Lab-IP

Laboratorio per l’Innovazione Pubblica 4/2021

INDICE

1.     Pass vaccinale: le preoccupazioni del Garante della privacy di Emanuel Silvestri.  

2.    L’Esma multa Moody’s per 3,7 milioni di euro: una storia destinata a ripetersi? di Luciano Vitali.

3.    Project Financing: Il TAR Lombardia chiarisce che nella prima fase la selezione del promotore non si connota in termini di concorsualità tra le proposte spontanee pervenute di Antonio Triglia.

4.    I poteri speciali del Governo di unità nazionale: tra sicurezza e integrazione della politica industriale di Tommaso di Prospero.

5.    Il subappalto e la sua dubbia legittimità di Gaia Mazzei. 

6.    Il concetto di «disagio ambientale» e il riconoscimento di una indennità ai comuni limitrofi all’impianto: è sufficiente il solo criterio geografico? Di Piergiorgio Vaccarini

7.    La trasparenza nelle operazioni con strumenti finanziari derivati: Il caso Archegos di Tommaso Mazzetti di Pietralata

8. La sopravvenienza normativa e la qualificazione della responsabilita’ della pa: “caso fortuito” o “caso fortunato”? di Giuditta Russo


1. Pass vaccinale: le preoccupazioni del Garante della privacy

A cura di Emanuel Silvestri

Il 2 marzo 2021, ad un anno esatto dall’inizio della pandemia da Covid19, la Presidente della Commissione europea ha annunciato l’intenzione di introdurre un Digital Green Pass, una sorta di passaporto in grado di identificare i soggetti a cui è stato inoculato un vaccino contro il coronavirus e permettere di muoversi liberamente tra i 27 Paesi dell’Unione per ragioni di lavoro o turismo. La proposta segue l’esempio già sperimentato con successo nello Stato di Israele dove il numero di nuovi contagi è stato sensibilmente abbattuto. 

Il 17 marzo, l’Unione europea ha approvato ufficialmente il “passCovid”. In base alle disposizioni europee, il certificato verde consentirà di spostarsi liberamente tra gli Stati membri a chiunque si sia sottoposto a vaccino, oppure risulti negativo ad un test o dimostri di essere guarito dal Covid avendo sviluppato gli anticorpi. Il documento sarà reso per tutti da giugno 2021 in formato digitale o cartaceo, sarà interoperabile e legalmente vincolante per gli Stati membri e riguarderà tutti i vaccini disponibili sul mercato. Sulla falsariga di quanto concertato a livello europeo, molti Stati membri hanno deciso di anticipare la decisione con dei “pass nazionali” per garantire lo spostamento tra le diverse aree del Paese o per viaggiare all’estero. Tra questi la Grecia che per salvare la stagione turistica estiva ha stipulato un accordo bilaterale con Israele per tutelare il flusso reciproco di cittadini vaccinati e l’Ungheria che ha cominciato ad emettere certificati simili per i suoi cittadini immunizzati dal vaccino o dal contagio. 

Con il Decreto-Legge n.52 del 26 aprile (D.L. “Riaperture”), anche il Governo italiano ha seguito questo orientamento. Nelle prescrizioni del legislatore nazionale, il pass sarà previsto per spostarsi tra Regioni che hanno un diverso grado di rischio (art.2), partecipare a manifestazioni pubbliche (art.5), garantire l’ingresso a fiere, convegni e congressi (art.7).

 Il “pass italiano” sarà all’inizio cartaceo rilasciato da medici, farmacisti o strutture sanitarie e riguarderà tutti coloro che hanno terminato l’intero ciclo vaccinale con una durata di validità di 6 mesi così come per coloro che hanno sviluppato l’immunità dopo essere guariti dalla malattia. Per i soggetti che si sono sottoposti a test (molecolare o antigenico) risultando negativi, il pass avrà una durata limitata alle 48 ore seguenti all’esito. L’obiettivo è pervenire ad un pass digitale che si avvalga di un’applicazione per smartphone con codice QR oppure introdurre una tessera con i dati forniti dalle autorità sanitarie tramite il libretto sanitario elettronico. Il pass italiano dovrà poi essere coordinato con quello europeo non appena sarà adottato il Digital Green Certificate.

Il 23 aprile, con l’avvertimento indirizzato al Governo, l’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali ha elencato le criticità sul pass vaccinale e i pericoli che potrebbero derivare da una adozione nei termini prescritti (Provvedimento 23 aprile 2021, n.156).

Il primo rimprovero è quello di non aver consultato preventivamente il Garante quando sarebbe stato necessario eseguire una valutazione di impatto di queste norme sui diritti e le libertà dei cittadini così come disciplinati dalla legislazione vigente.

Il secondo rilievo riguarda la base giuridica che introduce il pass. Secondo il Garante non sarebbe valida perché mancante di elementi essenziali richiesti dal Regolamento europeo e dal Codice della Privacy. Il decreto, infatti, non indicherebbe in modo tassativo ed esplicito per quali finalità è richiesto l’attestato. L’indicazione degli obiettivi appare ineludibile per stabilire se il sacrificio della privacy possa considerarsi proporzionato a realizzare gli scopi perseguiti oppure no. 

Il Garante sottolinea poi un aspetto non secondario. Ove manchi già ab origine una indicazione delle finalità per introdurre il pass, “cosa assicura che in futuro esso non possa essere esteso per consentire l’accesso a luoghi e servizi pubblici o per instaurare un rapporto di lavoro o per essere ammessi a scuola?”.

C’è inoltre un problema relativo alle informazioni contenute nel certificato che andrebbero limitate a quelle “strettamente indispensabili”, come i dati anagrafici, l’identificativo univoco della certificazione, la data di fine validità della stessa, riguardando dati classificati come “sensibili”.

Appare poi fortemente discutibile e contraria al principio di minimizzazione, la scelta di adottare tre certificazioni diverse che distinguono tra vaccino, pregressa malattia, o test negativo. Sarebbe sufficiente per lo scopo realizzare un unico certificato uguale per tutti che indichi solo la durata della sua validità senza dover indicare a chiunque le vicende sanitarie dell’interessato.

A conclusione, mancherebbe anche del tutto l’indicazione del titolare del trattamento dei dati e non sarebbe stabilito presso quale ente avrà sede la piattaforma nazionale di raccolta (censure già segnalate dal Garante in sede di provvedimento autorizzativo sull’APP Immuni). Questa mancanza costituirebbe una grave violazione delle norme sulla privacy, così come il fatto di non aver previsto un termine ultimo di durata per la conservazione dei dati e le misure attuative necessarie per garantirne l’integrità e la riservatezza.

2.L’Esma multa Moody’s per 3,7 milioni di euro: una storia destinata a ripetersi?

A cura di Luciano Vitali 

Lo scorso 21 Marzo, l’Autorità europea dei mercati finanziari (Esma) ha multato 5 divisioni del gruppo Moody’s stabilite in Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito per 3,703 milioni di euro per violazione del Regolamento europeo sulle agenzie di rating in relazione all’indipendenza e alla prevenzione dei conflitti di interesse degli azionisti.

 La crisi finanziaria globale del 2008 ha attirato l’attenzione sul ruolo delle agenzie di rating del credito (CRA) e sulle ripercussioni per i mercati finanziari dei loro rating. Le attività delle CRA, che all’epoca erano poco regolamentate in Europa, sono entrate nell’ordine dei lavori legislativi dell’Unione europea (UE). Al fine di potenziare la vigilanza su un settore così cruciale per l’intero sistema finanziario europeo, sono stati conferiti all’ESMA poteri esclusivi per quanto concerne la registrazione delle agenzie di rating del credito, il monitoraggio del loro operato e l’adozione di decisioni di vigilanza. Attualmente, l’ESMA esercita la vigilanza su 23 agenzie di rating del credito registrate nell’UE.

Moody’s è la più importante agenzia di rating al mondo insieme a Standard and Poor’s e Fitch ed è quotata a Wall Street e partecipata da numerosi fondi di investimenti quali Berkshire Hathaway (la società del finanziere Warren Buffet) con il 13%, Vanguard (6,9%), Blackrock (3,9%) e da una decina di altri asset manager con quote decrescenti. Proprio le elevate partecipazioni di tali fondi nella CRA (acronimo di agenzia di rating) sarebbero alla base di alcune delle violazioni accertate dall’Esma. 

L’analisi del provvedimento adottato nei confronti di Moody’s UK mostra come l’Esma abbia accertato cinque violazioni del Regolamento CRA, tutte strettamente legate all’articolo 6, il quale impone “a tutte le agenzie di rating di adottare tutte le misure necessarie per garantire che l’emissione di un rating del credito o della prospettiva di un rating non sia influenzata da alcun conflitto di interesse esistente o potenziale”. Per portare avanti tale obiettivo, così come previsto dal comma 2, “un’agenzia di rating del credito adempie agli obblighi di cui all’allegato I, sezioni A e B”. Ed è proprio in relazione a questo contesto normativo che vengono in rilievo le violazioni compiute dall’agenzia di rating le quali sono dettagliatamente elencate all’allegato III, sempre del medesimo regolamento. 

