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L’interpretazione dei Baker’s factors: è possibile un ritorno al passato?

ANTONIA SALVATO

 

18/02/2018

 

Negli Stati Uniti, così come in altri ordinamenti, le corti e la scienza giuridica riconoscono una categoria di atti dell’esecutivo non sottoponibili ad un controllo giurisdizionale, in ragione di un’applicazione rigorosa del principio di separazione dei poteri, al fine di evitare che il potere giurisdizionale sconfini in prerogative di altri organi.

Tali atti insindacabili, noti come political questions, sono sempre stati oggetto di dibattito, a causa dell’assenza di una previsione costituzionale che definisca espressamente i confini della categoria. Nel tempo, la stessa giurisprudenza, come si evince dalle pronunce con le quali le corti hanno, volta per volta, declinato la propria competenza a decidere una controversia, ha tentato di ricostruire un sistema di riconoscimento di questi atti, spesso difficilmente distinguibili da altri atti dell’esecutivo caratterizzati da un ampio margine di discrezionalità.

La problematica sembrava aver raggiunto un punto di arresto con la soluzione proposta dalla Corte Suprema nel 1962, nella pronuncia relativa al caso Baker v. Carr, nella quale si elencavano sei fattori «individually sufficient and collectively necessary» per configurare la sussistenza di una non-justiciable political question: la sussistenza di una espressa previsione che affidi la gestione di una determinata questione ad un organo politico; l’assenza di standards giurisdizionali fondatamente rinvenibili; l’impossibilità di giudicare senza un’iniziale decisione di natura politica su una materia non espressamente riservata alla giurisdizione; l’impossibilità per la Corte di decidere indipendentemente, senza invadere il terreno riservato agli organi dello Stato cui quella materia è demandata per legge; l’inusuale necessità di aderire pienamente ad una decisione politica antecedente; la possibilità che la Corte non riesca ad imporre la propria posizione in merito ad una questione sulla quale si siano già pronunciati, in maniera variamente composita, diversi organi dello Stato.

Sebbene la Corte non abbia spiegato con precisione come tali indici vadano applicati, a seguito della citata pronuncia si assiste, in ogni caso, ad un ridimensionamento delle ipotesi in cui le corti dichiarano l’assenza di giurisdizione.

La tendenza della giurisprudenza a circoscrivere i casi di insindacabilità (relativamente alla quale si parla di «limited political question doctrine») subisce un’inversione di rotta a seguito di due pronunce della Corte Suprema del 2004 (Republic of Austria v. Altmann e Sosa v. Alvarez-Machain). Viene aperta la strada ad un marcato atteggiamento di deference: i sei c.d. Baker’s factors vengono interpretati in maniera sempre più ampia, al fine di permettere alle corti di non operare alcun controllo, rimettendo, invece, le singole questioni allo stesso potere esecutivo.

Nonostante la dottrina maggioritaria critichi l’operato delle corti ed auspichi un ritorno all’applicazione restrittiva della c.d. dottrina Baker, non mancano recenti pronunce che non sembrano voler inaugurare un “ritorno al passato”.

Nella più recente sentenza registratasi, relativa al problema della political question, nel caso Republic of the Marshall Islands v. United States of America, Donald Trump, Department of Defense, Department of Energy, National Nuclear Security Administration (31 luglio 2017), infatti, la Corte d’appello degli Stati Uniti afferma che, seppur i giudici debbano continuare a valutare la sindacabilità o meno delle questioni caso per caso, vi sono alcune materie, nel caso di specie la politica estera, che sono spesso intrinsecamente politiche, avallando in tal modo la tendenza ad interpretare estensivamente i Baker’s factors.

Nel caso in esame, la Repubblica delle Isole Marshall, a seguito della detonazione della sessantasettesima arma nucleare nel proprio territorio, contestava agli Stati Uniti la violazione degli obblighi derivanti dall’art. VI del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), entrato in vigore il 5 marzo 1970, che sancisce l’impegno di tutte le parti del trattato (gli Stati firmatari) «a concludere in buona fede trattative su misure efficaci per una prossima cessazione della corsa agli armamenti nucleari e per il disarmo nucleare, come pure per un trattato sul disarmo generale e completo sotto stretto ed efficace controllo internazionale», e richiedeva una sentenza dichiarativa volta ad obbligare gli Stati Uniti ad adottare tutte le misure necessarie per il rispetto del TNP. A seguito del respingimento dell’istanza ad opera del tribunale distrettuale, che aveva invocato la political question doctrine, la questione giunge alla Corte d’appello.

Quest’ultima, vista la distinzione tra trattati «autoesecutivi» (che producono automaticamente effetto, pari a quello della legge nazionale e, dunque, possono anche essere applicati dai tribunali) e «non autoesecutivi» (che necessitano di una legge interna di esecuzione), ribadisce la non autoesecutività dell’art. VI del TNP, in quanto rivolto all’esecutivo ed al legislativo e, pertanto, afferma che esso non è suscettibile di essere invocato per rivendicazioni giudiziarie. La Corte, inoltre, per giustificare la non sindacabilità della controversia, richiama i primi due fattori della dottrina Baker.

Il primo fattore prevede che vi sia una disposizione normativa che affida la gestione esclusiva di una determinata questione ad un organo politico. Nel caso specifico, la Corte evidenzia l’esistenza dell’art. II della Costituzione degli Stati Uniti, che affida la materia delle relazioni internazionali al potere legislativo e al potere esecutivo. Quanto al secondo fattore, l’assenza di parametri giurisdizionali che le corti possano impiegare nel giudizio, la Corte fa un generico e semplicistico riferimento alla vaghezza dei termini impiegati nell’art. VI del TNP, senza ulteriori né più approfondite motivazioni.

I Baker’s factors, dunque, non vengono più utilizzati per far fronte all’esigenza originaria di circoscrivere le ipotesi di insindacabilità degli atti dell’esecutivo per garantire l’effettività della tutela degli individui. Essi, al contrario vengono impiegati per permettere alle corti di non giudicare fattispecie “rischiose”: l’applicazione del c.d. deference approach denota la volontà del potere giudiziario di non invadere le competenze dell’esecutivo nemmeno in caso di questioni di dubbia riconduzione alla categoria delle political questions. Si preferisce operare un giudizio non invasivo, che ritenuto maggiormente conforme al principio di separazione dei poteri, anche a scapito dell’effettività della tutela degli individui, che vedono allargarsi la categoria degli atti nei confronti dei quali è sottratta loro la possibilità di adire il giudice.

 

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