di vista. Il principio è sì di estrazione privatistica, ma riguarda l’aspettativa nei confronti di un agire pubblico che, nell’esplicarsi del procedimento, sia lineare e non contraddittorio e non ingeneri false convinzioni in ordine al suo esito favorevole. Il procedimento amministrativo, pur scandito in fasi, deve quindi essere considerato quale realtà unitaria e non come momento “bifasico” da cui deriverebbero distinti rapporti privatistici e pubblicistici. La scissione dei due ambiti rischierebbe di far regredire l’interesse legittimo quasi a mera pretesa alla legittimità formale dell’azione amministrativa, come era ritenuto in passato, in quanto tutti gli aspetti connessi alla correttezza dell’agire pubblico – e che incidono sul risultato finale atteso dal privato – sarebbero assorbiti dal presunto parallelo rapporto privatistico. In realtà, nel rapporto procedimentale le regole giuridiche si fondono con i principi di correttezza per dar vita al giusto procedimento, sia nell’ottica dell’art. 6 CEDU che nella legge n. 241/90. La lesione dell’affidamento procedimentale dovrebbe quindi essere più correttamente qualificata come interesse legittimo. Avvalora ulteriormente questa impostazione il fatto che la fattispecie risarcitoria esaminata è ricondotta poi dalla Corte nell’ambito della responsabilità da contatto sociale, quindi collocabile nella responsabilità (contrattuale) da inadempimento ex art. 1218 c.c., richiamando anche l’impostazione estensiva dell’Adunanza Plenaria n. 5/2018. Quest’ultima ha in effetti ampliato l’applicabilità dei principi di correttezza e buona fede derivanti dai vincoli solidaristici costituzionali anche alle fasi a connotazione pubblicista del procedimento ad evidenza pubblica (nella specie, nella fase che precede l’aggiudicazione nelle gare ad evidenza pubblica). Tuttavia, il richiamo a tale pronuncia, per i fini che qui interessano, andrebbe ridimensionato, considerando che la Plenaria non prende posizione sulla natura della responsabilità precontrattuale, non aderendo, dunque, all’impostazione della giurisprudenza civile che la riconduce sempre più nell’alveo di quella contrattuale; inoltre, chiarendo che «nell’ambito del procedimento amministrativo regole pubblicistiche e regole privatistiche operano in maniera contemporanea e sinergica», nega l’esistenza del parallelismo all’interno dell’attività autoritativa del procedimento tra situazioni giuridiche di diritto pubblico e privato, restando confermato, invece, il legame tra comportamento e potere. Ne consegue che il contatto sociale nel diritto amministrativo, genera non gli obblighi di protezione delle obbligazioni civilistiche ma interessi legittimi frutto dell’intermediazione pubblicistica e, in quanto tali, rimessi alla giurisdizione del G.A., in linea con l’ormai acquisita natura del giudizio amministrativo come giudizio sul rapporto (e non solo sull’atto).