Lab-IP

LABORATORIO PER L’INNOVAZIONE PUBBLICA 3/2021

INDICE

  1. La legittimità del d.P.C.M. come atto presupposto del reato di Emanuel Silvestri.
  2. Il discussion paper della Consob sulle opa in Italia: profili critici e spunti di riflessione di Luciano Vitali.
  3. Stadio di Pisa: la variante, che ha bloccato la moschea, rischia di bloccare la ristrutturazione dell’impianto? di Antonio Triglia.
  4. EU-Cina CAI: l’accordo sugli investimenti tra l’Unione e il Dragone di Tommaso di Prospero.
  5. Le fragilità del sistema di vigilanza finanziaria sulle società ‘fintech’: il caso Wirecard di Tommaso Mazzetti di Pietralata.
  6. Le gare di appalto e la discriminazione delle PMI di Gaia Mazzei.
  7. Il labile confine tra giurisdizione amministrativa e ordinaria in tema di legittimo affidamento di Giuditta Russo.

LA LEGITTIMITA DEL D.P.C.M. COME ATTO PRESUPPOSTO DEL REATO

Emanuel Silvestri

Tra i temi più dibattuti a livello di dottrina e giurisprudenza che l’emergenza Covid19 ha portato alla luce c’è sicuramente quello relativo alle limitazioni che atti di natura amministrativa hanno recato a diritti fondamentali, costituzionalmente protetti, come la libertà personale e la libertà di circolazione.

In questo ambito si colloca una recente sentenza del 15 marzo 2021, n.54/2021 del Tribunale di Reggio Emilia, che ha fatto molto discutere per le conseguenze in tema di rapporti tra diritto amministrativo e diritto penale nel contesto della situazione emergenziale generata dal diffondersi dell’epidemia di coronavirus.

Il fatto ha riguardato la richiesta del Pubblico Ministero della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Emilia, al Giudice per le Indagini Preliminari (G.I.P.), di un decreto penale di condanna, ai sensi degli art. 459 e ss. C.p.p., nei confronti di due soggetti per il reato di falso ideologico ex art.483 c.p., avendo gli stessi attestato falsamente nell’autocertificazione presentata ai Carabinieri in sede di controllo, di trovarsi fuori dalla propria abitazione, in contrasto con quanto stabilito dal D.P.C.M. 8 marzo 2020, per recarsi presso il locale Ospedale ad eseguire accertamenti clinici. Da una successiva attività di verifica delle forze dell’ordine, emergeva come non vi fosse stato alcun accesso dei pazienti nella data indicata, per cui il verbale con la notizia di reato veniva trasmesso alla competente Procura per l’ulteriore corso del procedimento culminato con la richiesta del P.M. procedente di condanna a mezzo di decreto penale.

Il GIP, tuttavia, ha respinto la richiesta dell’accusa pronunciando sentenza di proscioglimento ex art.129, attestando che la violazione contestata trova quale presupposto l’obbligo di compilare l’autocertificazione imposto in via generale con atto del Presidente del Consiglio dei Ministri, e che, in via assorbente, tale atto debba ritenersi “illegittimo”, nella parte in cui prescrive che “allo scopo di contenere il contagio da coronavirus, le misure del Dpcm 8 marzo (obbligo di autocertificare i movimenti) sono estese a tutto il territorio nazionale” così come con le misure specifiche riguardanti la Regione Lombardia e tutta un’altra serie di Province, specificatamente indicate, finalizzate in particolare (Art.1) ad “evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità, ovvero spostamenti per motivi di salute”. Secondo il giudice, un divieto generale e assoluto di spostamento, seppur con importanti eccezioni, configurerebbe un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare al pari della sanzione restrittiva della libertà personale per alcuni gravi o particolari reati in fase cautelare, giudiziale o esecutiva, irrogata dal giudice penale in base a rigidi presupposti di legge coperti da riserva. Nella sentenza si evidenzia come situazioni meno coercitive dell’obbligo di permanenza domiciliare come la disciplina del Testo Unico sull’immigrazione in tema di accompagnamento coattivo dello straniero alla frontiera oppure di trattamento sanitario obbligatorio (T.S.O.), siano da considerarsi protette dal medesimo approccio garantista affidate al controllo di un giudice sulla sussistenza dei relativi presupposti di legge. Il richiamo nella sentenza analizzata all’articolo 13 della Costituzione in merito alle misure restrittive personali da adottare “solo per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”, impedirebbe ad una fonte meramente regolamentare di rango secondario come il DPCM di imporre simili limitazioni. Per di più, il giudice sottolinea come neanche un atto primario come la legge o l’atto avente forza di legge possa prevedere in via generale e astratta l’obbligo di permanenza domiciliare disposto su una pluralità indistinta di cittadini, stante la doppia riserva, di legge e di giurisdizione, disciplinata dall’art.13, rendendo sempre necessario un provvedimento individuale diretto nei confronti di uno specifico soggetto. Va peraltro esclusa qualsiasi possibilità di rimessione della questione alla Corte costituzionale, essendo il Dpcm un atto di natura amministrativa e pertanto non soggetto alla questione di legittimità costituzionale.

Da meno, non può spostarsi il problema per rendere il Dpcm conforme a Costituzione facendo riferimento alle limitazioni della libertà di circolazione ex art.16 piuttosto che alla libertà personale ex art.13. Si rammenta infatti come la stessa Corte costituzionale (sent.n.68/64) abbia circoscritto la libertà di circolazione “all’accesso a determinati luoghi perché ad esempio, pericolosi o infetti” mentre un obbligo generalizzato di permanenza domiciliare come in questo caso riguardi le persone e non specifichi luoghi, tale da palesarsi come una vera e propria limitazione della libertà personale “in forma assolutizzante” impedendo di fatto al cittadino di recarsi in luoghi diversi dalla propria abitazione.

Infine, la fattispecie criminosa per cui sono stati imputati i soggetti, falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico ex art.483 c.p., evidenzia come gli stessi siano stati “costretti” al reato, cioè sottoscrivere un’autocertificazione mendace, sulla base di un atto presupposto da considerarsi illegittimo. Da ciò deriverebbe la non punibilità della contestata condotta di falso per esclusione di antigiuridicità in concreto determinandosi il c.d. “falso inutile” configurabile quando la falsità incide su un documento irrilevante o non influente ai fini della decisione da emettere. Visto il contrasto con l’articolo 13 Cost., il giudice ordinario ha il dovere di disapplicare tale provvedimento amministrativo ai sensi dell’art.5 della Legge n.2248 del 1865, All. E, portando a ritenere che il conseguente falso ideologico ravvisato nell’autocertificazione sia pertanto da considerarsi innocuo o inutile in modo che la richiesta di decreto penale di condanna non possa trovare accoglimento perché il fatto non costituisce reato.

Sebbene è vero come al giudice ordinario sia riconosciuto un potere generale di disapplicazione di fronte ad un atto amministrativo reputato illegittimo, non può non evidenziarsi come il GIP di Reggio Emilia abbia agito come un vero e proprio giudice amministrativo nel sindacato dell’atto presupposto, anche oltre il necessario per la risoluzione della controversia in esame. Per dovere di completezza, va ricordato come diversi altri giudici, chiamati ad affrontare le medesime questioni, siano addivenuti a considerazioni diametralmente opposte circa la legittimità dei Dpcm per imporre limitazioni alla libertà personali. Certamente, non può essere sottaciuto un problema che nella prima fase dell’emergenza ha spinto il legislatore a stigmatizzare per il tramite del ricorso esclusivo alla sanzione penale qualsiasi violazione che potesse pregiudicare il contenimento del virus, creando non pochi circa la legittimità dell’atto presupposto per farlo.