La prima delle violazioni contestate a Moody’s riguarda il mancato approntamento di politiche adeguate per evitare il conflitto di interesse nel caso dell’emissione di rating di strumenti finanziari nei confronti di soggetti che siano anche azionisti della CRA e nello specifico azionisti con un’influenza rilevante nella società, in quanto in possesso di una percentuale superiore al 10% del capitale sociale. Per questi azionisti un apposito procedimento previsto dalla CRA prevedeva un divieto di emettere nuovi rating nei confronti di chi fosse in possesso di almeno il 10% del capitale sociale di Moody’s, al fine di evitare conflitti di interesse. Tuttavia, un’esenzione permetteva di emettere il rating in caso di rating già esistente (cd. “Anticipated/Subsequent”) risultando i rating emessi, sulla base di questo “cavillo”, totalmente legittimi. Tale pratica è stata condannata dall’Esma in quanto avrebbe, a suo parere, “illegittimamente esteso lo scopo dei rating esistenti così come concepiti nel regolamento sulle CRA e di conseguenza deviato dalle finalità della stessa regolazione”. Inoltre, Moody’s sarebbe anche colpevole di aver erroneamente classificato il “Process Walk-Thru”, ossia il documento che tratteggiava l’implementazione da parte dell’impresa dei suoi obblighi inerenti il rispetto dei requisiti riguardo i conflitti d’interesse, come delle semplici line guida aziendali, escludendole così di fatto dai procedimenti di Moody’s relative agli azionisti. Per questo “infringement” la CRA è stata multata di oltre 800.000 dollari. 

La seconda violazione si riallaccia in realtà al primo punto sopra analizzato. Si tratta infatti dell’effettiva emissione di un rating nei confronti di “Northern Powergrid Limited” nonostante al momento del rating, nel Marzo 2015, un azionista detentore di più del 10% del capitale votante della CRA fosse anche un membro del consiglio direttivo proprio della società di cui veniva valutata l’affidabilità dello strumento finanziario rilasciato. La valutazione fatta da Moody’s faceva leva sullo stesso principio sopra analizzato, ovvero quello dell’esenzione per i rating già esistenti, del quale veniva ribadita l’illegittimità. 

La terza violazione è stata rilevata riguardo la mancata divulgazione di informazioni riguardanti i conflitti di interesse legati ai propri azionisti. In particolare, in riferimento al punto 3 della sezione B dell’allegato I del regolamento sulle CRA, un’agenzia deve, quando un rating esistente è potenzialmente condizionato da un conflitto d’interesse, fornire informazioni riguardo al fatto che uno dei suoi azionisti, in possesso di almeno il 5% del capitale votante, possegga anche il 5% o più della società cui il rating è relazionato. Nel caso di Moody’s è stata stimata la carenza di informazioni relative al conflitto di interessi in 278 casi, di cui 101 riguardavano istituti già valutati, il che rende evidente la mancanza di adesione ai requisiti in tema di divulgazione dell’informazione previste del regolamento sulle CRA. La multa in questo caso è risultata essere di 420.ooo euro, rimodulata a 260.000 sulla base dei massimali previsti dall’articolo 36a comma 4 del regolamento.

Di maggior severità è risultata essere la sanzione per la quarta violazione accertata dall’Autorità, concernente la carenza di requisiti organizzativi, adeguati ed efficaci, ad individuare e prevenire i possibili conflitti d’interesse. Per fare ciò, secondo l’Esma, un’agenzia dovrebbe essere capace di ottenere informazioni dirette sulle società valutate e sugli azionisti di queste che siano sufficientemente affidabili. Tuttavia, nel caso di Moody’s, l’analisi della struttura riguardante il “data gathering” mostrava delle forti incongruenze che non permettevano di acquisire informazioni certe dai clienti contattati i quali si limitavano a fornire informazioni scarne o incomplete; nonostante ciò, la CRA che era al corrente della scarsa documentazione fornita dai propri clienti, non si curava di rimediare alla scarsità di informazioni in suo possesso. Questa incompleta informazione non può non aver influito sulla divulgazione dei report da parte di Moody’s e sulle valutazioni effettuate nei confronti degli enti interessati e per questo, viene comminata una multa da 825.000 euro. 

L’ultima violazione presa in considerazione dall’Esma è quella relativa alla mancanza di un sistema amministrativo ed un meccanismo interno di riparto delle responsabilità che possa definirsi “in buono stato” (sound). La necessità di garantire tali procedimenti legati ai controlli interni o alla valutazione dei rischi, è sancita dal punto 4 della sezione A del primo allegato, secondo il quale tali sistemi garantiscono “l’adesione alle decisioni e ai procedimenti di ogni livello riguardanti le agenzie di rating”. Nello specifico, il sistema di controlli interni approntato da Moody’s, risulta essere frammentato mediante l’attribuzione di quattro diverse funzioni, il che comporta una confusione riguardo l’individuazione di un soggetto responsabile e la mancanza di un controllo completo dei processi che portano all’adeguamento alla regolazione riguardante gli azionisti della società; inoltre l’Esma ha rilevato come il Process Walk-Thru (di cui si parla anche nella prima violazione contestata) non fosse propriamente aggiornato in modo tale da essere coerente con le linee guida aziendali. Risultava così impossibile individuare sia il tipo di attività di controllo che dovevano essere portate avanti al fine di evitare i conflitti di interesse sia i soggetti responsabili per vigilare sul corretto espletamento di tali attività. Anche in questo caso, la multa comminate ammonta a 825.000.

Alla luce del provvedimento analizzato è possibile formulare alcune osservazioni. 

In primo luogo, è bene sottolineare come non si tratti del primo caso di intervento diretto dell’ESMA nell’ambito delle sue funzioni di vigilanza dirette sulle CRAs. Infatti, due anni fa, anche Fitch ricevette una multa di 5 milioni di euro sostanzialmente con le stesse motivazioni. Si tratta di interventi che risollevano, con una certa ciclicità, la questione mai risolta dei potenziali conflitti di interessi di queste agenzie. Tra i loro azionisti ci sono infatti fondi che hanno partecipazioni chiave nelle società su cui l’agenzia stessa esprime valutazioni di solidità finanziaria e che ne influenzano anche il valore di borsa. In teoria dovrebbero esistere barriere invalicabili tra le attività dell’agenzia e i suoi soci, tuttavia secondo Esma, e secondo molti osservatori, non sempre questo avviene.

In secondo luogo, proprio alla luce della ripetitività con il quale si verificano tali violazioni è legittimo interrogarsi sul reale effetto deterrente del provvedimento sanzionatorio. Potrebbe risultare infatti non sufficientemente proporzionata una multa dal valore di 3.7 milioni di euro, per un’agenzia di rating tra le più famose al mondo di cui solo il dipartimento UK registrava nel 2019 entrate per oltre 200 milioni di euro, soprattutto se si considera che le violazioni si estendono nell’arco di ben quattro anni, ovvero dal 2013 al 2017. L’esiguità della sanzione rischierebbe di farla rientrare nella voce dei costi “calcolati” che l’agenzia è disposta a sopportare a fronte di introiti di gran lunga superiori. Allo stesso tempo, anche la sanzione della “gogna mediatica” mediante la pubblicazione del provvedimento potrebbe risultare di scarsa rilevanza non andando ad intaccare la reputazione della società la quale continuerebbe ad esercitare un’influenza dominante in un mercato in cui la concorrenza è di appannaggio di pochi altri colossi del rating. Potrebbe dunque essere necessario, nei prossimi anni, un ripensamento della disciplina in tema di conflitti di interesse al fine di adottare un approccio sinergico che partendo da un irrobustimento delle sanzioni, passando per una loro effettività e giungendo a stimolare un maggior trasparenza degli assetti societari, permetta di tutelare al meglio gli investitori garantendo loro dei rating di strumenti finanziari esenti da qualsiasi influenza esterna. 

3. Project Financing: Il TAR Lombardia chiarisce che nella prima fase la selezione del promotore non si connota in termini di concorsualità tra le proposte spontanee pervenute

A cura di Antonio Triglia

Uno degli aspetti più controversi in tema di project financing a iniziativa privata, e del quale negli ultimi anni i Tribunali amministrativi si sono spesso occupati, è stato quello relativo al tipo di valutazione che l’amministrazione è chiamata a svolgere a seguito della presentazione di due o più proposte di progetto spontanee, ai sensi del comma 15, art. 183 del D.Lgs n. 50/2016.

Tra le recenti pronunce che si sono occupate della questione una delle più significative è  la sentenza n. 279/ 2019, emessa dal Tar per la Lombardia (Milano, Sez. IV), che opera una chiara ricostruzione e scansione delle fasi in cui è articolato il procedimento previsto per la finanza di progetto a iniziativa privata. 

