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L’INTESA RESTRITTIVA DELLA CONCORRENZA: UNA “FATTISPECIE DI PERICOLO”

17 febbraio 2020

Lorena Madeo

Con la recente sentenza n. 236 del 10 gennaio 2020 il Consiglio di Stato è tornato a pronunciarsi sulle intese restrittive della concorrenza, statuendo che non è in nessun caso consentito agli operatori economici coordinarsi fra loro, al fine di concertare una comune strategia commerciale finalizzata a conseguire una più elevata remunerazione delle prestazioni rese, dovendo gli stessi determinare in maniera autonoma il proprio comportamento sul mercato di riferimento. I giudici di Palazzo Spada hanno, altresì, chiarito che, in quanto fattispecie di “pericolo”, l’intesa restrittiva si perfeziona sin dal momento in cui la condotta posta in essere sia idonea a mettere in pericolo il bene protetto, ossia il valore della concorrenza, a prescindere dall’effettiva realizzazione dell’evento dannoso che la norma mira ad evitare.  

In particolare, la sentenza in esame si è occupata di un provvedimento sanzionatorio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato mediante il quale veniva contestato ad alcune imprese operanti nel settore della somministrazione presso la dimora di pazienti affetti da disturbi respiratori cronici, di ossigeno liquido o di altri gas, di aver posto in essere una intesa restrittiva in violazione dell’art. 101 TFUE, finalizzata a mantenere molto alto il prezzo del servizio. L’intesa si sostanziava, secondo l’AGCM, nel coordinamento delle politiche commerciali delle parti, allo scopo di mantenere artificiosamente elevato il livello dei prezzi dei servizi, anche tramite la concertazione sulle modalità di partecipazione alle procedure di gara. Nello specifico, nell’ambito del procedimento promosso dall’Autorità, venivano in considerazione, tre distinte intese restrittive orizzontali poste in essere in occasione di distinte procedure di gara per l’affidamento dei servizi di ossigenoterapia e/o ventiloterapia domiciliare 

L’Autorità, dopo avere inviato alle parti le risultanze istruttorie del procedimento, aveva adottato una delibera con la quale accertava la sussistenza della predetta intesa tra tutte le parti del procedimento, infliggendo, in particolare, alla ricorrente una ingente sanzione economica per la terza intesa.

Il suddetto provvedimento veniva impugnato con ricorso proposto innanzi al Tar, con cui la ricorrente formulava tre specifiche doglianze:  

– la violazione e falsa applicazione dell’art. 101 del TFUE in ordine alla qualificazione della fattispecie come pratica concordata assistita da elementi di prova esogeni; 

–  che le conclusioni cui era pervenuta l’AGCM erano frutto di una ricostruzione gravemente lacunosa e imprecisa, fondandosi su una inversione del corretto meccanismo logico-giuridico di interpretazione dei fatti e riversando sulle parti l’onere di provare che le condotte parallele riscontrate sul mercato non erano frutto di un coordinamento illecito, bensì di decisioni strategiche unilaterali adottate sulla base di solide e razionali valutazioni economiche;

– la ricorrente, inoltre, asseriva che la condotta posta in essere nell’ambito di tutte e tre le gare oggetto del provvedimento impugnato emesso dall’AGCM fosse stata il frutto di decisioni strategiche unilaterali adottate sulla base di solide e razionali valutazioni economiche. 

Il giudice di prime cure riteneva solo parzialmente fondate le censure proposte e, pertanto, la sentenza veniva appellata dall’impresa al fine di conseguire il totale accoglimento del proprio ricorso originario.  Di contro, si costituiva l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso o, in via gradata, rigettarlo. 

Per quanto di interesse, si rileva che la pronuncia di Consiglio di Stato è di notevole rilievo in quanto fa il punto sia sulla elaborazione giurisprudenziale a proposito della qualificazione di accordi tra imprese in termini di intese restrittive, sia in ordine all’esigenza probatoria per affermarne l’esistenza, ritenendo gli elementi probatori acquisiti idonei ad integrare lo standard probatorio richiesto per poter affermare che la condotta posta in essere dagli operatori sanzionati fosse il frutto di una pratica concordata. 

I Giudici di Palazzo Spada hanno chiarito poi che, per pacifica giurisprudenza, la pratica concordata (vietata dall’art. 101, paragrafo 1, del TFUE e dall’art. 2 della legge 10/10/1990, n. 287) “corrisponde ad una forma di coordinamento fra imprese che, senza essere spinta fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, sostituisce, in modo consapevole, un’espressa collaborazione fra le stesse per sottrarsi ai rischi della concorrenza, con la precisazione che i criteri del coordinamento e della collaborazione, che consentono di definire tale nozione, vanno intesi alla luce dei princìpi in materia di concorrenza, secondo cui ogni operatore economico deve autonomamente determinare la condotta che intende seguire sul mercato: pur non escludendo la suddetta esigenza di autonomia il diritto degli operatori economici di reagire intelligentemente al comportamento noto o presunto dei concorrenti, essa vieta però rigorosamente che fra gli operatori abbiano luogo contatti diretti o indiretti aventi per oggetto o per effetto di creare condizioni di concorrenza non corrispondenti alle condizioni normali del mercato”.  

Con riferimento al piano probatorio, il Consiglio di Stato ha stabilito, invece, che l’accertamento dell’intesa, sempre in base ad un consolidato indirizzo giurisprudenziale, non richiede la prova documentale (o altri elementi probatori fondati su dati estrinseci e formali), atteso che la volontà convergente delle imprese volta alla restrizione della concorrenza può essere idoneamente provata attraverso qualsiasi congruo mezzo. A supporto della propria tesi, il Giudice amministrativo ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, la prova della pratica concordata oltre che documentale può essere indiziaria, purché gli indizi siano gravi, precisi e concordanti, con la precisazione che la circostanza che la prova sia indiretta (o indiziaria) non comporta necessariamente che la stessa abbia una forza probatoria attenuata.

Il Consiglio di Stato ha aggiunto poi che risulta superfluo, ai fini dell’an della responsabilità, indagare quale sia stato il ruolo del singolo aderente all’intesa, essendo  sufficiente anche una condotta meramente passiva, di modo che risponde dell’illecito anche il partecipante che, senza assumere una veste attiva, abbia comunque tratto vantaggio dall’intesa, potendo l’esonero da responsabilità discendere soltanto da un’esplicita dissociazione .

Dunque, dalla sentenza in esame emerge chiaramente che:

a) l’accertamento di un’intesa anticoncorrenziale non richiede che essa risulti da documenti a da altri elementi probatori fondati su dati estrinseci e formali, essendo sufficiente anche una prova indiziaria, purché gli indizi siano gravi, precisi e concordanti; 

b) una volta accertata l’intesa, la responsabilità sussiste indipendentemente dal ruolo in essa avuto dal partecipante e dal vantaggio che il medesimo ne abbia tratto, potendo l’esonero dall’addebito discendere soltanto da un’esplicita dissociazione.

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