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Il tempo dell’autotutela

di Federico Spanicciati

20/11/15

Con la legge 124/2015, cd. Legge Madia, il Legislatore cerca di introdurre nuova certezza giuridica per le situazioni ormai regolate da un provvedimento amministrativo, tramite un nuovo termine generale per l’esercizio dell’annullamento in autotutela. Si prevede infatti tra le norme di immediata efficacia, all’articolo 6, l’introduzione di un termine massimo per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, tramite una modifica dell’articolo 21-nonies legge 241/90.
L’introduzione di tale termine per l’esercizio di uno dei tipici provvedimenti di autotutela, ripropone nuovamente vecchie questioni di teoria del diritto, dibattute già da molto tempo.
Ad esempio ci si può chiedere se l’introduzione di un termine vada nella direzione di una maggiore garanzia nei confronti del privato, in opposizione a quello che viene spesso considerato un ingiusto privilegio dell’amministrazione. Eppure, in tal caso, il termine introdotto non pare poter contenere tale privilegio, data anche la sua estensione. Al più si ha l’impressione di una esteriore mediazione tra interessi contrapposti, nella quale comunque l’interesse amministrativo trova ancora amplissima libertà. Ci si può chiedere, ancora, se non sarebbe stato più utile intervenire sui motivi che consentono l’annullamento, dirimendo l’antica questione sui reali presupposti di esercizio di tale potere. Vincolare l’amministrazione a perseguire solo interessi qualificati e definiti, ad esempio, potrebbe garantire il privato ben più di un termine lunghissimo, come ad esempio succede nel modello francese.
Queste questioni teoriche non vengono, ancora una volta, affrontate dal Legislatore, il quale preferisce bilanciare l’interesse privato alla stabilità della situazione giuridica, e quello pubblico a garantirsi la possibilità di intervenire su propri provvedimenti anteriori, inserendo un semplice termine di decadenza per l’esercizio del potere di secondo grado.
L’introduzione di un termine massimo di esercizio del potere di annullamento, rispetto alla emanazione del provvedimento annullando, pone però un problema immediato, che sembra frustrare il tentativo di introdurre maggiore stabilità nel sistema, almeno per quanto riguarda i provvedimenti antecedenti alla legge di riforma. La questione, piuttosto ampia, verte sull’applicabilità di tale nuovo termine rispetto all’annullamento di provvedimenti emanati prima dell’entrata in vigore della legge. Questi potrebbero infatti ritenersi esclusi dall’applicazione di una norma successiva, e dunque sempre annullabili, o viceversa coperti dalla nuova previsione, considerando l’annullamento un provvedimento nuovo.
La trattazione della questione non è di facile componimento, e comunque non si può riassumere in un quadro univoco. Per arrivare infatti ad una risposta, nell’interesse di una analisi che ampia in grado di dimostrare ancora una volta i limiti di interventi puntuali rispetto a ponderazioni più ampie, bisogna dirimere due ampie questioni generali di diritto amministrativo. Ci si chiederà dunque: quale sia la natura del potere di autotutela, e quale sia il suo rapporto con il potere originario di emanazione del provvedimento che si vorrebbe revocare o annullare; quale sia la norma applicabile temporalmente e se questa debba essere correlata al singolo atto amministrativo, oppure debba esserlo all’intero procedimento, rimanendo fissata così in quella vigente all’inizio del procedimento, per tutta la durata dello stesso.
La risposta alla prima questione si snoda attraverso una dottrina ed una giurisprudenza piuttosto eterogeneee, in cui sono rappresentate, ognuna con un suo discreto seguito, almeno due risposte antinomiche.
L’aspetto centrale della questione, necessario per affrontare il tema del rapporto tra procedimenti di secondo grado e tutela del legittimo affidamento, è rappresentato dal fondamento del potere di riesame.
Tralasciamo l’antica questione, ormai superata, sulla differenziazione concettuale tra annullamento e revoca: questa sosteneva l’impossibilità di fare una analisi unica per tutti i provvedimenti di riesame amministrativo, sostenendo che per i casi di annullamento, in quanto basati su un atto viziato, non vi fosse mai la nascita di diritti, e dunque i problemi di garanzia che adesso citeremo. Come detto, la questione è superata e ormai il discorso può essere unificato per tutte le figure di autotutela amministrativa.