Quanto detto è stato peraltro confermato dal “cambio di rotta” adottato dal decisore politico con il Decreto-legge 25 marzo 2020, n.19 che, se da una parte inasprisce il quadro punitivo introducendo la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 per il mancato rispetto delle norme previste con Dpcm, dall’altro circoscrive il ricorso al diritto penale ai soli casi più gravi, salvo che il fatto costituisca reato. In tal modo, si è voluto evitare che il diritto penale divenisse lo strumento principale ed esclusivo in grado di perseguire violazioni imposte con atto amministrativo generando non solo un problema di materiale sostenibilità del sistema penalistico ma anche di stretta legalità costituzionale.

Il discussion paper della Consob sulle opa in Italia: profili critici e spunti di riflessione

Luciano Vitali

Il 9 Gennaio 2021 la CONSOB ha pubblicato un importante discussion paper intitolato “Le Opa in Italia dal 2007 al 2019: evidenze empiriche e spunti di discussione”. Il paper non intende trarre dallo studio statistico considerazioni di policy o proposte di riforma della disciplina vigente ma si pone, piuttosto, come un punto di partenza per una riflessione generale sul funzionamento di tale direttiva in Italia e su come questa influenzi le scelte degli operatori del settore, analizzando l’impatto della Direttiva Opa (la 2004/25CE, recepita in Italia solo tre anni dopo) sul mercato dei capitali italiano, nonché le offerte pubbliche di acquisto e di scambio promosse in Italia nel periodo intercorrente tra il 2007 e il 2019.

La prima parte del documento contiene un breve excursus storico volto a far emergere i motivi che hanno portato all’introduzione della direttiva.

In particolare, la Consob si sofferma su come le offerte pubbliche di acquisto si siano affermate verso la metà del secolo scorso, principalmente negli Stati Uniti, quale strumento di sollecitazione del mercato per l’acquisizione di partecipazioni di società quotate anche attraverso accordi privati tra investitori e amministratori della società target. In un contesto di mercato quale quello statunitense, caratterizzato da società quotate con azionariato diffuso, il crescente ricorso a tale forma di acquisizione di rilevanti quote partecipative contribuì a creare una grave situazione di incertezza nelle dinamiche del “controllo societario”, con inevitabili ripercussioni sulla stabilità del mercato. In mancanza di regole ad hoc, la società bersaglio, e dunque gli azionisti che di questa facevano parte, non erano nelle condizioni di avere sufficienti informazioni riguardo gli acquirenti, tali da poter valutare correttamente i termini dell’offerta. Questa asimmetria informativa intralciava la possibilità degli azionisti dell’emittente di contrastare o assecondare consapevolmente l’offerta di acquisto ed al mercato nel suo complesso di operare scelte razionali. Tale situazione portò la dottrina ad elaborare la creazione di un sistema “ottimale” di regole al fine di bilanciare due obiettivi, talvolta tra loro antagonisti: la possibilità di promuovere lo sviluppo del mercato attraverso trasferimenti del controllo in grado di generare valore, e la protezione degli azionisti di minoranza dal pericolo di estrazione di benefici economici privati da parte degli offerenti, degli azionisti di maggioranza ovvero dei loro amministratori.

La ricerca di tale equilibrio trova ampio riflesso anche nella disciplina euro-unitaria, che in questo ambito ha introdotto regole armonizzate con la Direttiva Opa sopra citata,. In particolare, la direttiva ha imposto agli Stati membri di armonizzare la regolazione interna delle offerte pubbliche di acquisto informandola a principi generali (art. 3 della Direttiva) che aumentino la consapevolezza dei soggetti destinatari dell’offerta. Tra gli strumenti introdotti dalla direttiva è necessario menzionare innanzitutto la previsione di un’offerta obbligatoria, fondata sul principio della parità di trattamento e che rispetti un “prezzo equo” di offerta, elemento centrale della disciplina. A livello informativo, è importante citare come sia stata resa obbligatoria la predisposizione da parte dell’offerente di un documento d’offerta con elementi minimi di cui questo si deve comporre; suddetto documento dovrà essere approvato dall’Autorità, che ne valuta la corrispondenza a quanto richiesto dalla legge, e poi successivamente pubblicato.

Successivamente all’introduzione della direttiva nell’ordinamento italiano, avvenuta con il d.lgs. 229/2007, il legislatore ha poi provveduto ad adattare tale disciplina al continuo evolversi dei mercati mediante nuovi atti normativi che tuttavia non hanno mutato i capisaldi della disciplina. Tra le innovazioni più rilevanti, la Consob segnala la scissione temporale tra la “comunicazione” dell’offerta e la “promozione dell’offerta”, l’istituzione di un termine decadenziale per il deposito del documento di offerta presso la Consob e la disposizione che prevede l’irrevocabilità dell’offerta. Altre modifiche importanti sono riconducibili alla disciplina dell’offerta obbligatoria, all’estensione della nozione di acquisto di concerto (con conseguente applicazione della relativa disciplina) e all’inasprimento delle sanzioni derivanti da mancato adempimento dell’obbligazione di promuovere un’Opa. Vanno infine menzionate le norme che disciplinano le offerte pubbliche di acquisto riguardando i titoli quotati nell’AIM, un sistema multilaterale di negoziazione per questo non direttamente sottoposto alla vigilanza dell’Autorità di Controllo. Per I titoli scambiati su tali mercati, la Consob ha provveduto ad emanare un apposito regolamento che, seppure non preclude l’applicabilità della disciplina generale in materia di Opa, ne tiene in conto le peculiarità

Passando ora alla parte relativa all’analisi empirica dei dati elaborati dalla Consob nel discussion paper, sono molti gli spunti di riflessione sui quali gli autori si soffermano e che si riferiscono, prevalentemente, alle offerte aventi ad oggetto azioni. I dati mettono in risalto innanzitutto l’andamento ciclico, “a ondate”, delle operazioni con un particolare rilievo che mette in luce come si sia perso l’iniziale inversa proporzialità tra andamento della borsa e frequenza delle operazioni, con un incremento delle offerte anche a fronte di un andamento non negativo del mercato. L’analisi evidenzia anche come alcuni istituti non risultino particolarmente diffusi ed utilizzati nella prassi: tra questi possiamo citare l’offerta parziale disciplinata dall’art 107 del TUF, l’offerta indiretta o a cascata (art. 45 del regolamento emittenti) o anche l’Opa di consolidamento. Ciò però non sta a significare che tali istituti non siano di rilevante importanza pratica e sistematica nel quadro della struttura regolamentare; tuttalpiù tale rilievo sottolinea come la quasi totalità delle offerte di acquisto hanno il loro fondamento nell’acquisto amichevole e diretto di una partecipazione di controllo elevata, spesso di diritto, che fa appunto sorgere la necessità di un’offerta totalitaria successiva. La stessa tendenza si riscontra poi nelle offerte volontarie, le quali, quando inerenti al cambio del controllo societario, sono sostanzialmente non ostili e implicano l’apporto delle partecipazioni da parte del socio di controllo.

Relativamente a questi ultime evidenze empiriche, la Consob riflette su come queste rispecchino la ben nota concentrazione degli assetti proprietari prevalente in Italia ma si interroga anche sulla possibilità che il quadro normativo attuale possa in qualche modo ostacolare i takeover ostili e in tal senso questo documento potrà certamente offrire una miglior cognizione della situazione attuale per poter poi intervenire a livello regolamentare.