Con la predetta sentenza il Collegio ha rigettato il ricorso proposto da Enel Sole S.r.l. per l’annullamento dei provvedimenti della Giunta e del Consiglio Comunale, con cui il Comune di Jerago con Orago aveva dichiarato di pubblico interesse la proposta progettuale per il finanziamento degli impianti di pubblica illuminazione e degli impianti semaforici e per la successiva gestione del servizio di illuminazione pubblica da parte di GEI S.p.a. e, conseguentemente, aveva nominato quest’ultima quale promotore, ai sensi del co.15, art. 183 del D.Lgs n. 50/2016.

Invero la proposta spontanea dell’operatore economico nominato promotore era pervenuta presso gli uffici comunali in data 5 aprile 2018. Poco dopo (11 aprile) veniva invece presentata la proposta di Enel Sole, anch’essa attiva nel settore dei servizi di illuminazione, “avente oggetto analogo” e “medesima natura”.

Quest’ultima ha quindi impugnato la scelta dell’Ente di nominare come promotrice la società controinteressata, deducendo che tale scelta sia stata irragionevole in quanto l’amministrazione non avrebbe tenuto conto del fatto che la proposta della ricorrente fosse “largamente più conveniente” in considerazione di una nettamente minore durata della concessione (15 anni invece di 20 proposti da GEI) e della minore entità dei canoni a carico dell’Amministrazione. 

Inoltre, la deliberazione del Consiglio comunale è stata censurata anche sotto il profilo della carenza di motivazione, poiché gli organi comunali secondo la ricorrente, piuttosto che motivare le proprie scelte, si sarebbero limitati ad un mero rinvio alle valutazioni compiute dalla Commissione Tecnica comunale appositamente nominata.

Sul punto il Tar chiarisce che gli organi chiamati ad esprimere “verso   l’esterno” la volontà del Comune, quando pongono alla base delle loro decisioni le risultanze dell’attività istruttoria compiuta da commissioni ad hoc o uffici tecnici condividendole, non sono tenuti ad esprimersi con valutazioni “impostate su vesti formali diverse”, non essendo necessario che debbano “motivare la loro motivazione”. In più il Collegio evidenzia come la portata dell’obbligo di motivazione, finalizzato alla possibilità che l’interessato riesca a far valere il proprio interesse legittimo, potendo mettere in discussione la scelta dell’amministrazi0ne, è quindi strettamente legato al diritto di difesa del ricorrente. Pertanto laddove la motivazione contenga il richiamo di atti in modo chiaro e inequivoco, posti nella sfera di conoscibilità degli interessati e che consentano loro di ricostruire “l’agere” del Comune, si ha, come in questo caso, un realizzarsi pieno ed effettivo del diritto di difesa e la motivazione per relationem è perfettamente ammissibile. 

Per quanto riguarda la specifica contestazione della scelta di nominare promotore GEI, senza aver preso in considerazione l’asserita maggior convenienza della proposta formulata dalla ricorrente, il Tar nel giungere alla conclusione, ha operato una efficace ricostruzione dell’Istituto del project financing a iniziativa privata.

Innanzitutto ribadisce come consolidata giurisprudenza sul punto attribuisca nella prima fase ampi margini di discrezionalità, momento procedimentale nel quale l’amministrazione deve individuare il progetto (maggiormente) confacente al pubblico interesse. Infatti il Collegio cita la Sentenza n.6633/2018 del Consiglio di Stato, nella quale il Supremo Consesso ha evidenziato come la scelta sia una tipica e prevalente manifestazione della discrezionalità amministrativa, al punto che è stato escluso che, addirittura dopo la dichiarazione della fattibilità del progetto presentato dal privato e la nomina a promotore, l’amministrazione sia tenuta a dare corso alla procedura di gara per l’affidamento della relativa concessione.

Invero i giudici di Palazzo Spada, in un’altra sentenza dello stesso anno (4777 datata 2 agosto 2018), avevano sancito anche alcuni obblighi cui l’amministrazione è comunque tenuta in questo momento procedimentale. In particolare in presenza di più proposte di progetto spontanee pervenute all’amministrazione (come nel presente caso dell’illuminazione pubblica del comune lombardo qui analizzato), quest’ultima non può esimersi dal compiere un valutazione comparativa quantomeno preliminare da svolgersi nei confronti di tutte le proposte presentate, nell’interesse non solo dell’operatore economico privato, ma anche della stessa amministrazione.

Tuttavia il Tar Milano nel tratteggiare i confini dell’istituto mette in guardia sul tipo di “valutazione comparativa” cui il Comune di Jerago con Orago era chiamato in questa fase: questo segmento procedimentale del project financing a iniziativa privata si connota “non già in termini di concorsualità, id est di gara comparativa finalizzata alla individuazione di un vincitore”; in questo ambito di valutazione ciò che rileva è l’interesse dell’Amministrazione “ad includere le opere e i servizi proposti dal privato negli strumenti di programmazione, all’uopo nominando promotore il soggetto imprenditoriale il cui progetto sia risultato maggiormente aderente ai desiderata e agli interessi dell’Ente. Dunque in questa fase gli interessi privati rimangono, per così dire, sullo sfondo, “non essendosi ancora entrati nella fase della procedura pubblica di selezione finalizzata a consentire alle imprese interessate il conseguimento del sostanziale bene della vita, costituito dalla aggiudicazione di una pubblica commessa.”

In questo contesto pertanto non può avere rilevanza, ai fini di una censura dell’azione amministrativa, una presunta convenienza  di una proposta rispetto a un’altra sul piano strettamente quantitativo; lungi dall’essere pienamente piegata a criteri meramente economici, la valutazione cui è chiamata l’amministrazione deve invece guardare a una più ampia sfera di interessi pubblici, al cui perseguimento è istituzionalmente preposta, nè in questo momento è soggetta “alle regole rigorose di una vera e propria gara, essendo al contrario caratterizzata da maggiore elasticità e libertà da formalismi” (TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 23 aprile 2008 n. 1552).

Un’ulteriore considerazione riguarda la menzionata posizione assunta del Consiglio di Stato (4777/2018) in merito all’obbligo di procedere a una valutazione comparativa tra le più proposte sopraggiunte contestualmente. Si ritiene che essa vada interpretata anche alla luce della tutela assegnata alla libera iniziativa economica. Pertanto la necessaria valutazione comparativa è da intendersi nel senso che ogni proposta va valutata tenendo conto delle altre, ma non che le stesse debbano essere raffrontate con una comparazione sul piano qualitativo e quantitativo, finalizzata alla scelta della migliore, essendo a ciò destinata la fase successiva della gara. Infatti, se l’approvazione della proposta fosse esclusivamente indirizzata alla scelta del progetto “quantitativamente ed economicamente” migliore, il soggetto, che ha avuto “il merito” di presentare per primo la proposta spontanea di progetto, che l’amministrazione potrebbe giudicare fattibile, rischierebbe di trovarsi in posizione di svantaggio rispetto agli altri proponenti, i quali ben potrebbero “superare” la precedente proposta presentandone una avente il medesimo oggetto (come peraltro è avvenuto nel caso analizzato) con la semplice aggiunta di elementi migliorativi sul piano strettamente quantitativo rispetto alla prima che è stata presentata; Una diversa lettura potrebbe comportare invece un vulnus al principio libera iniziativa economica, sancito dall’art. 41 della Costituzione.

In più il Tar Lombardia, anche scendendo sul piano dell’analisi delle proposte, ha rilevato che la posizione della ricorrente sulla “miglior convenienza” della sua stessa proposta non solo ripercorre l’iter valutativo seguito dal Comune senza riuscire a “stigmatizzarne la esorbitanza rispetto ai generali canoni conformanti l’esercizio della discrezionalità amministrativa, bensì allo scopo di sostituire con i propri opinamenti (necessariamente di parte) quelli espressi dal Comune. Infatti il collegio fa notare come la tesi della presunta “superiorità economica” della proposta di Enel Sole, sostenuta dalla ricorrente, non prendeva in considerazione altri elementi della proposta quali l’entità degli investimenti e l’assenza di alcun limite alle spese per la manutenzione straordinaria; il progetto di GEI S.p.a. appariva preferibile in riferimento a questi parametri, ai quali l’amministrazione aveva dato rilevanza e su cui ragionevolmente si è fondata la scelta del Comune.

 

4. I poteri speciali del Governo di unità nazionale: tra sicurezza e integrazione della politica industriale

A cura di Tommaso di Prospero

A partire dallo scorso mese, si è assistito a un ricorso estensivo all’esercizio dei poteri speciali da parte del Governo. Dall’11 marzo, infatti, sono stati quattro i provvedimenti emanati nell’ambito del golden power, due dei quali riferibili al settore del 5G.

Il primo provvedimento del governo è stato emanato con dpcm dell’11 marzo 2021. Oggetto l’esercizio dei poteri speciali, con prescrizioni, in merito alla notifica di acquisto di CPE 5G di Fastweb S.p.A. da parte di Askey (taiwanese) e ZTE (cinese).

