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New climate road map: cooperazione mondiale vs. riscaldamento globale.

di Marta Murino

09/06/16

Numerosi studi scientifici[1] dimostrano che il fenomeno dei cambiamenti climatici è tanto attuale quanto potenzialmente pericoloso. Parte rilevante di tali cambiamenti è indotta da attività svolte dall’uomo che determinano l’emissione di gas a effetto serra[2]. Come riportato dall’European Environmental Agency, l’aumento ti tali gas è all’origine degli eventi climatici estremi a cui stiamo assistendo, in grado di determinare impatti rilevanti sulla natura, sull’economia e sulla salute dell’uomo. Impatti che, in prospettiva sovranazionale, variano a seconda delle regioni, dei territori e dei settori economici in Europa e nel mondo. Il problema ha evidentemente natura globale e per affrontarlo, a partire dalla United Nation Framework Convention on Climate Change del 1992, si è lavorato alla predisposizione di un piano di lunga durata. Si è così giunti alle trattative aperte a Durban nel 2011 per la stipulazione di un Accordo di portata planetaria che hanno condotto, nel Dicembre 2015, i delegati di 195 Paesi partecipanti alla Conferenza mondiale sul clima, a dichiarare impegni nazionali di riduzione delle emissioni. A fronte degli impegni assunti, il 22 Aprile 2016 (Earth Day) 175 Paesi hanno ufficialmente sottoscritto l’Accordo di Parigi, stipulando un patto che consente la verifica periodica degli impegni presi. Basandosi sull’idea che l’unica forma di “sviluppo” possibile è quello sostenibile[3], tale Accordo entrerà in vigore quando sarà sottoscritto da un numero di Paesi che rappresenta almeno il 55% delle emissioni globali di gas serra. Nonostante molti facciano ancora riferimento al 2020 come anno indicativo di entrata in vigore dello stesso, la Casa Bianca si è espressa in termini diversi sottolineando che 34 paesi che rappresentano il 49% delle emissioni globali di gas climalteranti ha ratificato o ha dichiarato che ratificherà entro il 2016.

Meccanismi di rilancio e impatti diretti in molti settori economici, sulla società e sui rapporti geo-politici tra le nazioni, Italia inclusa… ma quali sono gli effetti concreti dell’Accordo di Parigi ad oggi prevedibili?

La stipulazione di questo accordo formalizza una cooperazione mondiale in materia ambientale atta a garantire uno sviluppo economico sostenibile, con la creazione di opportunità di nuovi investimenti, di innovazione, di nuova occupazione e di sviluppo di una green economy. Da un lato esso comporterà una diminuzione nell’impiego di fonti fossili, dall’altro implicherà un potenziamento radicale nell’impiego di fonti rinnovabili, con conseguenti investimenti nel settore dell’eco-innovazione. A differenza di un Trattato internazionale[4], l’Accordo di Parigi mette insieme Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo alla luce di impegni definiti, gestiti e attuati sul piano nazionale e comunicati e verificati a livello globale, con il supporto di strumenti di analisi, di supporto tecnico, di gestione e di cooperazione. Tale accordo, che tra i suoi punti fondamentali prevede il versamento di 100 MILIARDI di dollari ogni anno ai Paesi più poveri per garantire lo sviluppo di fonti di energia meno inquinanti, è stato accompagnato dall’approvazione del c.d. “Documento di Decisione”, proposto dal Presidente della COP 21[5]. Questo Documento contiene la decisione di adottare l’accordo stesso, unita ad una serie di indicazioni sugli organismi, sulle modalità di gestione e sugli impegni di riduzione che di adattamento. Nonostante abbia grandissima importanza non sarà, al pari dell’Accordo stesso, sottoposto a ratifica, accettazione, approvazione o adesione degli Stati e, di conseguenza, avrà formalmente e sostanzialmente un diverso peso politico. Due documenti, un’unica rotta: garantire alla comunità umana, a fronte di un impegno comune e solidale, lo sviluppo di alti livelli di resilienza ai cambi climatici.