Un altro aspetto sul quale si sofferma l’indagine della Consob è quello relativo alle finalità delle Opa condotte sul mercato italiano. Nello specifico si osserva come, frequentemente, le Opa su azioni (di cui si specifica come circa il 50% provenga da acquirenti esteri) comportino il delisting dei titoli, obbiettivo che viene raggiunto nella quasi totalità dei casi. Ciò che però più desta, in parte, preoccupazione è come da un lato aumenti sempre più la capitalizzazione delle società che prendono parte a tali procedimenti e dall’altro l’uscita dal mercato italiano sia spesso accompagnata dall’ingresso in un altro mercato europeo di diverso ordinamento, il che potrebbe essere dovuto ad una scarsa competitività del mercato interno.

In ultima istanza, un dato emerso dall’analisi empirica condotta nel paper riguarda l’andamento dei corsi azionari e quindi la redditività dell’investimento, nel periodo successivo alla conclusione dell’offerta. Dai dati raccolti emerge come fino ai tre anni successivi all’investimento vi sia un andamento decisamente negativo nelle offerte che non siano relazionate ad una business combination (integrazioni industriali che migliorano l’efficienza e la gestione aziendale). Tale evidenza fa sorgere qualche preoccupazione circa la possibilità del sistema di favorire operazioni di cambio di controllo che consentano l’ingresso di azionisti in grado di meglio gestire la società. Da ciò si evince come ai soggetti destinatari dell’Opa convenga aderire all’offerta il che apre delle riflessioni sulla reale efficacia della funzione selettiva del mercato del controllo.

Stadio di Pisa: la variante, che ha bloccato la moschea, rischia di bloccare la ristrutturazione dell’impianto? 

Antonio Triglia

Tra le recenti vicende aventi ad oggetto l’ammodernamento degli stadi è singolare e merita un approfondimento l’iter intrapreso dall’amministrazione comunale di Pisa per la riqualificazione dello Stadio Comunale ed il caso giurisprudenziale che ne è scaturito, che ha visto il coinvolgimento di contrapposti interessi di alto rilievo costituzionale.

Il percorso di ammodernamento dell’Arena Garibaldi-Stadio Romeo Anconetani prende vita dalla proposta di studio di fattibilità, presentata il 30/10/2017 dalla Società DEA Capital, per la riqualificazione e valorizzazione dello stadio di Pisa, secondo quanto previsto dalla normativadell’art.1 co.304 della L. 147/2013;

Nonostante in passato il comune avesse pensato di costruire un nuovo Stadio nela zona denominata Ospedaletto, l’attuale indirizzo prevede la valorizzazione dell’area sulla quale sorge lo storico impianto che ospita gli incontri del Pisa Calcio dall’inizio del XX secolo.

Infatti, l’Arena è stata ritenuta più adatta per accogliere una struttura che, in conformità all’idea dello stadio moderno, dovrà svolgere non solo la canonica funzione sportive, ma avrà anche funzioni commerciali e artistiche, che coinvolgeranno i cittadini (del quartiere e dell’intera città). Lo Stadio sorge a circa 200 m dalla celebre Piazza dei Miracoli e l’idea del Comune è di renderlo facilmente raggiungibile anche con percorsi pedonali.

Inoltre, come accaduto anche a Bergamo con la ristrutturazione dell’ex “Atleti azzurri d’Italia”, all’intervento sullo stadio si accompagnerà un rinnovamento dell’intera area che verrà dotata di servizi, come parcheggi e spazi per il tempo libero, di cui oggi è carente.

Il Progetto presentato dalla Società Dea Capital, dopo un lungo iter approvato in Conferenza Servizi, prevede il trasferimento in capo a un Fondo comune di Investimento Immobiliare, promosso e partecipato dal Comune di Pisa, della proprietà o del diritto di superficie dello Stadio Arena Garibaldi, con contestuale cessione a favore del Comune di quote del Fondo e con necessità di selezionare, tramite procedura a evidenza pubblica, la Società di Gestione del Risparmio, così come previsto dall’art.33 co.2° del D.L. 98/2011 in materia di valorizzazione del patrimonio immobiliare.

Al fine di permettere l’alienazione de qua è stato necessario l’inserimento dello stadio comunale nell’elenco dei beni comunali di cui al “piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari”, effettuato con la delibera del Consiglio Comunale n. 17 del 19/04/2018.

Il nuovo impianto sportivo avrà una capienza di 18.000 posti a sedere tutti al coperto, separati in 4 settori, con mantenimento e riqualificazione della tribuna principale esistente e realizzazione ex novo dell’altra tribuna e delle curve.

Il progetto prevede altresì il rifacimento dell’intera zona su cui sorge l’Arena Garibaldi, per cui l’amministrazione comunale ha dovuto procedere ad una variante sia al Piano Strutturale e sia al Regolamento Urbanistico, i principali documenti con cui si esplica a livello comunale la pianificazione urbanistica nella Regione Toscana (procedure e modalità previste dalla L.R. 65/14).

Proprio quest’ultimo procedimento, avente ad oggetto la modifica dei documenti urbanistici, ha determinato un nuovo contenzioso tra il Comune di Pisa e l’associazione culturale islamica cittadina.

Il Comune di Pisa aveva già provato a modificare la destinazione dell’area di proprietà della Comunità islamica cittadina, che avrebbe dovuto ospitare la futura Moschea, sottraendo la destinazione a edifici di culto e ponendo quella di realizzazione di parcheggi pubblici e a verde pubblico, con conseguente apposizione del vincolo preordinato all’esproprio. Ciò aveva comportato il sorgere di un contenzioso tra le stesse parti e in seguito l’amministrazione aveva interrotto il procedimento.

Successivamente la nuova amministrazione, guidata dal Sindaco leghista Conti, ha inserito, nel contesto della più ampia variante finalizzata alla riqualificazione dello stadio cittadino, la modifica della destinazione d’uso dell’area di proprietà della Comunità islamica di Pisa per la realizzazione della Moschea.

Pertanto, l’associazione culturale Islamica ha proposto ricorso al Tar Toscana per impugnare la delibera del Consiglio Comunale n. 38/2019, con la quale il Comune di Pisa ha adottato la variante al Piano strutturale e contestuale variante al regolamento urbanistico, che prevedeva la soppressione della scheda 10.1 Porta a Lucca Enel con cui all’area di proprietà dell’Associazione culturale islamica era stata impressa la destinazione a parcheggi pubblici e a verde pubblico.

Per cui, come emerge da alcune osservazioni del Tar, l’area della associazione Culturale islamica era stata già precedentemente “presa di mira” dall’amministrazione Pisana, la quale ha “manifestato con atti formali la volontà di impedire la realizzazione della Moschea”, avendo emesso diniego di permesso di costruire l’edificio di culto e avendo già provato in un autonomo e precedente procedimento finalizzato all’adozione di una variante allo strumento urbanistico comunale a modificare la destinazione dell’area in oggetto.

Secondo il Collegio nel caso di specie il Comune non ha legittimamente esercitato la propria potestà di modificare la pianificazione del proprio territorio, poichè il corretto esercizio dell’ampia discrezionalità che in questo contest le è attribuito passa per una comparazione di tutti gli interessi coinvolti, ed invece l’amministrazione Pisana non aveva operato un raffronto tra gli interessi implicati dall’azione amministrativa e un interesse molto particolare, quale quello dell’associazione ricorrente, in quanto espressamente tutelato dall’art. 8 e dall’art. 19 della Costituzione.

Infatti, l’associazione è portatrice dell’interesse alla costruzione di un edificio, che sarebbe l’unico nel Comune di Pisa destinato ad accogliere il culto di quanti pratichino la religione islamica, oggi molto diffusa anche in Italia.