Due sono stati i provvedimenti adottati con dpcm nel 25 marzo 2021. In primis, di nuovo quindi protagonista il settore del 5G. Qui l’esercizio dei poteri speciali, con prescrizioni, verso la notifica di acquisizione di elementi «hardware e software» da parte delle società, entrambe cinesi, Huawei e ZTE, per il «completamento di architettura di rete 5G SA» (SA stante per standalone). 

Il provvedimento successivo è stato di rettifica in merito all’esercizio di poteri speciali, con prescrizioni, in ordine alla notifica di acquisizione da parte di Tencent Cloud B.V. e Square Inc. di partecipazioni di minoranza nel capitale sociale di Satispay S.p.a. 

Da ultimo, il dpcm del 31 marzo 2021, reca l’esercizio di poteri speciali, con opposizione, in ordine alla notifica della Shenzhen Inveland Holdings Co. Ltd., avente ad oggetto l’acquisizione di una partecipazione pari al 70% nella società LPE S.p.a.. LPE è un’azienda che realizza reattori epitassiali utilizzati nella produzione di semiconduttori. La partecipazione target della società cinese è sicuramente di grande rilevanza in tempi di crisi nel settore dei chip, e su cui la risposta forte del governo con l’opposizione all’operazione non si è fatta attendere. Quanto emerge infatti da indiscrezioni, nelle motivazioni del provvedimento sarebbe stato indicato che l’acquisizione comporterebbe «un rischio eccezionale per gli interessi pubblici relativi alla continuità degli approvvigionamenti di dispositivi elettronici a semiconduttore per una pluralità di ambiti (tra cui infrastrutture energetiche, intelligenza artificiale, 5G, IoT, per menzionare quelli individuati come strategici dalla normativa nazionale ed europea)».

Non si conoscono le motivazioni tecniche dei provvedimenti, che sono note nei dettagli solo ai soggetti interessati, e le informazioni a disposizione sono per ora riferibili ai soli estratti dei decreti consegnati al Parlamento. Rimangono tuttavia alcune considerazioni che possono essere già anticipate. Innanzitutto, il nuovo Governo pare stia facendo, sin da subito, un esteso uso dei poteri speciali, non limitandosi ad assumere provvedimenti prescrittivi ma anche con vere proprie interdizioni sulle operazioni (per ora tre in totale dalla riforma del 2012). Sicuramente altro profilo rilevante sono i settori su cui si è concentrato l’esercizio dei poteri speciali. Come detto sopra, su quattro provvedimenti, due si riferiscono al settore del 5G, la cui estensione del perimetro golden power risale a decreti-legge del 25 marzo 2019, n. 22 e dell’11 luglio 2019, n. 64. Il decreto n. 22 del 2019 ha di fatto inserito i servizi di comunicazione elettronica a banda larga basati sulla tecnologia 5G nelle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale (dunque estendendo anche a queste fattispecie l’obbligo di notifica delle operazioni, qui rispettato). Il 5G si conferma, anche quest’anno, come uno dei fulcri centrali dell’interesse nazionale e dell’attenzione del governo per l’esercizio del golden power. Come emerso anche per il 2019 dalla Relazione della Presidenza del Consiglio dei ministri presentata al Parlamento in materia di esercizio dei poteri speciali, e dalla Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza del 2020, i provvedimenti aventi ad oggetto notifiche nel settore 5G hanno contribuito all’incremento del trend di segnalazioni e ne costituiscono anzi il motivo più frequente di ricorso ai poteri speciali (11 su 13 dei provvedimenti con specifiche condizioni o prescrizioni solo nel 2019, 18 su 22 totali nel 2020). 

Inevitabile poi concentrarsi sulla provenienza degli investimenti oggetto di scrutini da parte dell’esecutivo, tutte esterne all’Unione europea e comunque la quasi totalità cinesi. Provenienza estera che assume valore fondamentale per due ordini di motivi. Innanzitutto, l’esercizio dei poteri speciali nel campo del 5G richiede necessariamente il contratto oggetto della notifica sia stipulato con soggetti esterni all’Unione europea. Ma questo requisito è rilevante anche per far rientrare le operazioni nel quadro sul controllo degli investimenti istituito dal Regolamento UE n. 452 del 2019 (il “Regolamento”). Sarà dunque compito del Governo di segnalare agli Stati membri le operazioni e i provvedimenti adottati che siano compatibili con l’art. 4, paragrafo 1 del Regolamento, che individua i settori in cui gli investimenti diretti esteri possano incidere sulla sicurezza o l’ordine pubblico. 

Nonostante il livello altamente tecnico che caratterizzerà i provvedimenti integrali nelle loro motivazioni si può inoltre desumere, anche dalle dichiarazioni pervenute da parte dei membri del Governo, che alla radice dei provvedimenti vi sia una necessità nazionale di salvaguardare gli interessi non solo di sicurezza e di ordine pubblico, ma anche e soprattutto di politica industriale e sviluppo economico. Questa generale volontà di preservare l’interesse pubblico era stata confermata come caratteristica dei poteri speciali già nella Relazione della Presidenza del Consiglio dei ministri presentata al Parlamento del 2018, dove si indicava che l’esercizio dei poteri speciali si configura non solo come presidio per le attività strategiche che fanno capo alle società destinatarie di operazioni di acquisizioni, ma anche come uno strumento di tutela della relativa dimensione industriale e del complesso delle conoscenze tecnologiche «che assieme costituiscono un patrimonio strategico non solo delle società target ma anche dell’intero sistema paese». Ancora più sentita con la pandemia, questa esigenza è emersa anche dalla comunicazione della Commissione del 26 marzo 2020, che aveva invitato gli Stati membri ad «avvalersi appieno, sin da ora, dei meccanismi di controllo degli Investimenti Esteri Diretti per tenere conto di tutti i rischi per le infrastrutture sanitarie critiche, per l’approvvigionamento di fattori produttivi critici e per altri settori critici, come previsto nel quadro giuridico dell’UE», e dall’estensione del perimetro golden power con il D.l. Liquidità (poi sostituito con i dpcm dei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 179 del 18 dicembre 2020 e n. 180 del 23 dicembre 2020). Il Governo, non senza polemiche anche dai soggetti interessati, attua nuovamente un bilanciamento delicato degli interessi coinvolti con il suo intervento pervasivo su operazioni che non possono essere considerate solo economiche. Tra questi interessi, l’apertura dei mercati ovviamente emerge come recessivo, specialmente con riguardo al caso LPE, dove l’operazione di acquisizione è stata sottoposta al veto. 

5.Il subappalto e la sua dubbia legittimità

A cura di Gaia Mazzei

La previsione della facoltà in capo al legislatore italiano di imporre limitazioni, quantitative e qualitative, all’opportunità di fare ricorso all’istituto del subappalto ha sempre costituito un’incertezza normativa caratteristica del nostro ordinamento. Tale problema si è tradotto in previsioni normative di dubbia legittimità, specialmente in vista dell’orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia, la quale ha considerato la disciplina italiana del subappalto incompatibile con l’ordinamento eurounitario, ed ha provocato numerosi dubbi applicativi. La sentenza del Consiglio di Stato, n. 8101 del 17 dicembre 2020, ha riportato alla luce la discussa questione concernente le limitazioni imposte al subappalto, storicamente dirette a rimuovere il pericolo di infiltrazioni mafiose all’interno della contrattualistica pubblica. 

In armonia con ciò si è di recente espressa, con due sentenze del settembre e del novembre 2019, anche la Corte di Giustizia, precisando che le direttive europee devono essere intese nel senso di ritenersi ostative alla previsione di limiti quantitativi al subappalto che siano generali ed indeterminati. 

È stato chiesto, pertanto, da parte del giudice comunitario, al legislatore nazionale di introdurre misure meno restrittive, ma allo stesso modo idonee, allo scopo di realizzare la necessità di tutela della legalità negli appalti pubblici. In conseguenza alle sentenze della Corte di Giustizia, l’ordinamento italiano si trova ora caratterizzato da una sorta di vuoto normativo che si riverbera tanto sui privati quanto sulle amministrazioni.

Infatti, il legislatore comunitario, ritiene che sia soddisfacente un sistema di tutele, quale quello approntato nelle Direttive, prima del 2004 e poi del 2014, che lascia alle stazioni appaltanti la possibilità di porre in essere una serie di controlli preventivi sul soggetto che in concreto eseguirà l’opera, così da disporre di un sistema che permetta di verificare anticipatamente il rispetto della legge e che, di conseguenza, non richieda ulteriori limiti in fase di esecuzione del contratto quali quelli della quota subappaltabile.

L’approvazione del decreto Sblocca cantieri era stata preceduta da una discussione che aveva posto come obiettivo principale quello dell’eliminazione totale della quota subappaltabile, con l’intento di ampliare quanto più possibile il principio della massima partecipazione e conformare così la disciplina del subappalto nazionale a quella del subappalto comunitario. Nonostante questa consapevolezza, tuttavia, il decreto n. 32/2019 ha finito per conservare il limite massimo della quota subappaltabile innalzandolo inizialmente dalla quota del 30% a quella del 50% e poi, con la previsione di un periodo transitorio di vigenza della stessa, riportando la quota massima al 40%.

