Lab-IP

Luci e ombre del “nuovo” diritto di accesso

di Flavio Marzoli

15/04/16

Da diverso tempo si discute in merito alla necessità di introdurre nel nostro ordinamento una normativa analoga a quella prevista dal Freedom of information act statunitense, tesa a estendere il canone della trasparenza amministrativa introdotto dal DLgs n 33/2013. Il confronto sembra aver trovato una sintesi nella riforma della P. A emanata con la legge 7 agosto 2015,_n°124. Prima di analizzare le modifiche che dovrebbero essere introdotte dal legislatore in virtù della riforma della P. A è necessario richiamare l’articolo 5 del Decreto trasparenza, dedicato all’istituto dell’acceso civico, e l’articolo 22 della Legge 241/1990 che codifica il diritto di accesso agli atti amministrativi. L’articolo 5 del decreto trasparenza stabilisce il diritto di chiunque di richiedere documenti, dati o informazioni, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione obbligatoria da parte delle amministrazioni pubbliche. In altri termini l’accesso civico consente di attivare un processo definito friendly citizen control favorendo vere e proprie forme di controllo pubblico sul modo col quale le amministrazioni svolgono le loro funzioni e spendono le loro risorse. L’articolo 22 della Legge 241/1990, oltre agli obblighi di pubblicazione imposti dal decreto, riconosce a coloro che possono vantare un interesse specifico, concreto e attuale nel procedimento amministrativo il diritto di prendere visione e di estrarre copia dei documenti amministrativi. L’accesso civico e il diritto di accesso, come spiegato dall’autorità nazionale anticorruzione attraverso frequently asked questions (FAQ), costituiscono due diverse tipologie di accesso. Le modifiche che dovrebbero essere introdotte dal legislatore ai sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n 124, contenute nello schema di decreto legislativo recante la revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione alla corruzione e trasparenza, sintetizzano i due istituti. L’articolo 4 del suddetto schema di decreto legislativo difatti dispone che: << chiunque ha il diritto di conoscere non soltanto i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria, ma anche quelli oggetto del diritto di accesso>>. L’esercizio del nuovo diritto di accesso non è quindi sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione del richiedente. Di conseguenza l’istanza di accesso non dovrà essere supportata da alcuna motivazione specifica ponendo la pubblica amministrazione nell’impossibilità di respingere un’istanza di accesso in ragione dell’assenza di legittimazione attiva da parte del richiedente (se non relativamente alle ipotesi di segreto o di divieto alla divulgazione). Di contraltare è codificato per il richiedente l’obbligo di presentare un’istanza che identifichi chiaramente i dati richiesti. La differenza di approccio con riguardo alle passate metodologie di accesso è dunque netta. L’intento di realizzare un Foia italiano trova il punto di rottura in una serie ulteriore d’innovazioni previste dallo schema di decreto legislativo recante la revisione e la semplificazione delle disposizioni in materia di trasparenza e di prevenzione alla corruzione. Il testo delle disposizioni previsto dalla legge di riforma delle P. A non compie alcun riferimento alla tutela dei dati personali (dunque alla disciplina dettata dal Dlgs 30 giugno 2003, n 196) se non alla seguente disposizione. L’articolo 4 al 3 comma dispone che:<< L’amministrazione cui è indirizzata l’istanza d accesso, se individua soggetti contro-interessati, è tenuta a dar loro comunicazione affinché questi possano presentare opposizione motivata entro 10 giorni. Sono contro-interessati solo coloro che dall’accesso vedrebbero compresso il loro diritto alla riservatezza>>. Si tratta di una svista significativa giacché il bilanciamento tra la privacy e il diritto all’informazione costituisce uno dei principali problemi di un ordinamento trasparente come dimostra l’adozione del Privacy Act nel 1977. Il Privacy Act è un emendamento apportato al FOIA statunitense nella prospettiva di contemperare il diritto di accesso incondizionato ai documenti governativi con la tutela della privacy e della riservatezza dei cittadini coinvolti. Le criticità evidenziate nel parere offerto dal Consiglio di Stato riguardano anche ulteriori previsioni. È stata criticata la scelta di fissare nel termine di trenta giorni l’obbligo per la P. A di provvedere all’istanza di accesso. Si tratta di un termine iniquo dal momento che entro i trenta giorni previsti l’amministrazione dovrà: (I) Valutare l’assenza di limiti al diritto d’informazione dei cittadini (esempio : sicurezza nazionale); (II) individuare soggetti contro-interessati dando loro comunicazione dell’istanza consentendogli la possibilità di presentare opposizione motivata nel termine di 10 giorni dalla comunicazione; (III) trasmettere al richiedente i dati richiesti o pubblicarli sul sito nel caso in cui non sia stato ottemperato un obbligo di pubblicazione da parte della P. A (comunicando l’avvenuta pubblicazione); (IV) decorsi inutilmente 30 giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. Si introduce quindi l’istituto del silenzio-rigetto come istituto di regolazione delle istanze di accesso. È facile immaginare come nella grande maggioranza dei casi l’esito delle istanze sarà questo. Si registra dunque un passo indietro rispetto alla sopracitata legge 241/1990 che, seppur subordinasse l’accesso ad un interesse specifico, almeno imponeva l’obbligo di motivazione della P. A in caso di diniego. Problemi si riscontrano anche in relazione alla possibilità di proporre ricorso avverso il diniego all’istanza di accesso.

La normativa prevede l’obbligo di ricorrere al TAR con procedure accelerate potendo contare su sentenze in forma semplificata (articolo 116 DLgs. 104/2010 del codice del processo amministrativo). Il ricorso tuttavia è compiuto senza conoscere il motivo del diniego costituendo nei fatti per il ricorrente un vero e proprio salto nel buio. Il ricorso, oltre ad essere “rischioso” in termini di realizzazione per il ricorrente, è anche eccessivamente oneroso. In caso di opposizione al diniego, difatti, oltre al rimborso dei costi sostenuti dall’amministrazione nell’analizzare la richiesta di accesso, il ricorrente dovrà pagare il contributo unico unificato pari a 300 euro. Il diritto di accesso, dunque, nello schema di decreto legislativo ora analizzato è un diritto sostanzialmente a pagamento come asserito dal Consiglio di Stato.

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