Per cui il Tar ha messo in evidenza come la modifica della destinazione dell’area incidesse eccessivamente sull’aspettativa maturata dall’associazione, che certamente proprio in virtù della previgente disciplina urbanistica che destinava il terreno alla realizzazione di luoghi di culto, ne aveva acquistato la proprietà. Tale aspettativa è qualificata “in termini ben più pregnanti di quanto non sia l’aspettativa del proprietario che intende ottenere il massimo vantaggio patrimoniale dall’utilizzo del suo immobile”, in quanto indirizzata a realizzare un diritto fondamentale dell’individuo espressamente tutelato dalla Costituzione, ma anche dalle richiamate Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali.

Tale circostanza è stata, nel caso di specie, trascurata dalle determinazioni del Comune. Infatti, nonostante siano presenti nel Comune altre aree destinate ad edifici di culto, e quindi l’interesse a edificare un luogo ove praticare pubblicamente e collettivamente la religione musulmana non fosse definitivamente e in assoluto compresso, quest’ultimo veniva comunque ostacolato fortemente, frustrando il percorso avviato dall’associazione culturale con l’acquisto del terreno e con l’avvio del procedimento per ottenere il necessario permesso di costruzione.

Pertanto, la deliberazione del Consiglio impugnata rendeva estremamente difficile la soddisfazione del predetto interesse, e ciò senza che l’amministrazione avesse prodotto lo sforzo di motivare la propria scelta specificamente indicando la presenza di un interesse pubblico prevalente che potesse giustificare le gravi difficoltà provocate agli interessi della Comunità Islamica.

Il Collegio sembra aver seguito quanto affermato recentemente dal Consiglio di Stato, in merito all’obbligo di motivazione delle scelte pianificatori, le quali richiedono una motivazione più o meno ampia, in relazione al fatto che si tratti di previsioni concernenti uno strumento di pianificazione generale ovvero un’area determinata o quando incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative di un soggetto pubblico o private (Consiglio di Stato Sez. IV n. 4707 del 11 ottobre 2017).

Pertanto, la suddetta deliberazione è stata annullata dalla sentenza del Tar del 13 maggio 2020.

Tuttavia, il percorso intrapreso dall’amministrazione Pisana verso la ristrutturazione dello Stadio dovrebbe proseguire senza rallentamenti poiché la Variante adottata, come ha chiarito il Sindaco Conti, dovrebbe restare efficace in tutte le sue parti eccezion fatta per quella relativa all’area della Moschea.

Infatti, l’annullamento potrebbe incidere in parte qua. A dare rassicurazioni in tal senso è la giurisprudenza amministrativa registrata in caso di annullamento dei piani urbanistici, relativamente ai quali in genere si ha la caducazione integrale in caso di vizi procedimentali che si estendono a tutta l’attività amministrativa posta in essere nel procedimento di formazione del piano, mentre, in presenza di vizi di carattere “sostanziale”, non incidendo sul procedimento di formazione del piano, relativi alla pianificazione di una singola area, l’annullamento è soltanto parziale.

EU-Cina CAI: l’accordo sugli investimenti tra l’Unione e il Dragone 

Tommaso Di Prospero

L’Unione Europea e la Repubblica Popolare Cinese hanno annunciato lo scorso 30 dicembre 2020 di aver concluso le negoziazioni sul Comprehensive Agreement on Investments (CAI), che istituisce un accordo unico sulla disciplina degli investimenti diretti esteri tra le due parti. L’accordo rientra tra le competenze esclusive dell’Unione Europea ai sensi dell’articolo 207 TFUE introdotto con il Trattato di Lisbona, e sostituirà integralmente la disciplina dei ventisei Bilateral Investment Treaties (BITs) conclusi tra gli Stati membri e la Cina. Ad oggi non è ancora disponibile il testo definitivo che dovrà essere sottoposto all’approvazione del Consiglio europeo e del Parlamento europeo, ma la Commissione ha rilasciato in data 22 gennaio 2021 il testo integrante i Principi del CAI che saranno oggetto dell’accordo conclusivo. La normativa si basa sui pilastri dell’accesso al mercato, della tutela della concorrenza, sull’attenzione ai temi di sviluppo sostenibile, salute e lavoro, e della risoluzione delle controversie. La Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato che, dopo sette anni di negoziazione, il CAI garantirà «un accesso al mercato cinese per gli investitori europei senza precedenti». Alla sezione I della bozza, infatti, le parti confermano il rispetto per gli impegni assunti sotto il WTO e, soprattutto, assumono l’impegno di creare un clima più favorevole per la facilitazione e lo sviluppo degli scambi commerciali e degli investimenti.

Focalizzando l’attenzione sulle misure di reciprocità nell’accesso al mercato contenute nella sezione II della bozza (“Liberalisation of Investments”), il CAI definisce, secondo quanto emerso sinora, quali settori saranno oggetto di interesse per l’apertura agli investimenti. Rientreranno tra questi il settore dell’industria automobilistica, delle telecomunicazioni, della sanità privata e dei servizi finanziari, immobiliari e di spedizione. Questo permetterà agli investitori europei che investano in tali settori di bypassare il meccanismo di controllo sulle acquisizioni sul mercato cinese. Tale meccanismo imponeva all’investitore estero l’utilizzo di specifici business veichles come la costituzione di una joint venture con una azienda del luogo per essere riconosciuti dal diritto cinese. Nonostante la elencazione positiva dei settori “aperti” con il nuovo CAI, rimangono valide le limitazioni della negative list che la Cina rilascia dal 2017 su base pressoché annuale e che indica i settori preclusi agli investitori esteri. Occorre notare come questa apertura agli investimenti in diversi settori sia in un certo qual senso contrastante con la recente stretta introdotta dal Regolamento UE n. 452/2019, che istituisce un quadro europeo sullo screening degli investimenti diretti esteri. La bozza del CAI rimanda ad un’appendice ancora non pubblicata la disciplina dei termini, limitazioni e condizioni a cui gli investimenti regolati dal CAI saranno sottoposti, che sicuramente dovrà assurgere al non agile compito di coordinamento con i meccanismi di screening di entrambe le parti. Per il momento, la bozza del CAI recita laconicamente, alla sezione VI (“Institutional and Final Provisions”), articolo 10 (“Security Exception”), lettera b, che nulla preclude alle parti di adottare provvedimenti ritenuti necessari per la protezione dei propri interessi essenziali di sicurezza.

Per quanto riguarda il secondo pilastro, ossia la parità delle condizioni per tutti gli operatori di mercato, vi sono alcuni profili da segnalare. Le parti hanno infatti assunto impegni che dovrebbero portare concreti benefici per gli investitori europei nella Repubblica Popolare Cinese. Alla sezione II, articolo 3 (“Performance Requirements”), paragrafi 1 e 2 della bozza, viene indicato il divieto di trasferire forzatamente o in ogni modo fare uso delle tecnologie di proprietà degli investitori esteri. Con riferimento le società a partecipazione statale l’articolo 3 bis (“Covered Entities”), paragrafo 3 nella sezione II della bozza statuisce il rispetto del principio di non discriminazione assunto dalle parti. Più specificamente, si richiede alle sopracitate imprese con partecipazione pubblica di applicare, nell’acquisto e nella vendita di beni o servizi, condizioni non discriminanti verso gli investitori esteri rispetto a quelle applicate agli operatori economici locali. Da notare il criterio più ampio rispetto alla disciplina del WTO, che non prevede l’estensione del principio di non discriminazione ai servizi. Allo stesso tempo, il successivo paragrafo 4 indica gli impegni relativi al rispetto del principio di trasparenza. I soggetti che riterranno che i propri interessi siano stati violati dall’attività di una società partecipata dallo Stato target di investimenti, potranno richiedere in forma scritta una serie di informazioni allo stesso Stato, tra cui: la misura di partecipazione statale nella stessa società, inclusi particolari diritti di voto; la presenza o meno di speciali esenzioni o immunità sotto la legge dello Stato che detiene le partecipazioni; l’indicazione delle autorità e dipartimenti governativi che esercitano funzioni di direzione della società. Rimane senza disciplina l’annoso problema (riferibile alla Cina) della disciplina sui sussidi di Stato, sicuramente di rilevanza nel contesto del libero mercato e di reciproci investimenti e ampiamente segnalato dalla letteratura giuridico-economica.