Secondo l’opinione tradizionale, ancora riconosciuta come prevalente, il potere di riesame è una manifestazione di autotutela, intesa quest’ultima nel senso di ragion fattasi, e quindi come privilegio, espressione di una potestà rimediale o para-giurisdizionale autonoma rispetto al potere in base al quale è stato emanato il provvedimento di primo grado. Riconducendo la revocabilità degli atti amministrativi al loro carattere autoritativo, questa concezione muove in generale dal loro accostamento alle sentenze. In tal senso l’autotutela è l’ultimo residuo di una funzione giurisdizionale propria, una sorta di autodichia amministrativa, un potere di controllabilità dei propri stessi atti che viene garantito all’amministrazione al fine di soddisfare in caso di conflitto l’interesse del loro autore attraverso l’assicurazione dei risultati perseguiti dai suoi atti o garantiti dalle norme che lo riguardano. In tal senso la natura di questi atti diviene perfettamente giurisdizionale, seguendo una sorta di evoluzione che ricorda l’evoluzione stessa della giustizia amministrativa, e della natura del Consiglio di Stato. L’idea di partenza è che il potere di riesame sia espressione di un privilegio pubblicistico, retaggio degli Stati assoluti, perché, mentre in linea generale, e salvo casi eccezionali, i privati hanno l’onere di ricorrere al giudice per risolvere le controversie e affermare i loro diritti, viceversa la pubblica amministrazione, per la particolare rilevanza dell’interesse pubblico, e per l’imparzialità che la caratterizza, nonché per la necessità di speditezza dell’azione amministrativa, può farsi giustizia da sé. Il tratto forse più caratterizzante di tale orientamento è l’eterogeneità dei poteri e degli interessi posti a base dei provvedimenti di primo e secondo grado.
In quest’ottica i procedimenti di secondo grado sono concepiti come manifestazione di potestà generali che l’amministrazione possiede per dare ordine alla proprie attività, ossia di potestà che non sono volte alla cura di un interesse pubblico specificatamente definito, bensì alla cura di quell’interesse di ambito generale che l’amministrazione ha, in ordine ad un corretto, ordinato e pertinente svolgimento della propria attività. Mentre il potere estrinsecatosi nell’atto di primo grado rinverrebbe il suo motivo di manifestazione, la sua causa, nei fini di rilievo collettivo specificamente indicati dalla norma attributiva di quel potere ad emanarlo, il potere che genera l’atto di secondo grado viceversa si spiegherebbe in virtù della sua preordinazione strumentale al soddisfacimento di un interesse diverso e proprio dell’Amministrazione. Questo interesse successivo è individuabile in sostanza nell’opportunità che non siano mantenute in vita decisioni non rispondenti alle esigenze dell’amministrazione stessa, secondo un apprezzamento discrezionale proprio dell’autorità procedente.
Secondo un’altra opinione, invece, il riesame è istituto di amministrazione attiva, espressione dello stesso potere esercitato con l’adozione dell’atto riesaminando e che non si esaurisce con questo ma gli sopravvive. L’identità di natura tra i due poteri esercitati in primo e in secondo grado deriva dall’identità degli interessi perseguiti da entrambi, per cui si respinge l’idea che nell’annullamento l’interesse pubblico non sia configurabile in positivo ma solo in negativo, come ciò che residua al negativo esperimento di un’indagine diretta a porre in rilievo interessi con esso contrastanti. Al contrario, esso presenta una sua dimensione positiva, quella, appunto dell’interesse pubblico perseguito con il provvedimento originario.
Accogliendo tale tesi, peraltro, il problema della compatibilità con il principio di legalità del potere di riesame non si pone, dato che esso costituisce un’espressione temporalmente successiva dell’originario potere di provvedere, che include in sé anche il potere di provvedere nuovamente, in un momento posteriore, sul medesimo oggetto. Poiché, dunque, è la norma attributiva del potere di emanazione del provvedimento originario che conferisce implicitamente il potere di ritornare sullo stesso, anche il principio di legalità risulta rispettato.
