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I “fallimenti” dell’intervento statale nell’amministrazione locale

di Benedetta Barmann

10/02/16

In presenza di quali presupposti lo Stato dovrebbe intervenire per gestire crisi a livello locale? È questo l’interrogativo dal quale muove un recente articolo del New York Times dal titolo “When State control damages a city”.

L’articolo prende le mosse dalla convocazione dinanzi ad un commissione parlamentare di alcuni funzionari dello stato del Michigan e della Environmental Protection Agency (c.d. EPA), chiamati a rispondere della cosiddetta Flint’s crisis, consistita nell’avvelenamento dell’acqua potabile della città a seguito della decisione di alcuni funzionari governativi di cambiarne la fonte. Questa decisione è stata, tuttavia, ispirata alla politica del money – saving, la quale ha portato a gravi infiltrazioni di piombo nell’acqua con conseguente avvelenamento.

Sempre dal Michigan, in particolare da Detroit, viene un ulteriore esempio di mala gestio che questa volta ha interessato il sistema scolastico: qui, a partire dal 2009, si sono succeduti vari funzionari statali con il compito di risanare il debito; il loro operato ha tuttavia portato a risultati esattamente opposti: non solo il debito è incrementato, ma le iscrizioni sono calate e le strutture sono divenute sempre più fatiscenti.

Gli interventi statali non portano, tuttavia, sempre ad esiti infausti: basti ricordare l’esempio virtuoso delle città di New York e Washington in cui, rispettivamente nel 1975 e nel 1995, i governi statali hanno deciso di insediare una commissione per il controllo finanziario, i cui componenti sono stati dotati di poteri di veto ed hanno contribuito con il governo locale al risanamento dei debiti.

L’intervento statale è allora auspicabile quando eventuali situazioni di crisi e di emergenza non possono essere adeguatamente affrontate a livello locale. Affinché, tuttavia, l’intervento porti a risultati positivi è necessario, anzitutto, che i soggetti nominati dal governo siano dotati dell’expertise adeguata in relazione al tipo di crisi da affrontare; in secondo luogo, che gli stessi si inseriscano nell’amministrazione locale non come “dictators”, ma in funzione collaborativa. Una delle ragioni che hanno portato ai fallimenti di Flint e Detroit deriva proprio dalla circostanza che i manager insediati non solo erano dotati di scarsa competenza ma, altresì, hanno agito senza tenere in considerazione i suggerimenti e le rimostranze della comunità locale.

L’intervento dello Stato a livello locale non costituisce una prerogativa esclusivamente statunitense. Anche nel nostro ordinamento è possibile riscontrare vari esempi di tale modus operandi.

A livello costituzionale l’art. 120, comma 2, prevede il potere sostitutivo del Governo, che può essere esercitato in situazioni connotate da una particolare eccezionalità, come il mancato rispetto da parte degli Enti locali di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria o ancora in caso di grave pericolo per l’incolumità e la sicurezza pubblica e, in generale, in tutti quei casi in cui l’intervento è reso necessario da esigenze legate alla tutela dell’unità giuridica o economica dello Stato.

Analogamente a quanto avviene negli Stati Uniti, dunque, il potere di intervento è esercitabile in presenza di circostanze eccezionali che l’amministrazione locale non è in grado di affrontare da sola.

Sono particolarmente numerosi, tuttavia, i casi di intervento statale determinato da “fallimenti” e disfunzioni delle amministrazioni territoriali. In queste situazioni, normalmente, il Governo nomina un commissario straordinario con poteri sostitutivi e/o di coordinamento per superare la crisi: a titolo esemplificativo si ricordi la nomina di un commissario straordinario per gestire il caso Bisagno; il commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania; il recente commissariamento di Roma Capitale che, peraltro, costituisce una fattispecie del tutto peculiare in quanto si colloca al di fuori dei casi di commissariamento a seguito di scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa di cui all’art. 141 del D.lgs. n. 267/2000.

Occorre, tuttavia, sottolineare come, specie negli ultimi tempi, i commissariamenti stiano progressivamente perdendo il carattere della straordinarietà: la gestione “commissariale” della Pubblica Amministrazione è, difatti, una prassi semi – istituzionalizzata. Ma soprattutto l’intervento statale si verifica sempre più spesso in casi che, in linea di principio, l’amministrazione locale dovrebbe affrontare “da sola”.

Questa circostanza porta a delle considerazioni ulteriori rispetto a quelle evidenziate nell’articolo del New York Times. Il problema dell’intervento statale a livello locale non riguarda più soltanto le modalità e le condizioni attraverso cui lo stesso debba essere attuato; occorre, invece, chiedersi perché c’è così tanto bisogno di commissari straordinari. I numerosi commissariamenti, infatti, denotano l’esistenza di gravi disfunzioni dell’apparato amministrativo, determinate essenzialmente dall’assenza di una cultura manageriale e, quindi, di capacità gestionali. Se invece questi evidenziati aspetti fossero affrontati e risolti, probabilmente sarebbe la stessa Amministrazione a poter far fronte, da sola, a situazioni emergenziali e la figura del commissario riacquisterebbe il suo carattere straordinario.

Qui, invece, l’articolo del New York Times.

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