Successivamente, la sezione IV (“Investment and sustainable development”), tratta gli standard in materia di lavoro, sostenibilità, e Corporate Social Responsibility, di su cui le parti si impegnano a condividere una politica comune. Rileva qui notare solo la promessa della Cina di ratificare le convenzioni della Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) sul lavoro forzato e in generale sui diritti dei lavoratori, tuttavia lasciata senza data di scadenza sulla loro firma.

Rimane il pilastro più spinoso di questo accordo sugli investimenti, ossia la tutela degli investimenti e la risoluzione delle controversie derivanti dagli stessi. Questo perché, ad oggi, non esiste ancora in bozza un accordo conclusivo su quale debbano essere i meccanismi di tutela degli investimenti e soprattutto il tribunale (arbitrale o meno) competente per la risoluzione delle controversie. La bozza dell’accordo indica solo che tali questioni continueranno ad essere oggetto di negoziazione tra le parti, stabilendo un limite massimo di due anni dalla firma del CAI per la conclusione delle trattative. Questo ritardo cruciale per la buona riuscita dell’accordo ricalca quanto già avvenuto con l’intesa tra UE e Giappone, nel quale la protezione degli investimenti era stata posticipata a un momento successivo. Sarà però di fondamentale importanza per gli investitori europei determinare il sistema di risoluzione delle controversie, in un paese dove il rispetto dei principi sul giusto processo rimane quantomeno dubbio. Ciò che ci si chiede è se si instaurerà un sistema tradizionale di arbitrato per la risoluzione delle controversie ISDS o si seguirà la linea degli ultimi accordi di investimento dell’Unione Europea come il CETA, con il sistema di stampo europeo denominato Investment Court System (ICS) e già applicato in altri BITs con l’Unione Europea. Sarebbe un interessante passo verso l’affermazione di una corte centralizzata per gli investitori che volessero accedere al mercato dell’Unione, ma rimane incerto il peso che quest’ultima riuscirà ad esercitare in sede di contrattazione con un partner così imponente.

Le fragilità del sistema di vigilanza finanziaria sulle società ‘fintech’: il caso Wirecard

Tommaso mazzetti Di Pietralata

Nel giugno 2020 Wirecard, la più grande compagnia fintech d’Europa, si è trovata al centro di uno scandalo di grande eco mediatica, innescato dalla mancata certificazione del proprio bilancio dovuta alla mendace iscrizione nel medesimo di attività finanziarie per un volume di circa due miliardi di dollari.

La vicenda, anche per la sua risonanza, impone una riflessione sull’adeguatezza della vigilanza finanziaria a monitorare efficacemente le cd. fintech companies, ossia quelle società che forniscono servizi di finanziamento, di pagamento, di investimento e di consulenza ad alta intensità tecnologica.

Wirecard è una società tedesca di tecnologie e servizi finanziari, specializzata nell’elaborazione di pagamenti elettronici. Negli anni successivi alla sua quotazione nella borsa tedesca, la compagnia è cresciuta esponenzialmente, arrivando ad essere inserita, nell’autunno del 2018, nell’elenco delle trenta società quotate con la maggiore capitalizzazione di mercato (il DAX Index).

Già nel gennaio 2019 il Financial Times aveva denunciato delle presunte irregolarità nelle rappresentazioni contabili degli introiti derivanti dalle operazioni in Asia del gruppo finanziario.

La compagnia tedesca, infatti, per operare in vari paesi asiatici (principalmente Singapore, Dubai e le Filippine), aveva stipulato degli accordi di collaborazione con soggetti muniti di licenza locale affinché processassero le transazioni tramite le piattaforme tecnologiche di Wirecard, la quale avrebbe incassato le relative commissioni. I profitti di tali operazioni sarebbero poi confluiti in conti bancari presso due banche delle Filippine.

Secondo la ricostruzione di vari analisti indipendenti, il volume delle operazioni asiatiche sarebbe stato rappresentato in misura di molto superiore al dato reale, sicché anche il dato relativo al saldo dei conti nelle banche filippine (a detta di Wirecard intorno a 2 miliardi di dollari), non sarebbe stato veritiero.

Lo scandalo è poi esploso quando nel giugno 2020 Ernst&Young, la società di revisione dei conti incaricata da Wirecard, non ha certificato il bilancio per mancanza di informazioni sufficienti sui saldi di cassa dei conti asiatici, la cui esistenza nel frattempo era stata smentita dalla Banca centrale delle Filippine.

Poco tempo dopo Wirecard ha presentato istanza di fallimento e il valore delle sue azioni è crollato vertiginosamente.

A seguito dello scandalo l’attenzione si è spostata sull’operato delle autorità di vigilanza tedesche, dimostratesi incapaci di cogliere i segnali del dissesto finanziario di Wirecard e in conseguenza di approntare i necessari controlli.

Una delle ragioni dell’inefficacia dei controlli prudenziali risiede nella qualificazione della capogruppo come società tecnologica, e non come società di partecipazione finanziaria, con conseguente inapplicabilità al gruppo del regime della vigilanza consolidata.

L’art. 4.1(20) del reg. UE 2013/575 (CRR) definisce infatti come ‘società di partecipazione finanziaria’ (financial holding company) la società finanziaria controllante le cui sussidiarie sono esclusivamente o principalmente (exclusively or mainly) imprese bancarie o altri intermediari finanziari.

L’art. 3 lett. j) della seconda direttiva europea sui servizi di pagamento (PSD2, dir. UE 2015/2366) tuttavia esclude espressamente dalla nozione di ‘servizi di pagamento’ i servizi tecnici di supporto, cosicché, nonostante il gruppo Wirecard comprendesse anche una impresa bancaria (la Wirecard Bank), è stato comunque qualificato come gruppo a componente tecnologica prevalente, e pertanto non soggetto alla vigilanza consolidata delle autorità di vigilanza tedesche.

Ne risultava un quadro estremamente frammentario dei controlli, che era così articolato: la componente bancaria del gruppo era soggetta alla vigilanza dell’autorità federale tedesca per la vigilanza sui mercati finanziari, il Bundesanstalt für Finanzdienstleistungsaufsich (BaFin), mentre la capogruppo, in quanto società quotata, era sottoposta al controllo contabile di BaFin e del Deutsche Prüfstelle für Rechnungslegung (DPR), l’organismo di diritto privato che è preposto allo svolgimento di controlli di tipo contabile per conto del governo federale tedesco.

Dal punto di vista della vigilanza prudenziale, pertanto, ciascuna autorità monitorava solamente una porzione del gruppo, risultando così difficile una piena comprensione della complessiva situazione finanziaria.

Pur tenendo conto di ciò, l’operato dei controllori tedeschi nel caso in esame non è esente da censure.

A seguito di tale vicenda, infatti, l’European Securities and Markets Authority (ESMA) ha avviato una ‘Fast Track Peer Review’ diretta a valutare la supervisione operata da BaFin e dal DPR nel quinquennio 2015-2020.