L’incertezza applicativa provocata della norma e la modifica della percentuale della quota subappaltabile hanno provocato, in riferimento a tale previsione, dubbi di conformità con la disciplina euro unitaria dei contratti pubblici e hanno dato luogo a due ordinanze di rimessione: l’ordinanza n. 148 del TAR Lombardia, Sez. I, del 19 gennaio 2018 e l’ordinanza n. 3553 del Consiglio di Stato, dell’11 giugno 2018. 

Ora, anche se il giudizio di incompatibilità è intervenuto in relazione alla previgente disciplina prevista nel Codice appalti del 2016, la quale prevedeva il limite delle quote subappaltabili 30%, tale giudizio deve essere esteso, per analogia, anche alla più recente previsione contenuta nello Sblocca cantieri, cioè quella che fissa invece il limite delle quote subappaltabili nel 40%.

Ci si chiede, a questo punto, non solo quale sia il limite che deve essere imposto alla quota subappaltabile in sede di gara, ma anche se sia legittimo il ricorso al subappalto senza limiti quantitativi.

Nel merito della questione si è di recente pronunciato il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8101 del 17 dicembre scorso, precisando che la norma dei contratti pubblici che pone limiti al subappalto, ovvero l’articolo 105 comma 2, deve essere disapplicata in quanto incompatibile con l’ordinamento eurounitario.

La controversia originava da un ricorso proposto al TAR Piemonte a seguito di una gara per la concessione del servizio di ristorazione a basso impatto ambientale per le mense scolastiche ed i centri diurni socioterapeutici. In particolare, la ricorrente, seconda classificata, contestava l’aggiudicazione in capo alla prima classificata con una serie di censure, tra le quali la violazione dell’articolo 105 del Codice dei contratti pubblici nella parte in cui prevede il limite del 30% alla quota subappaltabile, limite, questo, che l’aggiudicataria avrebbe superato.

Il TAR, con sentenza n. 962 del 5 settembre 2019, accogliendo il primo ordine di censure, relative alla violazione del capitolato speciale da parte dell’aggiudicataria, ha però compreso gli altri motivi del ricorso, tra i quali, la violazione dei limiti alla quota subappaltabile discendente dalla dichiarazione di subappalto dell’aggiudicataria. Successivamente il Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del TAR, ha accolto le censure della ricorrente ed ha analizzato tutti i motivi del ricorso principale.

Con specifico riferimento alla violazione dei limiti al subappalto il Consesso ha chiarito, avvalorando quanto già espresso con la sentenza n. 4832 del 29 luglio 2020, che i limiti generali e indeterminati imposti dal legislatore al subappalto devono essere disapplicati in quanto incompatibili con l’Ordinamento eurounitario. In particolare, ricordando un precedente orientamento, ha precisato che i limiti del 30% relativi al subappalto secondo la formulazione del comma 2 dell’articolo 105 devono ritenersi superati per effetto delle sentenze della Corte di Giustizia (ovvero la sentenza Vitali S.p.a. e la sentenza Tedeschi S.r.l.).

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, si è quindi pronunciato in relazione alla possibilità di fare ricorso al subappalto fino alla quota del 100%, esprimendo una sostanziale disapplicazione dell’articolo 105 del Codice dei contratti pubblici.

6. Il concetto di «disagio ambientale» e il riconoscimento di una indennità ai comuni limitrofi all’impianto: è sufficiente il solo criterio geografico?

A cura di Piergiorgio Vaccarini

È ormai ampiamente accertato che il funzionamento di un impianto per il trattamento dei rifiuti produca delle esternalità negative i cui effetti, nella maggior parte dei casi, vengono posti a carico di tutti coloro che hanno un rapporto di vicinanza geografica con il territorio che lo ospita.

Generalmente l’amministrazione, per risarcire la collettività del «disagio ambientale» causato dall’attività di quest’ultimi, riconosce ai soggetti «interessati» degli oneri di mitigazione ambientale, ovvero delle somme di denaro il cui ammontare viene solitamente calcolato in proporzione ai danni concretamente realizzati, o astrattamente realizzabili, dall’impianto preso in considerazione.

Posto ciò, prima di procedere all’elargizione di simili somme è sempre necessario eseguire un adeguato accertamento sull’effettiva incidenza dello stabilimento ha sul territorio. In un secondo momento, e quindi solo una volta accertate le esternalità negative prodotte o comunque producibili dell’opera, avviene la distribuzione delle indennità tra gli aventi diritto; attività che generalmente segue dei criteri di ripartizione specifici, puntualmente individuati all’interno di un’apposita delibera dell’ente competente territorialmente per la gestione dei rifiuti. 

Fermo restando ciò, accade molto spesso che i destinatari di tali misure si trovino in disaccordo con quanto stabilito all’interno degli atti che le prevedono e per questo decidono di ricorrere dinanzi al giudice amministrativo competente, nell’intento di ottenere una pronuncia che riconosca loro una somma maggiore, o comunque diversa, rispetto a quella già calcolata.

È questa la vicenda posta alla base di un recentissimo contenzioso sorto tra il Comune di Imola e la Agenzia Territoriale dell’Emilia Romagna per i Servizi Idrici e Rifiuti (ATERSIR) e il Comune di Riolo Terme (RA), per la risoluzione del quale si è pronunciata la prima sezione del TAR Emilia Romagna con sentenza n. 294 del 23/03/2021.

Nel caso di specie la controversia traeva origine dall’impugnazione proposta dal Comune di Imola avverso due delibere del Consiglio d’Ambito di ATESIR: la n. 24 del 13 novembre 2013 e la successiva n. 31 del 13 luglio 2015 adottata in attuazione della precedente, che riconoscevano tanto al Comune ricorrente quanto a quello confinante di Riolo Terme, perché facente parte dei «Comuni che rientrano in una distanza di 2 km dal perimetro dell’impianto», una indennità per il «disagio ambientale» causato dalla attività della discarica «Tre Monti» insistente sul territorio del primo dei due Comuni. Un danno che in questo caso sarebbe derivato principalmente da due fattori: il traffico di automezzi provenienti e/o diretti all’impianto sopra citato e la esalazione di cattivi odori derivanti dalle sostanze stipate e/o trattate all’interno di quest’ultimo.

Il Consiglio d’Ambito di ATESIR con la delibera n. 24 del 2013 aveva dato attuazione alla delibera regionale n. 135 del 2013 con la quale si prevedeva la «possibilità di riconoscere nel corrispettivo dello smaltimento i predetti oneri, da computarsi tra i costi operativi, in favore dei Comuni sede di impianto e dei Comuni non sede di impianto ma che si trovano ad una distanza pari o inferiore a 2 km dal perimetro dell’impianto» prevedendo inoltre che «nell’ipotesi di disagio provocato dal medesimo impianto nei riguardi di più comuni» gli oneri di mitigazione sarebbero stati «ripartiti sulla base di un criterio direttamente proporzionale all’incidenza dei territori dei singoli Comuni nell’area di influenza dell’impianto calcolata sulla base delle distanze sopra indicate».

Da queste delibere, in particolar modo dalla prima, emergeva che l’impianto di «Tre Monti» aveva i seguenti tassi territoriali di incidenza, rispettivamente: un tasso del 31,9% del territorio (5.634.333,55 metri quadri) nel Comune di Imola e un tasso del 68,1% del territorio (12.050.662, 56 metri quadri) nel Comune di Riolo Terme.

Il ricorrente, non condividendo simili criteri di ripartizione, impugna le delibere lamentando l’illegittimità dell’azione di ATESIR in quanto l’Agenzia avrebbe attribuito le indennità esclusivamente sulla base del criterio geografico invece che parametrarle alle opere di mitigazione. Il Comune di Imola inoltre a conferma della propria posizione fa presente che, in ogni caso, i disagi ambientali prodotti dall’impianto avverrebbero in buona parte sul territorio del proprio Comune e che per altro il Rio Rondinella, fiume che attraversa entrambi i Comuni e nel quale confluiscono ingenti flussi di percolato, risulterebbe coinvolto da questi ultimi soltanto nel tratto che attraversa il territorio di Imola e non anche per quello di Riolo Terme.

Il Collegio giudicante in occasione della decisione in primis osserva che tra le due delibere è quella del 2013 a prevedere il criterio di ripartizione geografica delle indennità e non la successiva del 2015, che invece dispone la mera attuazione della prima. Sulla base di ciò non sarebbe condivisibile l’eccezione della ricorrente secondo cui il contenuto lesivo della prima delibera si sarebbe manifestato solamente in seguito all’adozione della seconda, dal momento che già quella del 2013 prevedeva chiaramente l’utilizzo di un criterio geografico per l’attribuzione delle indennità ambientali.

Sulla base di ciò, il giudice rileva l’inammissibilità del ricorso in quanto per contestare la legittimità dell’utilizzo del criterio geografico, si sarebbe dovuto impugnare la delibera del 2013 tempestivamente e non a distanza di ormai diversi anni.