Lo stesso problema del rispetto del principio di legalità viene risolto in maniera differente dal primo orientamento esaminato: in questa interpretazione si fa specifico riferimento agli aspetti funzionali dei poteri di autotutela, perché essi non mirano alla restaurazione obiettiva dell’ordine giuridico violato ma a soddisfare un interesse concreto e immediato dell’amministrazione.
Il punto centrale del discorso consiste nel prendere coscienza che riguardo al potere di autotutela vi sono due interpretazioni antinomiche, ambedue molto ben rappresentate. La prima ritiene che l’atto di secondo grado sia espressione di un potere nuovo, che viene esercitato per la prima volta proprio con la revoca o annullamento, e che dunque non ha alcun rapporto giuridico, se non di derivazione logica, con il provvedimento originale sul quale si vuole intervenire. La seconda ritiene invece che il potere di autotutela sia una nuova espressione, in senso negativo, dello stesso potere che si era positivamente espresso con l’approvazione del provvedimento. In tal senso il potere non sarebbe nuovo, ma sarebbe sempre lo stesso, seppur riattualizzato per nuovi interessi sopravvenuti.
A seconda di quale interpretazione si voglia preferire è evidente come l’impatto dello ius superveniens sia diverso. Nel primo caso, infatti, essendo il potere del tutto nuovo, al suo primo esercizio, subirà necessariamente la norma esistente al momento in cui si volesse revocare o annullare l’atto, in base al principio per cui tempus regit actum. Nel secondo caso, viceversa, sarebbe astrattamente ipotizzabile l’utilizzo della norma esistente al momento dell’approvazione del provvedimento, seppur ormai superata, in quanto il potere in esercizio rimane lo stesso che si era utilizzato nella normativa previgente.
Arrivati a questo bivio bisogna però introdurre la seconda questione.
Indipendentemente infatti dalla natura del potere di autotutela, la dottrina tradizionale applica in via generale il principio per cui tempus regit actum, di cui l’art. 11 Disposizioni sulla legge in generale.
Questa regola esprime un principio di ordine generale, applicabile ad ogni branca del diritto, dal diritto privato al diritto pubblico, dalle situazioni negoziali a quelle legali; dalle situazioni patrimoniali a quelle di qualsivoglia natura.
Essa manifesta l’esigenza che la legge non sia ordinariamente retroattiva; ovvero che lo sia solo se, derogando al principio generale d’irretroattività, si qualifichi espressamente come tale.
In virtù di tale disposizione, ogni atto deve trovare il proprio regime giuridico di riferimento nella disciplina normativa in vigore nel tempo in cui è stato posto in essere.
Se noi applicassimo tale principio senza alcuna deroga, per qualsiasi risposta data alla questione giuridica precedentemente trattata, dovremmo comunque concludere che la norma da applicare, con i relativi termini massimi di esercizio, è la norma oggi vigente.
Infatti, seppure l’annullamento fosse una nuova fase di un procedimento rimasto unitario, e applicazione di un potere dunque unico, comunque ad ogni fase del procedimento dovremmo applicare la norma vigente in quel momento (Cons. Stato. sez IV, 7 Maggio 1999 n. 799: Il sopravvenire di una legge durante lo svolgimento del procedimento dà ingresso al principio Tempus regit actum, nel senso che ciascuna delle fasi va considerata sottoposta alla disciplina della legge vigente nel tempo in cui venne compiuta. Ma anche: Cons. St., sez. IV, sent. n. 895/74; sez. VI sent. n. 139/81; sez. VI sent. N. 341/83; sez. IV, sent. n. 6185/2003; sez. VI sent. n. 2136/2010).
Del resto così si esprime il Consiglio di Stato anche in tema di jus superveniens, rilevando come laddove una procedura si divida in varie fasi coordinate, ma dotate di una certa autonomia, la nuova norma può trovare applicazione per le fasi che all’atto della sua entrata in vigore non siano state ancora realizzate, mentre la relativa applicazione è esclusa per fasi già espletate e compiute, per il principio di irretroattività o per quello secondo cui tempus regit actum, nonché per esigenze di economia dell’azione amministrativa (in tal senso anche Cons. St., Sez. VI, sent. 26/05/1999, n. 694).