Nel rapporto conclusivo, pubblicato ai primi di novembre 2020, sono illustrati i tratti essenziali del sistema tedesco di controlli sulle società quotate, il quale è improntato ad un modello dualistico (two-tier system) che si regge sull’interazione tra l’attività di BaFin e del DPR.

In particolare, il DPR è preposto allo svolgimento di controlli contabili su soggetti selezionati. Non disponendo di poteri pubblicistici, la sua attività è condizionata alla cooperazione su base volontaria del soggetto vigilato. In presenza di un contegno non collaborativo il DPR deve informarne l’autorità di vigilanza finanziaria di modo che questa effettui le verifiche avvalendosi dei poteri pubblicistici che le sono attribuiti. Quest’ultima può inoltre avocare a sé le verifiche ogniqualvolta lo ritenga opportuno, ed è inoltre titolare in via esclusiva del potere di adottare le adeguate misure qualora riscontri delle irregolarità.

Il documento dell’ESMA evidenzia poi le numerose carenze delle due autorità nell’attività di supervisione. Sarebbe stata infatti tardiva la decisione di sottoporre Wirecard a dei controlli in quanto, nonostante varie segnalazioni provenienti da autorevoli testate di settore (tra cui il Financial Times), la società tedesca non è stata mai selezionata per approfondimenti nelle annate 2015-2017. Tali segnalazioni erano state invece valorizzate negli scambi tra gli operatori di mercato, che avevano fatto registrare infatti una consistente flessione del prezzo delle azioni della società.

Secondo l’ESMA, le verifiche intraprese dalle autorità tedesche non sarebbero poi state sufficientemente complete ed approfondite.

Il ritardo sarebbe da imputarsi, tra le altre cose, ad un difetto di coordinamento amministrativo tra le due autorità di vigilanza, le quali, cercando di mantenere la confidenzialità sulle investigazioni, non hanno dato luogo ad un efficace e reciproco scambio di informazioni. In particolare, il BaFin non sarebbe stato messo in condizioni di valutare l’attività del DPR, così da poter esercitare il proprio potere di avocazione.

Altra questione affrontata è quella dell’indipendenza dell’autorità di vigilanza finanziaria. Nel rapporto dell’ESMA, infatti, si fa riferimento alla concreta possibilità che vi siano state delle indebite influenze del Ministero delle Finanze tedesco sull’attività di BaFin. Pur non essendo state riscontrate prove decisive di tale ingerenza, alcuni indicatori in tal senso sarebbero rinvenibili nella frequenza e nell’elevato grado di dettaglio dei rapporti inviati dall’autorità al Ministero, in taluni casi persino prima dell’adozione delle relative misure, sicché i riscontri del governo avrebbero ragionevolmente potuto condizionare la decisione finale dell’autorità.

Tali sospetti acquistano ulteriore consistenza se si considera che l’autorità di vigilanza ha in più occasioni tentato di proteggere Wirecard, ad esempio quando nel febbraio 2019 l’autorità ha proibito la vendita allo scoperto di azioni della società, ribadendone la solidità finanziaria e la sua importanza per l’economia nazionale.

Il rischio è pertanto che la necessità di tutelare un campione nazionale, l’unica fintech europea in grado di competere con i giganti della Silicon Valley, possa aver determinato un approccio indulgente nella supervisione, che si è poi tradotto nell’ennesimo scandalo che mina in profondità la fiducia del pubblico sull’efficacia dei controlli pubblici sui mercati finanziari.

In conclusione, è opportuno riflettere sulla idoneità delle nozioni di financial holding company e di ‘servizio di pagamento’, poste rispettivamente dall’art.4.1(20) del CRR e dall’art 3 lett. J) della PSD2, a regolare il fenomeno delle società finanziarie ad alto tasso tecnologico.

La qualificazione come società tecnologica anziché come financial holding company, e la conseguente mancata soggezione al regime della vigilanza consolidata, determina infatti una fragilità nel sistema dei controlli prudenziali.

In dottrina si è pertanto auspicato un intervento legislativo che includa nella nozione di ‘servizio di pagamento’ taluni servizi tecnologici, al fine di rendere prevalente la componente finanziaria su quella tecnologica.

È stato anche suggerito di intervenire sulla nozione di ‘financial holding company’, di modo da valorizzare la centralità dell’attività di prestazione di servizi di pagamento della holding rispetto alla fornitura di servizi tecnologici da parte delle società controllate.

Una ulteriore via percorribile consisterebbe nel predisporre una regolazione europea che si occupi specificamente delle società operanti nel settore fintech, eventualmente prevedendo anche l’istituzione di una apposita autorità di vigilanza.

Le gare di appalto e la discriminazione delle PMI

Gaia Mazzei

Uno degli obiettivi fondamentali, in tema di contratti pubblici, delle norme di matrice europea e di diritto interno è una apertura più ampia alla concorrenza, che sia in grado di assicurare una partecipazione il più estesa possibile di offerenti ad una gara d’appalto.

A tale proposito, viene in luce sia l’interesse comunitario alla libera circolazione di prodotti e servizi, sia l’interesse della stazione appaltante nel poter disporre di una ricca scelta circa l’offerta più vantaggiosa e più rispondente alle necessità della collettività interessata.

Tuttavia, all’interno di uno scenario in cui le amministrazioni aggiudicatrici sono tenute a rispettare principi di trasparenza, pubblicità, libera concorrenza e proporzionalità, si inserisce un ulteriore ed autonomo obiettivo sociale e di politica economica: la tutela delle piccole e medie imprese che, molto spesso, subiscono uno svantaggio competitivo.

Non è sufficiente, dunque, imporre un generale divieto di discriminazione per sostenere lo sviluppo delle PMI; il legislatore europeo ha anche chiesto agli Stati membri di introdurre misure al fine di incoraggiare e facilitare la partecipazione delle imprese di dimensioni contenute al mercato degli appalti pubblici, tentando di rendere quanto più eguali le condizioni di partenza delle piccole e medie imprese a quelle delle macro-imprese.

Sempre più di frequente le politiche in favore della partecipazione agli appalti interessano anche la giurisprudenza nazionale.

Recentemente, il T.A.R. Milano, con la sentenza del 13 ottobre 2020 n. 1895, si è pronunciato sulla corretta esperibilità di una gara indetta dal Comune di Cosio Valtellino per la concessione del servizio di gestione, accertamento e riscossione, anche coattiva, dell’imposta comunale sulla pubblicità e dei diritti delle pubbliche affissioni per gli anni 2020-2022.

La società ricorrente lamentava la violazione di norme e principi fondamentali aventi la funzione di tutelare la libera concorrenza, quali gli artt. 3, 41, 97 della Costituzione, l’art. 83 del Codice Appalti oltre che una pluralità di articoli del TFUE e della Carta di Nizza, tale da rendere impossibile la partecipazione alla gara da parte delle imprese di dimensioni ridotte.

Nello specifico, la parte attorea sosteneva che il requisito di capacità tecnica e professionale fosse illogico e sproporzionato, imponendo al partecipante di avere in organico, alla data di pubblicazione del bando, un numero minimo di quindici unità, a tempo pieno ed indeterminato, tra cui almeno un dirigente e un dipendente con qualifica di ufficiale della riscossione.

Il giudice, nell’accogliere il ricorso, evidenzia come l’esigenza di tutela della libertà di concorrenza e di non discriminazione delle imprese sia un fattore imprescindibile della normativa vigente.

Nella fattispecie in questione, il servizio da svolgere appare complessivamente standardizzato, ripetitivo oltre che senza particolari difficoltà tecniche nell’esecuzione della concessione, valutate le dimensioni ridotte dell’amministrazione comunale appaltante.