Per quello che invece concerne il merito del ricorso, e quindi l’illegittimità dell’utilizzo del solo criterio geografico per la corresponsione di indennità ambientali, il giudice rileva la sua infondatezza in quanto in primo luogo riconosce che «anche se un impianto di trattamento di rifiuti ricada in altro vicino Comune, non può negarsi che esso arrechi (o sia astrattamente in grado di arrecare) disagi e danni non solo agli appartenenti del Comune di ubicazione, ma anche ai cittadini dei Comuni limitrofi». 

In secondo luogo, evidenzia che l’indennità di «disagio ambientale» è da ritenersi «una somma che sintetizzi l’incidenza, per i Comuni interessati, del disagio medesimo» dove per questo si intende una situazione di fatto facente riferimento «ai Comuni sede di impianto o a quelli che comunque risentono delle ricadute ambientali conseguenti all’attività dell’impianto». È per queste ragioni quindi che una simile indennità deve essere intesa in senso «non limitato alla condizione del Comune sul cui territorio insiste una discarica».

Visto e considerato quanto detto fino ad ora, in relazione alla decisione di corrispondere le indennità ambientali sulla base del solo criterio della distanza geografica, il Collegio conclude che una scelta di questo genere rientra nella piena discrezionalità della pubblica amministrazione e che in quanto tale è sindacabile nei soli casi di manifesta irragionevolezza che, per altro, non sembrano essersi riscontrati nel caso di specie.

Sulla base del ragionamento sopra riportato il TAR Emilia Romagna si pronuncia con sentenza respingendo il ricorso del Comune di Imola ritenendolo tanto inammissibile quanto comunque infondato nel merito.

7.La trasparenza nelle operazioni con strumenti finanziari derivati: Il caso Archegos

A cura di Tommaso Mazzetti di Pietralata

Il caso di Archegos Capital Management, il fondo creato dal miliardario Bill Hwang per gestire unicamente il proprio patrimonio, ha sollevato consistenti perplessità sull’idoneità della disciplina vigente in materia di trasparenza delle operazioni finanziarie a garantire sia la correttezza e la completezza dell’informazione al mercato, sia una efficace attività di supervisione delle autorità di vigilanza competenti.

In particolare, l’attenzione si è rivolta sull’assenza di obblighi di comunicazione all’autorità di vigilanza delle operazioni con talune categorie di strumenti finanziari derivati complessi, nonché sull’opportunità di un regime di trattamento agevolato per i family offices, ossia quelle compagnie, come Archegos, che si occupano della gestione del patrimonio di un individuo o dei membri della medesima famiglia.

Prima di esaminare la vicenda, è necessario ripercorrere le caratteristiche del total return swap, lo strumento finanziario derivato che ha causato l’esposizione finanziaria di Archegos e il suo successivo dissesto.

Il total return swap (“trs”) è un’operazione finanziaria in base alla quale un soggetto (cd. “total return payer”), solitamente una grande banca commerciale o di investimento, acquista e conserva in portafoglio un bene o un’attività finanziaria (cd. “sottostante” o “reference asset”) su indicazione di un altro soggetto (cd. “total return receiver”), al quale cede tutto il rischio e il rendimento dell’investimento, a fronte del pagamento di una commissione a scadenze prefissate dal contratto. Alle medesime scadenze, inoltre, il proprietario del sottostante corrisponderà alla controparte una somma di denaro qualora ne sia aumentato il valore mentre, in caso contrario, la controparte dovrà fare altrettanto.

Il receiver ha diritto in ogni caso a percepire il rendimento dell’investimento (ad esempio i dividendi in caso di partecipazioni azionarie), ma si assume interamente il rischio dell’evento default del bene o attività sottostante e a tal fine il contratto può prevedere il deposito di una garanzia (“collateral”).

Mediante operazioni di questo tipo Archegos era arrivato ad essere esposto per 30 miliardi di dollari in azioni di varie società americane e cinesi senza risultare titolare delle stesse agli occhi del mercato e della Securities and Exchange Commission (“SEC”), l’agenzia federale statunitense preposta alla vigilanza sul mercato borsistico.

Quando il valore delle azioni sottostanti ai trs detenuti da Archegos è diminuito considerevolmente, le rispettive banche payer hanno richiesto la prevista integrazione della garanzia (cd. “margin call”) cui tuttavia Archegos non ha potuto far fronte in quanto non disponeva di capitale sufficiente.

Le banche payer allora hanno iniziato a disfarsi delle azioni in questione per limitare le perdite, spingendo così anche gli altri possessori di azioni dei medesimi emittenti a fare altrettanto e pertanto determinandone il definitivo crollo del prezzo di mercato.

Si stima che Credit Suisse e la giapponese Nomura, ossia le banche che hanno reagito con minore prontezza, abbiano subito perdite rispettivamente per 4 e 2 miliardi di dollari.

La vicenda ha innescato il dibattito sull’opportunità di una riforma della regolazione dei family offices e della disciplina sulla trasparenza delle operazioni con taluni strumenti finanziari derivati.

Ai sensi dell’Investment Adviser Act del 1940, ogni persona fisica o ente che offre professionalmente servizi di consulenza finanziaria e di gestione del risparmio (cd. “investment advisers”) è tenuto a registrarsi presso la SEC, a meno che non ricorra una delle cause di esclusione previste dalla legge (Adviser Act Section 202(a)(11)).

Dalla registrazione discendono una serie di obblighi di trasparenza nei confronti dell’autorità di vigilanza; in particolare gli investment advisers che gestiscono autonomamente più di 100 milioni di dollari devono periodicamente fornire alla SEC una descrizione dettagliata dei propri investimenti (cd. “13F form”). 

Inoltre, gli individui e gli enti registrati sono soggetti al potere ispettivo della SEC, esercitabile dal momento in cui l’autorità ritenga che la gestione dell’adviser presenti profili di rischio elevati, normalmente sulla base dell’analisi delle suddette comunicazioni periodiche.

Tra i soggetti che la legge esclude espressamente dalla nozione di investment adviser, e pertanto dall’obbligo di registrazione, vi sono proprio i family offices, purché soddisfino cumulativamente determinati requisiti, tra cui la condizione che l’attività di consulenza sia offerta esclusivamente a membri della famiglia e che questi detengano il controllo della compagnia stessa, ossia il potere di esercitare un’influenza dominante sull’organo di amministrazione o più in generale sulle policies della compagnia (Advisers Act Rule 202(a)(11)(G)-1).

La ratio del particolare regime di supervisione accordato ai family offices risiede tradizionalmente nel fatto che la loro attività si limita a gestire il patrimonio della famiglia controllante e non anche patrimoni di altri clienti (“no outside clients”). Il rischio delle attività di queste compagnie ricade pertanto esclusivamente sul patrimonio della facoltosa famiglia cliente e non anche sui patrimoni di altri investitori (“no-investor, no-harm”) e, di conseguenza, non attiverebbe la missione tipica dell’autorità di vigilanza, ossia la protezione dei piccoli investitori.

Tuttavia, a seguito della vicenda Archegos, questo assunto è stato messo in discussione, in quanto è divenuto evidente che la crisi di un family office di grandi dimensioni può contagiare altre istituzioni finanziarie con conseguenze significative sulla loro stabilità finanziaria.

La natura di family office di Archegos, e la relativa esenzione dalla registrazione, ha sicuramente determinato carenze nella supervisione, non essendo tenuto a fornire alla SEC le comunicazioni periodiche sulla propria attività che avrebbero potuto costituire dei campanelli di allarme sui rischi della gestione.

Per questa ragione l’organizzazione no-profit Americans for Financial Reform, in una lettera del 31 Marzo 2021 al Direttore ad interim della SEC, ha sollecitato una riflessione circa l’opportunità di assoggettare alla registrazione quantomeno quei family offices che gestiscono più di 1 miliardo di dollari, in ragione della potenziale rilevanza sistemica del loro eventuale dissesto.

L’altra questione oggetto di dibattito è il deficit di trasparenza che in ogni caso caratterizza le operazioni con derivati.

Nella normativa vigente, infatti, gli obblighi periodici di comunicazione all’autorità di vigilanza hanno ad oggetto solamente partecipazioni azionarie che conferiscono un diritto di voto, e non strumenti finanziari complessi come i trs. Laddove venga stipulato un contratto di trs, il receiver non acquista la proprietà del sottostante, che rimane nel portafoglio della banca payer, e dunque non è tenuto a comunicare la propria esposizione alla SEC.

Nel caso in esame ogni singola banca payer non era a conoscenza del fatto che Archegos avesse stipulato contratti aventi ad oggetto le medesime azioni con più di un payer, e pertanto ciascuna di esse confidava in una più ampia platea di istituzioni creditizie cui poter cedere all’occorrenza le azioni acquistate. 

La medesima asimmetria informativa ha impedito alle banche di determinare correttamente l’esposizione complessiva di Archegos.