Questo complesso sistema potrebbe costituire un interessante esperimento di “governance globale”, innovativo e rischioso allo stesso tempo. Innovativo, perché permette alle Parti contraenti di raggiungere i macro-obiettivi fissati all’interno dell’Accordo secondo gli strumenti a loro giudizio più efficaci, prevedendo, come detto, un sistema di aiuti e sovvenzioni ai Paesi in via di sviluppo. Rischioso perché contempla solo interventi ex post, in fase di verificazione e di controlli su scala globale, non potendo così garantire azioni tempestive atte a fronteggiare i cambiamenti climatici. Rischio che aumenta se si considerano tre ulteriori fattori non sottovalutabili: nel computo complessivo delle emissioni non sono prese in considerazione quelle che fuoriescono in aree internazionali (spazio aereo internazionale e nelle acque internazionali); dietro forte spinta delle economie emergenti, a controllare che ciascun Paese rispetti le proprie quote di emissione non saranno degli organismi internazionali super partes, ma sarà attuato un sistema di auto-certificazione da parte di ciascun contraente; last but not least, la prima revisione degli obiettivi nazionali sulla quantità di emissioni è stata fissata nell’arco del periodo 2018-2023, altri otto lunghi anni durante i quali un cambio di rotta sarà, sostanzialmente, solo formale.

Nonostante questi dubbi, l’Accordo di Parigi è stato aperto alla firma e soggetto a ratifica, accettazione o approvazione da parte degli Stati e delle organizzazioni d’integrazione economica regionale che risultano Parti contraenti della Convenzione. L’Italia lo ha fin da subito sottoscritto, ma non ha ancora avviato le procedure di ratifica. Con la recente presentazione dell’Italy Climate Report 2016[6] sono state fornite una serie di proposte che permettono di riflettere concretamente sulla capacità del nostro Paese di centrare gli obiettivi europei in materia di emissioni, di efficienza energetica e di rinnovabili. Proprio nell’ottica di garantire una nuova strategia energetica all’Italia che permetta di centrare gli obiettivi posti dall’Accordo di Parigi, sembrerebbe necessaria una riforma della fiscalità in chiave ecologica attraverso l’eventuale introduzione di una carbon tax. Tra le principali direttrici da prendere in considerazione spiccano: l’eventuale introduzione di un sistema di carbon pricing che riconosca i costi effettivi dei combustibili fossili e consenta di incentivare le fonti rinnovabili senza pesare sulle bollette dei cittadini; la rivisitazione degli strumenti a sostegno dell’efficienza energetica al fine di favorire interventi di natura strutturale ad alta efficacia; l’attuazione di politiche concrete per lo sviluppo di una mobilità sostenibile, dando priorità di intervento alle aree urbane.

…Non sarà che attraverso azioni concrete la rotta rischia di cambiare sul serio? Nel frattempo, come suggerito dal Premier italiano al momento della sottoscrizione, “chiudiamo gli occhi e sentiamoci in compagnia dei nostri figli e dei nostri nipoti”.

[1] “Consensus on consensus: a synthesis of consensus estimates on human-caused global warming”. pubblicato su  Environmental Research Letters da un team internazionale di ricercatori guidato dalla Michigan Technological University, conferma che il 97% degli scienziati climatici concordano sul fatto che il cambiamento climatico è causato dagli esseri umani. Sarah Green, Professoressa di chimica alla Michigan Technological University, dichiara «La cosa importante è che questo non è solo uno studio, è il consenso di molteplici studi».

[2] Le principali fonti di gas a effetto serra generati dall’uomo sono: la combustione di carburanti fossili (carbone, petrolio e gas) nella produzione di energia, nel trasporto, nell’industria e nell’uso domestico (CO2); l’agricoltura (CH4) e le modifiche della destinazione dei suoli come la deforestazione (CO2); la messa a discarica dei rifiuti (CH4); l’utilizzo dei gas fluorurati di origine industriale.

[3] L’Accordo costituisce un tassello chiave dell’Obiettivo 13 (Azione sul clima – Lottare con urgenza contro il cambiamento climatico ed i suoi impatti) degli Obiettivi universali di sviluppo sostenibile, approvati il 25 settembre 2015, nell’ottica di quello che già il Brundtland Report  definiva come “development that meets the needs and aspirations of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs”.

[4] Il Trattato internazionale è per sua natura vincolante negli obiettivi per i Paesi che lo sottoscrivono, prevede misure per raggiungere gli stessi e sanzioni per chi non li rispetta.

[5] La Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, COP 21 o CMP 11 si è tenuta a Parigi, Francia, dal 30 novembre al 12 dicembre del 2015.

[6] Climate Report 2016 elaborato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile.

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