Oltremodo, fissare il numero minimo di dipendenti, per di più a tempo indeterminato, proprio a quindici unità implica esclusione automatica delle microimprese.

Infatti, non solo la raccomandazione n. 2003/361/CE qualifica come microimprese quelle che contestualmente hanno meno di dieci occupati, ma anche l’articolo 35 dello Statuto dei Lavoratori, L. 300 del 1970, pone il limite occupazionale per l’applicazione di una serie di disposizioni della legge medesima proprio a quindici unità.

Il dettato normativo prova, quindi, che la soglia di quindici dipendenti necessariamente escluda, illogicamente, le microimprese dalla possibilità di partecipare alla gara di cui è causa.

A giudizio del T.A.R., appare manifestatamente restrittiva anche la condizione che uno di questi dipendenti abbia la qualifica di dirigente, non essendo necessaria ai fini dell’esecuzione del servizio richiesto.

Sulla nozione di dirigente si è espressa la Corte di Cassazione con più sentenze, tra le quali la n. 18482 del 19 settembre 2005, la quale chiarisce che il dirigente d’azienda, ai sensi dell’art. 2095 c.c., è una figura che ha notevole autonomia e discrezionalità nelle scelte decisionali, a tal punto da essere qualificato come alter ego dell’imprenditore.

C’è di più: la figura del dirigente non è neppure prevista in strutture aziendali medie o piccole, avvalorando la condotta discriminatoria dell’Amministrazione Comunale che ha indetto la gara impugnata.

Pertanto, coerentemente con la ratio normativa che spinge ad allargare la competizione quanto più possibile, il giudice ha annullato la lex specialis in quanto, di fatto, essa ha impedito la partecipazione delle imprese di ridotte dimensioni, ha ristretto indebitamente il mercato, violando il principio di favor partecipationis.

Il labile confine tra giurisdizione amministrativa e ordinaria in tema di legittimo affidamento

Giuditta Russo

A causa delle frequenti interpretazioni volte ad ampliare la giurisdizione del G.O. in materia di sindacato sugli atti dei pubblici poteri e a restringere sia la sfera di questi ultimi sia il concetto di interesse legittimo, il confine tra giurisdizione del giudice ordinario e amministrativo in cui si articola il nostro sistema “a doppia giurisdizione” si pone come “mobile”, comportando come conseguenze incertezza del diritto e rischio di lesione dell’effettività della tutela. Tra i casi più problematici, si annoverano anche alcune tematiche risarcitorie. 

Gli artt. 7 e 30 c.p.a. stabiliscono la cognizione del G.A. sulle questioni risarcitorie inerenti alla lesione di interessi legittimi derivanti dall’illegittimo esercizio o dal non esercizio dell’attività amministrativa, anche se introdotte in via autonoma rispetto al giudizio di annullamento, così unificando le tutele in capo al G.A., cui è riconosciuta una giurisdizione piena. Si elimina, pertanto, l’onere per il danneggiato di attivare un separato giudizio innanzi al G.O. (al quale era precedentemente riconosciuta la cognizione su tutti i c.d. “diritti patrimoniali consequenziali”). Il giudice della lesione degli interessi legittimi, quindi, è sempre il G.A. anche quando l’azione risarcitoria è esercitata in via autonoma rispetto a quella di annullamento ed anche nel caso dei c.d. comportamenti amministrativi, riconducibili comunque all’esercizio del pubblico potere, in quanto attuativi di atti o provvedimenti amministrativi (come confermato in Corte Cost.n.191/2006).

Tale impostazione, tuttavia, è parzialmente contrastata dalla recente ordinanza delle S.U. n. 8236/2020 che riprende in toto l’orientamento della Corte di Cassazione, propugnato nelle ordinanze c.d. “gemelle” delle SSUU del 2011 (Cass., SS.UU., 23 marzo 2011, n. 6594, n. 6595 e n. 6596). 

In tali pronunce, quella che sembra riproporsi è una concezione ormai anacronistica e, per certi versi, in linea con la precedente norma di cui all’art. 7 della l.n.205/2000, secondo cui il presupposto della giurisdizione amministrativa sarebbe che il pregiudizio di cui si chiede il risarcimento nei confronti della PA sia causalmente collegato alla illegittimità del provvedimento amministrativo; in altri termini, la causa petendi dell’azione di danno sarebbe l’illegittimità dell’atto, esulando pertanto dalla giurisdizione amministrativa la pretesa risarcitoria fondata non su tale illegittimità, ma sulla deduzione di una lesione dell’affidamento nella correttezza del comportamento della PA, a fronte di una condotta difforme dai canoni di correttezza e buona fede, priva di collegamento, anche solo mediato, con l’esercizio del potere amministrativo. Poiché, quindi, un provvedimento, comunque illegittimo, annullato in autotutela o su ricorso di un altro soggetto leso, continua a rilevare come mero comportamento per il soggetto che ne aveva tratto vantaggio, l’unico rimedio esperibile sarebbe quello risarcitorio, per aver il privato confidato incolpevolmente nell’apparente legittimità del provvedimento. Il relativo danno prescinde così da valutazioni sull’esercizio del potere, con la conseguente affermazione della giurisdizione del G.O. Il soggetto il cui affidamento è stato leso non può infatti essere tenuto a domandare al G.A. un accertamento della illegittimità del suddetto comportamento, che ha invece tutto l’interesse a contrastare nel giudizio di annullamento da altri provocato.

Unica peculiarità dell’oggetto del recente giudizio deciso con l’ordinanza in esame, rispetto alle fattispecie decise dalle SSUU nel 2011:  l’assenza di un precedente provvedimento. Benché infatti sempre rapportabile ad una questione ampiamente riconducibile al tema del c.d. danno da provvedimento favorevole, la fattispecie in questione è caratterizzata dalla semplice lesione dell’affidamento ingenerato nel privato da parte della condotta della PA, violativa dei canoni generali di correttezza e buona fede. 

Il caso riguarda infatti la richiesta di risarcimento del danno avanzata da una società di costruzioni per la lesione dell’affidamento circa l’emanazione di un permesso a costruire che il Comune aveva determinato mediante ripetuti comportamenti interlocutori, ritenuti idonei a creare un’aspettativa positiva sul rilascio del provvedimento. Il pregiudizio lamentato consiste nel condizionamento alla libertà di autodeterminazione del privato e nella conseguente perdita patrimoniale e di tempo derivata dalle scelte negoziali formatesi medio tempore

L’inquadramento sistematico della fattispecie compiuto dalle SSUU ha escluso le diverse ricostruzioni dell’amministrazione, volte a far valere la giurisdizione esclusiva del G.A., negando in primo luogo che si trattasse di controversia in materia di risarcimento del danno da mero ritardo, ex artt. 133, co 1, lett. a), n.1 c.p.a. e 2-bis, co 1 l.n.241/90, non essendo, nel caso di specie, causa del pregiudizio il ritardo nel pronunciamento della P.A., ma il suo comportamento positivo e produttivo di aspettative successivamente deluse. Né si trattava, secondo la ricostruzione delle SSUU, di controversia rientrante nell’art. 133, co 1, lett. f), c.p.a. ed avente ad oggetto «atti e provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio», essendo stato il danno  cagionato, nella vicenda de qua, non da atti o provvedimenti, ma dal comportamento tenuto dalla P.A. nella gestione dei rapporti tra i propri uffici e la società, tale da ingenerare in quest’ultima un incolpevole affidamento nel rilascio del permesso, poi deluso dal diniego finale (del quale non viene contestata la legittimità).