Da questo punto di vista si comprende l’esigenza di introdurre obblighi di comunicazione al mercato delle operazioni con determinate categorie di derivati. 

Nella lettera inviata alla SEC, l’organizzazione no-profit Americans for Financial Reform suggerisce di rendere più frequenti le comunicazioni da parte degli investment advisers registrati e di includervi anche informazioni dettagliate circa le posizioni detenute in derivati sofisticati, quali i trs. Ne conseguirebbe in effetti una riduzione delle asimmetrie informative tra i soggetti del mercato nonché la sottoposizione al vaglio dell’autorità di vigilanza dei rischi che tali operazioni possono presentare per il sistema finanziario nel suo complesso.

Può dunque rilevarsi come, a più di dieci anni dall’entrata in vigore del Dodd-Frank Act, persistano tuttora delle zone d’ombra in grado di minare il raggiungimento dell’obiettivo della trasparenza nelle operazioni finanziarie.

8. La sopravvenienza normativa e la qualificazione della responsabilita’ della pa: “caso fortuito” o “caso fortunato”?

A cura di Giuditta Russo

A seguito della presentazione nel 2009 da parte della società Iris Impianti Energia Rinnovabile Siracusa s.r.l. all’Assessorato regionale di tre distinte istanze di autorizzazione unica per la costruzione e la gestione di altrettanti impianti fotovoltaici, da realizzarsi nel Comune di Siracusa e nonostante i numerosi solleciti di Iris, la Regione rilascia tali provvedimenti solo nel 2013. Nelle more dell’adozione delle autorizzazioni uniche, l’art. 65 d.l.n.1/2012, convertito con modificazioni dalla l.n.27/2012, modifica il previgente meccanismo di incentivazione alle fonti di produzione di energia rinnovabile escludendo, dal 2012, gli impianti come quelli inseriti nel progetto dall’accesso agli incentivi statali. Iris – ai sensi dell’art. 2 bis della l.n.241/1990 – presenta quindi domanda risarcitoria al fine di vedersi ristorare i danni provocati colposamente dall’Amministrazione in seguito all’inosservanza del termine di conclusione del procedimento di autorizzazione unica, formulando detta domanda a titolo di responsabilità extracontrattuale e chiedendo, oltre al danno emergente, anche il lucro cessante, ossia il mancato guadagno derivante dal fatto che il lasso di tempo illegittimamente prolungato dall’Amministrazione prima dell’adozione del provvedimento di autorizzazione unica avrebbe fatto venir meno le condizioni di realizzabilità del progetto, così impedendo a Iris di acquisire, per un ventennio, le utilità patrimoniali connesse ad esso, individuate negli introiti prodotti dal regime incentivante e dalla vendita dell’energia elettrica prodotta. 

Il CGA con sentenza non definitiva n.1136/2020 ha in primis ritenuto ricorrenti gli elementi della fattispecie risarcitoria, ossia la condotta dell’Amministrazione violativa della regola di conclusione del procedimento amministrativo nella tempistica prescritta; la fondatezza della pretesa concernente il bene della vita (come testimoniato dalla adozione, seppur in ritardo, dei provvedimenti autorizzatori); la sopravvenienza normativa ostativa all’ottenimento degli incentivi, che Iris avrebbe ottenuto se l’Amministrazione avesse provveduto per tempo; la colpa dell’Amministrazione, non avendo la stessa invocato nessuna esimente per giustificare il proprio non modesto ritardo nel provvedere. Ha quindi, affermato l’astratta ammissibilità della domanda risarcitoria volta alla liquidazione sia del danno emergente che del lucro cessante, mentre, ritenendo sussistenti ragioni di incertezza in relazione all’applicazione del requisito del nesso di causalità e alla misura e ampiezza del danno da risarcire, che dipendono dalla qualificazione della responsabilità dell’Amministrazione, dalla conseguente applicabilità del canone della prevedibilità di cui all’art. 1225 c.c., e dalla nozione di danno quale conseguenza immediata e diretta della condotta, ha sottoposto – anche per via dei contrasti giurisprudenziali sui punti in esame – all’Adunanza Plenaria diverse questioni e in particolare: se si configuri o meno una interruzione del nesso di causalità se, successivamente all’inerzia dell’Amministrazione di per sé foriera di ledere il solo bene tempo, si verifichi una sopravvenienza normativa che, impedendo al privato di realizzare il progetto al quale l’istanza era preordinata, determini la lesione dell’aspettativa sostanziale sottesa alla domanda presentata all’Amministrazione, che sarebbe stata comunque soddisfatta, nonostante l’intervenuta nuova disciplina, se l’Amministrazione avesse ottemperato per tempo; se il paradigma normativo cui ancorare la responsabilità dell’Amministrazione da provvedimento (ovvero da inerzia e/o ritardo) sia costituito dalla responsabilità contrattuale piuttosto che da quella aquiliana e, in caso di risposta nel senso della natura contrattuale della responsabilità, se la sopravvenienza normativa occorsa intervenga, all’interno della fattispecie risarcitoria, in punto di quantificazione del danno (1223 c.c.) o di prevedibilità del medesimo (1225 c.c.) e se debba o meno essere riconosciuta la responsabilità dell’Amministrazione per il danno anche da mancata vendita dell’energia.  

Di estremo interesse è la ricostruzione operata dal Collegio in ordine alla natura della responsabilità della p.a. per violazione delle regole procedimentali. Il CGA ha, sul punto, infatti espresso la necessità di  modificare il regime consolidato di scrutinio della responsabilità dell’Amministrazione che, sulla scorta delle sentenze gemelle n. 500 e 501 del 1999 delle SSUU e in mancanza di un chiaro indice normativo, ricostruisce in termini di responsabilità aquiliana la responsabilità dell’Amministrazione da provvedimento (ma anche da silenzio e da ritardo dell’Amministrazione) sia con riferimento agli interessi legittimi oppositivi che a quelli pretensivi. Alla luce della ricostruzione della natura della responsabilità in termini extracontrattuali, da un lato, la condanna al risarcimento dell’Amministrazione per lesione dell’interesse legittimo presuppone la positiva verifica di tutti gli elementi che caratterizzano l’illecito aquiliano, ossia l’illegittimità del provvedimento causativo del danno o dell’inerzia, la sussistenza della colpa o del dolo della P.A., la lesione di un interesse tutelato dall’ordinamento, il nesso causale che colleghi la condotta commissiva o omissiva della P.A all’evento dannoso, la sussistenza dei pregiudizi subiti e il nesso che li lega all’evento dannoso e, dall’altro lato, trovano applicazione i criteri di cui all’art. 2056 c.c., e, quindi, in particolare, l’art. 1223 c.c. (recante il criterio di integrale riparazione del danno, lucro cessante e danno emergente), la regola residuale della quantificazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., laddove non sia possibile determinare in modo compiuto l’ammontare dei pregiudizi subiti, e l’art. 1227, co 2 c.c., in punto di concorso colposo del danneggiato, mentre non è applicabile il canone della prevedibilità di cui all’art. 1225 c.c.

Una rivisitazione della natura della responsabilità dell’Amministrazione in termini contrattuali (da contatto sociale qualificato) si deve invece alla Corte di cassazione (Cass. civ., sez. un., 28 aprile 2020, n.8236). Sebbene non sia condivisibile la statuizione della Corte in tema di giurisdizione a favore del G.O. (postulando invece la giurisdizione amministrativa l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo che non viene meno quando la controversia riguarda meri comportamenti, pur sempre riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere) secondo il Collegio, è comunque da condividere l’inquadramento compiuto dalla medesima con riferimento alla qualificazione della responsabilità. 

Le modalità pratiche infatti attraverso le quali vengono scrutinati i requisiti della fattispecie risarcitoria avvicinano la responsabilità della PA alla categoria della responsabilità contrattuale. Il privato danneggiato è invero chiamato a provare il non iure allegando l’inadempimento dell’Amministrazione alla regola procedurale (è poi eventualmente l’Amministrazione a doversi giustificare), e il contra ius dimostrando la sussistenza dell’interesse legittimo e la seria lesione inferta al medesimo, in modo analogo a quanto deve dimostrare il contraente che si assume leso. 

