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EU-Cina CAI: l’accordo sugli investimenti tra l’Unione e il Dragone

Tommaso Di Prospero

26/03/2021

L’Unione Europea e la Repubblica Popolare Cinese hanno annunciato lo scorso 30 dicembre 2020 di aver concluso le negoziazioni sul Comprehensive Agreement on Investments (CAI), che istituisce un accordo unico sulla disciplina degli investimenti diretti esteri tra le due parti. L’accordo rientra tra le competenze esclusive dell’Unione Europea ai sensi dell’articolo 207 TFUE introdotto con il Trattato di Lisbona, e sostituirà integralmente la disciplina dei ventisei Bilateral Investment Treaties (BITs) conclusi tra gli Stati membri e la Cina. Ad oggi non è ancora disponibile il testo definitivo che dovrà essere sottoposto all’approvazione del Consiglio europeo e del Parlamento europeo, ma la Commissione ha rilasciato in data 22 gennaio 2021 il testo integrante i Principi del CAI che saranno oggetto dell’accordo conclusivo. La normativa si basa sui pilastri dell’accesso al mercato, della tutela della concorrenza, sull’attenzione ai temi di sviluppo sostenibile, salute e lavoro, e della risoluzione delle controversie. La Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato che, dopo sette anni di negoziazione, il CAI garantirà «un accesso al mercato cinese per gli investitori europei senza precedenti». Alla sezione I della bozza, infatti, le parti confermano il rispetto per gli impegni assunti sotto il WTO e, soprattutto, assumono l’impegno di creare un clima più favorevole per la facilitazione e lo sviluppo degli scambi commerciali e degli investimenti.

Focalizzando l’attenzione sulle misure di reciprocità nell’accesso al mercato contenute nella sezione II della bozza (“Liberalisation of Investments”), il CAI definisce, secondo quanto emerso sinora, quali settori saranno oggetto di interesse per l’apertura agli investimenti. Rientreranno tra questi il settore dell’industria automobilistica, delle telecomunicazioni, della sanità privata e dei servizi finanziari, immobiliari e di spedizione. Questo permetterà agli investitori europei che investano in tali settori di bypassare il meccanismo di controllo sulle acquisizioni sul mercato cinese. Tale meccanismo imponeva all’investitore estero l’utilizzo di specifici business veichles come la costituzione di una joint venture con una azienda del luogo per essere riconosciuti dal diritto cinese. Nonostante la elencazione positiva dei settori “aperti” con il nuovo CAI, rimangono valide le limitazioni della negative list che la Cina rilascia dal 2017 su base pressoché annuale e che indica i settori preclusi agli investitori esteri. Occorre notare come questa apertura agli investimenti in diversi settori sia in un certo qual senso contrastante con la recente stretta introdotta dal Regolamento UE n. 452/2019, che istituisce un quadro europeo sullo screening degli investimenti diretti esteri. La bozza del CAI rimanda ad un’appendice ancora non pubblicata la disciplina dei termini, limitazioni e condizioni a cui gli investimenti regolati dal CAI saranno sottoposti, che sicuramente dovrà assurgere al non agile compito di coordinamento con i meccanismi di screening di entrambe le parti. Per il momento, la bozza del CAI recita laconicamente, alla sezione VI (“Institutional and Final Provisions”), articolo 10 (“Security Exception”), lettera b, che nulla preclude alle parti di adottare provvedimenti ritenuti necessari per la protezione dei propri interessi essenziali di sicurezza.

Per quanto riguarda il secondo pilastro, ossia la parità delle condizioni per tutti gli operatori di mercato, vi sono alcuni profili da segnalare. Le parti hanno infatti assunto impegni che dovrebbero portare concreti benefici per gli investitori europei nella Repubblica Popolare Cinese. Alla sezione II, articolo 3 (“Performance Requirements”), paragrafi 1 e 2 della bozza, viene indicato il divieto di trasferire forzatamente o in ogni modo fare uso delle tecnologie di proprietà degli investitori esteri. Con riferimento le società a partecipazione statale l’articolo 3 bis (“Covered Entities”), paragrafo 3 nella sezione II della bozza statuisce il rispetto del principio di non discriminazione assunto dalle parti. Più specificamente, si richiede alle sopracitate imprese con partecipazione pubblica di applicare, nell’acquisto e nella vendita di beni o servizi, condizioni non discriminanti verso gli investitori esteri rispetto a quelle applicate agli operatori economici locali. Da notare il criterio più ampio rispetto alla disciplina del WTO, che non prevede l’estensione del principio di non discriminazione ai servizi. Allo stesso tempo, il successivo paragrafo 4 indica gli impegni relativi al rispetto del principio di trasparenza. I soggetti che riterranno che i propri interessi siano stati violati dall’attività di una società partecipata dallo Stato target di investimenti, potranno richiedere in forma scritta una serie di informazioni allo stesso Stato, tra cui: la misura di partecipazione statale nella stessa società, inclusi particolari diritti di voto; la presenza o meno di speciali esenzioni o immunità sotto la legge dello Stato che detiene le partecipazioni; l’indicazione delle autorità e dipartimenti governativi che esercitano funzioni di direzione della società. Rimane senza disciplina l’annoso problema (riferibile alla Cina) della disciplina sui sussidi di Stato, sicuramente di rilevanza nel contesto del libero mercato e di reciproci investimenti e ampiamente segnalato dalla letteratura giuridico-economica.

Successivamente, la sezione IV (“Investment and sustainable development”), tratta gli standard in materia di lavoro, sostenibilità, e Corporate Social Responsibility, di su cui le parti si impegnano a condividere una politica comune. Rileva qui notare solo la promessa della Cina di ratificare le convenzioni della Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) sul lavoro forzato e in generale sui diritti dei lavoratori, tuttavia lasciata senza data di scadenza sulla loro firma.

Rimane il pilastro più spinoso di questo accordo sugli investimenti, ossia la tutela degli investimenti e la risoluzione delle controversie derivanti dagli stessi. Questo perché, ad oggi, non esiste ancora in bozza un accordo conclusivo su quale debbano essere i meccanismi di tutela degli investimenti e soprattutto il tribunale (arbitrale o meno) competente per la risoluzione delle controversie. La bozza dell’accordo indica solo che tali questioni continueranno ad essere oggetto di negoziazione tra le parti, stabilendo un limite massimo di due anni dalla firma del CAI per la conclusione delle trattative. Questo ritardo cruciale per la buona riuscita dell’accordo ricalca quanto già avvenuto con l’intesa tra UE e Giappone, nel quale la protezione degli investimenti era stata posticipata a un momento successivo. Sarà però di fondamentale importanza per gli investitori europei determinare il sistema di risoluzione delle controversie, in un paese dove il rispetto dei principi sul giusto processo rimane quantomeno dubbio. Ciò che ci si chiede è se si instaurerà un sistema tradizionale di arbitrato per la risoluzione delle controversie ISDS o si seguirà la linea degli ultimi accordi di investimento dell’Unione Europea come il CETA, con il sistema di stampo europeo denominato Investment Court System (ICS) e già applicato in altri BITs con l’Unione Europea. Sarebbe un interessante passo verso l’affermazione di una corte centralizzata per gli investitori che volessero accedere al mercato dell’Unione, ma rimane incerto il peso che quest’ultima riuscirà ad esercitare in sede di contrattazione con un partner così imponente.

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