Secondo la Suprema Corte veniva integrata, invero, la fattispecie del danno da comportamento (non da provvedimento), generato dalla violazione dei criteri privatistici di correttezza e buona fede e privo di ogni collegamento con l’esercizio del potere. La condotta della p.a, nel caso de quo, si pone su un piano diverso rispetto a quello della scansione degli atti procedimentali che conducono al provvedimento, collocandosi piuttosto in una più ampia dimensione relazionale complessiva tra l’amministrazione ed il privato.

Nel motivare la possibilità di estendere la posizione assunta nel 2011 anche al caso in esame, le SSUU hanno in primis rilevato come l’essenza stessa del principio sancito nelle ordinanze “gemelle” consista nel ritenere, nelle ipotesi in esse considerate, il provvedimento amministrativo illegittimo quale presupposto – sia applicativo che causale – del danno verificatosi, il quale, però, non è scaturito dal provvedimento, ma dalla fattispecie complessa costituita dall’emanazione dell’atto favorevole illegittimo, dall’incolpevole affidamento del beneficiario nella sua legittimità e dal successivo (legittimo) annullamento dell’atto. La lesione, in altri termini, discenderebbe non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo che si estrinseca nel provvedimento, bensì dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell’amministrazione, la cui violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilitàConseguenza di questa premessa sarebbe l’inevitabile applicazione del suddetto principio anche alle ipotesi in cui manchi del tutto un precedente provvedimento della P.A. ed in cui il danno derivi esclusivamente da comportamenti scorretti dell’amministrazione. A sostegno della assimilazione tra le due situazioni, vale anche, secondo la Corte, il fatto che l’annullamento, in autotutela o giurisdizionale, del provvedimento, agendo retroattivamente, è idoneo a determinare una mancanza ab origine del provvedimento stesso, che, pertanto, è come se non fosse mai venuto ad esistenza.

L’adesione a tale impostazione ermeneutica non è però del tutto condivisibile: sia nel caso di annullamento di un provvedimento favorevole, sia nel caso di sua mancata adozione, lesiva però dell’affidamento, la relazione tra le parti si estrinseca all’interno del procedimento amministrativo, che è il luogo e modo fisiologico di manifestazione del potere, e, in tale sequenza di atti e comportamenti, non è concepibile una condotta procedimentale non riconducibile ad esso, anche in via mediata. Il danno eventualmente arrecato, di conseguenza, non può che essere “collegato” al potere amministrativo e la tutela risarcitoria che si intende azionare non può che essere comunque rivolta a ristorare le conseguenze di un potere illegittimamente esercitato. Ad essere controverso è comunque l’agire provvedimentale nel suo complesso, del quale l’affidamento costituisce un riflesso, privo di incidenza sulla giurisdizione. La pretesa di non vedere lese le aspettative del privato verso l’agire provvedimentale costituisce una realtà unitaria, inscindibile con il provvedimento, qualora emanato (anche se successivamente annullato), e che in ogni caso dialoga con una funzione autoritativa (qualora il provvedimento sia negato). Si è in presenza, quindi, di un interesse legittimo con l’ovvia conseguenza, in punto di giurisdizione, che i danni da comportamenti scorretti nella gestione del procedimento amministrativo vanno ricondotti alla giurisdizione generale di legittimità del G.A., quale giudice non dell’atto ma del potere, ex art. 7 c.p.a.. L’amministrazione, nel perseguire il fine della “buona amministrazione” (art. 41 Carta dei diritti fondamentali della UE), non agisce da corretto contraente: la buona fede e la correttezza rilevano invece come regole modali dei pubblici poteri e non come parametro privatistico di un’azione amministrativa considerata nel suo aspetto “precontrattuale”.

Ad altrettante criticità si espone anche la configurazione compiuta dalle SSUU dell’affidamento rilevante nel caso di specie, che sarebbe, secondo la Corte, di natura civilistica ovvero di tipo soggettivo (incolpevole), rilevando la condotta delle parti (così da distinguerlo da quello legittimo/oggettivo che connota, invece, l’esercizio dell’autotutela amministrativa e che si risolve nella verifica della legittimità degli atti formali). Si porrebbe, pertanto, come una situazione autonoma, tutelata in sé, e non nel suo collegamento con l’interesse pubblico, quale aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione fondata sulla buone fede, sostanziandosi non in un presunto «diritto soggettivo alla conservazione dell’integrità del patrimonio» (concetto pur ricorrente nella giurisprudenza della Corte), ma nell’affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della P.A. Intendendosi invece l’affidamento più correttamente quale riflesso dell’agire procedimentale, lo stesso si connoterebbe come diritto meramente strumentale alla tutela dell’interesse legittimo (come i diritti procedimentali e le facoltà connesse alla partecipazione), ma non come autonomo diritto di natura privatistica. E’ proprio la sua natura pubblica che non può essere persa di vista. Il principio è sì di estrazione privatistica, ma riguarda l’aspettativa nei confronti di un agire pubblico che, nell’esplicarsi del procedimento, sia lineare e non contraddittorio e non ingeneri false convinzioni in ordine al suo esito favorevole. Il procedimento amministrativo, pur scandito in fasi, deve quindi essere considerato quale realtà unitaria e non come momento “bifasico” da cui deriverebbero distinti rapporti privatistici  e pubblicistici. La scissione dei due ambiti rischierebbe di far regredire l’interesse legittimo quasi a mera pretesa alla legittimità formale dell’azione amministrativa, come era ritenuto in passato, in quanto tutti gli aspetti connessi alla correttezza dell’agire pubblico – e che incidono sul risultato finale atteso dal privato – sarebbero assorbiti dal presunto parallelo rapporto privatistico. In realtà, nel rapporto procedimentale le regole giuridiche si fondono con i principi di correttezza per dar vita al giusto procedimento, sia nell’ottica dell’art. 6 CEDU che nella legge n. 241/90. La lesione dell’affidamento procedimentale dovrebbe quindi essere più correttamente qualificata come interesse legittimo. Avvalora ulteriormente questa impostazione il fatto che la fattispecie risarcitoria esaminata è ricondotta poi dalla Corte nell’ambito della responsabilità da contatto socialequindi collocabile nella responsabilità (contrattuale) da inadempimento ex art. 1218 c.c., richiamando anche l’impostazione estensiva dell’Adunanza Plenaria n. 5/2018. Quest’ultima ha in effetti ampliato l’applicabilità dei principi di correttezza e buona fede derivanti dai vincoli solidaristici costituzionali anche alle fasi a connotazione pubblicista del procedimento ad evidenza pubblica (nella specie, nella fase che precede l’aggiudicazione nelle gare ad evidenza pubblica). Tuttavia, il richiamo a tale pronuncia, per i fini che qui interessano, andrebbe ridimensionato, considerando che la Plenaria non prende posizione sulla natura della responsabilità precontrattuale, non aderendo, dunque, all’impostazione della giurisprudenza civile che la riconduce sempre più nell’alveo di quella contrattuale; inoltre, chiarendo che «nell’ambito del procedimento amministrativo regole pubblicistiche e regole privatistiche operano in maniera contemporanea e sinergica», nega l’esistenza del parallelismo all’interno dell’attività autoritativa del procedimento tra situazioni giuridiche di diritto pubblico e privato, restando confermato, invece, il legame tra comportamento e potere. Ne consegue che il contatto sociale nel diritto amministrativo, genera non gli obblighi di protezione delle obbligazioni civilistiche ma interessi legittimi frutto dell’intermediazione pubblicistica e, in quanto tali, rimessi alla giurisdizione del G.A., in linea con l’ormai acquisita natura del giudizio amministrativo come giudizio sul rapporto (e non solo sull’atto).

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