Questa tesi, che rimane comunque quella largamente accolta oltre che in giurisprudenza anche in dottrina non è però tuttavia l’unica.
Un nuovo orientamento sta infatti spostando l’attenzione verso l’emersione di un principio considerato più equo, secondo il quale tempus regit actionem, e non actum.
La nuova costruzione volge la propria attenzione al procedimento, ritenuto lo schema unitario tipico attraverso il quale si esercita la funzione amministrativa. Tutti gli atti o fatti che lo compongono sono elementi essenziali ed indefettibili, nell’ambito di una relazione in cui ciascun fattore rileva in termini di compartecipazione al risultato finale della fattispecie. L’intero procedimento sarà disciplinato dalla normativa in vigore al momento in cui esso ha avuto inizio, senza che il diritto sopravvenuto possa trovare applicazione immediata nel corso dello sviluppo delle fasi endoprocedimentali. L’attuazione delle norme sopravvenute potrebbe provocare un’alterazione dei presupposti giuridici della funzione amministrativa, impedendo alla procedura avviata di dispiegarsi secondo la disciplina vigente al momento dell’avvio.
La stabilità delle norme è reputata preferibile anche rispetto all’applicazione immediata della normativa che presenti un contenuto più favorevole al privato. Dunque la normativa applicabile non è quella vigente in ogni sub-fase del procedimento amministrativo, ma quella vigente all’inizio del procedimento, che si mantiene uguale, anche a garanzia del legittimo affidamento del privato, per tutta la durata dello stesso.
L’applicazione dell’interpretazione tradizionale non lascia molti dubbi: nel caso oggetto di codesto parere la normativa da applicare è quella esistente al momento dell’annullamento dell’atto, e dunque quella che prevede, pur senza necessità di essere retroattiva, l’impossibilità di annullare provvedimenti emessi da oltre 18 mesi.
Viceversa l’interpretazione più recente, seppur ancora largamente minoritaria, condurrebbe ad una duplice possibilità, data dal combinato disposto tra la risposta a questa domanda e le due possibili risposte che abbiamo dato alla domanda precedente.
Infatti se tempus regit actionem, nel caso considerassimo il potere di autotutela come un potere nuovo, rispetto a quello utilizzato per approvare il provvedimento, ancora una volta dovremmo applicare il nuovo articolo 21nonies come conseguente alla riforma 2015.
Se però accedessimo all’interpretazione del potere di autotutela come nuovo esercizio di un potere preesistente, che si innesta in un procedimento amministrativo unitario, ebbene la risposta cambierebbe radicalmente. In tal senso si dovrebbe applicare la normativa esistente al momento di emissione del provvedimento originario, e così si rimarrebbe indifferenti alla riforma del 2015.
Da quanto detto è evidente che la combinazioni delle questioni teoriche ci porta, allo stato attuale della giurisprudenza e della dottrina, a concludere che i termini della riforma Madia si debbano applicare a tutti i provvedimenti, anche a quelli preesistenti alla riforma stessa.
Le riflessioni compiute consentono di portarsi verso una conclusione ancora interlocutoria.
Non è infatti possibile dare una risposta univoca alla domanda iniziale, se non si affrontano anche questioni di natura teorica, e in carenza di esplicita previsione legislativa.
Come si è visto, la soluzione più convincente risulta andare verso l’impossibilità dell’uso del potere di annullamento verso provvedimenti emanati da oltre 18 mesi, seppure preesistenti alla legge di riforma.
Ma questa soluzione continua a scontare l’incertezza tipica dell’intero impianto concettuale dell’autotutela; forse sarebbe utile che il legislatore, oltre a normare l’istituto, si preoccupasse anche di dirimerne le vecchie questioni strutturali che ancora lo avvolgono, rendendone la natura, e dunque l’utilizzo, finalmente privo di dubbi ermeneutici. Il rischio, altrimenti, è quello di trasformare un tentativo di chiarificazione di un quadro normativo in qualcosa che lo confonde ulteriormente, con rischi di incertezza per i privati, e le amministrazioni, che si trovino nella scomoda posizione di giocatori di una partita sulla quale interviene un nuovo schema di diritto di dubbia applicabilità.

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