Neppure in ordine all’elemento soggettivo il concreto regime della responsabilità dell’Amministrazione si differenzia in modo sensibile dalla responsabilità contrattuale. In termini generali, il criterio di ascrizione della responsabilità extracontrattuale è tradizionalmente di tipo soggettivo, fondato sulla colpa (seppur normativa). La responsabilità contrattuale, invece, è storicamente caratterizzata da un criterio di tipo oggettivo, fondato sul parametro della possibilità/impossibilità. Entrambe le impostazioni hanno però subito, nel corso del tempo, delle mitigazioni. I criteri di ascrizione della responsabilità civile sono andati diversificandosi, creando un sistema definito a doppio binario fondato su una pluralità di criteri di imputazione delle conseguenze negative della lesione dell’altrui sfera giuridica. La responsabilità da inadempimento dell’obbligazione è attualmente valutata considerando anche l’elemento soggettivo attraverso il combinato disposto degli artt. 1218 e 1176 c.c., che valorizza la negligenza dell’agente. Rileva, inoltre, quale limite ulteriore al riconoscimento della responsabilità, la regola della buona fede di cui all’art. 1175 c.c., che rende inesigibili prestazioni che, benché non impossibili, richiedano un sacrificio per il debitore sensibilmente sproporzionato rispetto alla regolamentazione degli interessi così come delineata nel contratto. Nei settori diversi dalla materia degli appalti (dove l’assimilazione del regime della responsabilità dell’Amministrazione alla responsabilità contrattuale – in conformità con la giurisprudenza della CGUE – non pone particolari problemi, dato che, la giurisprudenza amministrativa ritiene che la responsabilità per danni conseguenti all’illegittima aggiudicazione di appalti pubblici non richieda la prova dell’elemento soggettivo della colpa, coerentemente con l’esigenza di assicurare l’effettività del rimedio risarcitorio) viene utilizzato lo schema tipico della responsabilità extracontrattuale, che richiede, ai fini del riconoscimento del risarcimento dei danni, la dimostrazione, oltre che del danno e del nesso di causalità, della colpa o del dolo. Tuttavia, l’orientamento giurisprudenziale prevalente va nel senso di rinvenire nell’illegittimità del provvedimento il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’Amministrazione. Il privato può, quindi, limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto, mentre spetta alla p.a. dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile. Tale meccanismo imprime una connotazione oggettiva a un requisito per definizione soggettivo quale quello della colpa, secondo un processo logico che non è estraneo alla concezione normativa della colpa, ma neppure alla modalità con la quale è attribuita rilevanza alla diligenza di cui all’art. 1176 c.c. nella definizione della condotta esigibile ai sensi dell’art. 1218 c.c.

La vicinanza fra responsabilità amministrativa e responsabilità contrattuale si apprezza anche nella prospettiva delle modalità di tutela associate alla responsabilità dell’Amministrazione. Mentre nella responsabilità contrattuale la tutela dell’interesse specifico all’adempimento  del debitore è rimessa al creditore, che può scegliere se chiedere l’adempimento o il risarcimento (art. 1453 c.c.), nella responsabilità extracontrattuale, che ha il diverso scopo di mantenere il soggetto indenne dal peso del danno subito, è preclusa al danneggiato la scelta ultima fra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente, subordinata alla valutazione di eccessiva onerosità per il debitore. Sulla base di quanto detto, la protezione riconosciuta al privato di fronte a un danno arrecato al medesimo dall’esercizio (o dal mancato esercizio) del potere pubblico è assimilabile a quella accordata al creditore in caso di inadempimento dell’obbligazione: la giurisprudenza da prevalenza difatti allo svolgimento o alla rinnovazione dell’attività amministrativa rispetto al risarcimento per equivalente laddove ciò si configuri come ancora possibile e, solo in seguito all’accertata impossibilità di provvedere in tal senso, accorda la tutela risarcitoria per equivalente.

Anche in punto di funzione attribuita alla responsabilità dell’Amministrazione, essa si può accostare alla funzione compensativa riconosciuta alla responsabilità contrattuale e presidiata dal divieto di arricchimento piuttosto che alla responsabilità extracontrattuale, cui invece nel vigente ordinamento non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, ma anche una funzione di deterrenza e sanzionatoria. L’Amministrazione, nel rispondere dei danni arrecati al privato, non può che collocarsi nella prospettiva esclusivamente compensativa: un eventuale esborso aggiuntivo di risorse, non diretto a riparare il nocumento economico recato, potrebbe essere sopportato dalla comunità dei contribuente, non essendo assicurata la traslazione nei confronti dei dipendenti pubblici (essendo la loro responsabilità ancorata alla diminuzione patrimoniale subita dal privato e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’operatività del principio riduttivo) e duplicherebbe le tutele già previste dall’ordinamento (dai codici disciplinari, dal sistema penalistico e dalla previsione di una responsabilità amministrativa dei pubblici dipendenti) volte ad esercitare pressione affinché costoro rispettino le regole di condotta, risultando non solo antieconomico ma anche inefficiente, specie considerando che le risorse pubbliche utilizzate per risarcire un danno in funzione punitiva sono contemporaneamente sottratte alla soddisfazione di altri interessi meritevoli di tutela.

Nonostante le formulazioni testuali della disposizione di cui all’art. 2 bis, co 1, della l.n.241/1990, che fa riferimento all’ingiustizia del danno e al dolo o alla colpa dell’inosservanza del termine procedimentale, e della previsione contenuta negli artt. 30 e 133, co 1, lett. a), n. 1) c.p.a. riguardante il risarcimento del danno ingiusto, neanche il dato normativo, sempre in punto di qualificazione della responsabilità, appare dirimente secondo il Collegio. Invero il concetto di danno ingiusto non è proprio solo della responsabilità civile: in entrambi i casi, occorre accertare se vi è stata lesione di un interesse giuridicamente rilevante; questa però – quanto alla responsabilità contrattuale e contrariamente a quanto avviene nella responsabilità aquiliana – non necessita di essere comprovata poiché deriva direttamente dalla mancata esecuzione della prestazione dovuta, la quale concretamente predetermina il canone dell’ingiustizia ai sensi dell’art. 1218 c.c.. Il richiamo invece all’elemento soggettivo dell’inosservanza del termine procedimentale può essere letto come misura del comportamento atteso sul piano oggettivo, non diversamente rispetto all’orientamento che ritiene che la diligenza di cui all’art. 1176 c.c. partecipi a delineare la prestazione dovuta. Né infine può dirsi che il riferimento all’art. 2058 c.c., compiuto dall’art. 30, co 2, c.p.a., imponga di ricondurre la responsabilità all’interno dello schema aquiliano perché il risarcimento in forma specifica è considerato utilizzabile anche nel regime contrattuale, rappresentando una delle possibili modalità di riparazione a un nocumento arrecato. 

Dirimente sul punto sono, secondo il Collegio, le particolarità della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo e del rapporto di diritto pubblico. La responsabilità che grava sull’Amministrazione sorge infatti all’interno di un rapporto obbligatorio già sorto e la cui regolamentazione è già predeterminata mediante regole di condotta al cui rispetto la p.a. è tenuta, previste proprio a tutela della parte privata. Violando le regole dell’azione amministrativa e del provvedimento amministrativo, la parte pubblica ignora norme ben più precise e circostanziate del generico dovere di neminem laedere. Il rapporto che si instaura fra Amministrazione e privato si rivela distante dalla modalità tipica della responsabilità ex art. 2043 c.c., c.d. del passante, emblema del contatto casuale e occasionale, e si connota invece proprio per la sua non episodicità, essendo necessitato dall’infungibilità della prestazione resa dall’Amministrazione (il privato non ha alternative). A differenza infatti del diritto soggettivo, connotato da una corrispondenza fra soggetto portatore dell’interesse e soggetto titolare dei poteri per soddisfarlo, nel rapporto di diritto pubblico gli interessi coinvolti nell’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione trovano solo in quest’ultima la possibilità di venire appagati. 

Aderendo dunque alla qualificazione in termini contrattuali della responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi, conclude il Collegio, ne deriva l’applicabilità del canone della prevedibilità del danno (art. 1225 c.c.), che prevede, salvo che in caso di dolo, la risarcibilità del solo danno prevedibile al momento in cui è sorta l’obbligazione. Essendo la sopravvenienza normativa non imputabile all’Amministrazione regionale, questo potrebbe portare a ritenere il danno da essa prodotto “imprevedibile” ai sensi dell’art. 1225 c.c. Se, invece, si ritiene che la sopravvenienza normativa non sia tale da escludere la risarcibilità del danno, ma rilevi in punto di quantificazione dello stesso (1223 c.c.), questa dovrebbe avere un impatto sul rigoroso scrutinio del danno conseguenza. Il ristoro del dann infatti non potrebbe che arrestarsi al verificarsi di tale factum principis, essendosi di fatto il ritardo dell’Amministrazione risolto nel soddisfacimento in massimo grado dell’interesse (nuovo) fatto proprio dal Legislatore (sfociato appunto nella norma primaria preclusiva alla incentivazione). Tale evento dunque sembrerebbe per certi versi assimilabile – nella posizione dell’Amministrazione inadempiente – non solo ad un caso fortuito, ma addirittura, in un’ottica complessiva e di sistema, ad un “caso fortunato”; altrimenti verrebbe tutelata una posizione contrastante con l’interesse primario come determinato dall’assetto di interessi rinnovato dal Legislatore, che sarebbe controproducente, specie in ragione della scarsità delle risorse pubbliche (che quindi verrebbero indirizzate verso un interesse non più attuale a discapito di esigenze attuali). Corretto sarebbe quindi invece, secondo il CGA, distinguere, a tale proposito, fra il danno da mancata percezione dell’incentivo – da liquidare – e il danno da mancata vendita dell’energia – di cui l’Amministrazione non può invece essere chiamata a rispondere. 

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