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LA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UE RICONOSCE IL DIRITTO AL SILENZIO NEI PROCEDIMENTI SANZIONATORI DI COMPETENZA DELLA CONSOB.

Roberto Macchia e Luciano Vitali

22/02/2021

Lo scorso 2 Febbraio 2021, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, riunita in Grande Sezione, ha riconosciuto l’esistenza, in capo alle persone fisiche, di un diritto al silenzio, tutelato dagli articoli 47, comma 2, e 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), nell’ambito dei procedimenti innanzi alla Consob per gli illeciti amministrativi di abuso di mercato.

Tale pronuncia giunge al termine di un lungo iter giudiziario, nel corso del quale sono stata avanzati dei dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies T.U.F. nella parte in cui sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della Consob ovvero nel ritardare l’esercizio delle funzioni di vigilanza della stessa Autorità, anche nei confronti di colui al quale la medesima Consob, nell’esercizio delle citate funzioni, contesti un abuso di informazioni privilegiate. Sul punto, la Corte costituzionale (adita dalla Corte di Cassazione) osserva preliminarmente come l’art. 187-quinquiesdecies sia stato introdotto nell’ordinamento italiano in attuazione della Dir. 2003/6/CE (la cui relativa disciplina è confluita nel Reg. UE n. 596/2014).  Tale normativa, difatti, imponeva agli Stati Membri di sanzionare il silenzio serbato nel corso delle indagini delle Autorità di vigilanza sui mercati finanziari (in particolare in sede di audizione) dal soggetto autore di operazioni che integrano illeciti sanzionabili. 

Con riferimento specifico ai dubbi di legittimità costituzionale di una tale normativa, la Consulta rileva come una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecises possa risultare “in contrasto con il diritto dell’Unione, nel caso in cui le suddette disposizioni del diritto derivato dell’Unione dovessero essere intese nel senso che impongono agli Stati membri di sanzionare il silenzio osservato, nell’ambito di un’audizione dinanzi all’autorità competente, da una persona sospettata di abuso di informazioni privilegiate”.

In virtù di tali considerazioni, la Corte ha conseguentemente rimesso alla Corte di Giustizia dell’UE le seguenti questioni pregiudiziali: in primo luogo, se l’articolo 14, paragrafo 3, della Direttiva 2003/6/CE, in quanto applicabile ratione temporis, e l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del Regolamento n. 596/2014, debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuta di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”; ed in secondo luogo, in caso di risposta negativa a tale prima questione, se l’articolo 14, paragrafo 3, della Direttiva 2003/6/CE, (e quindi 

l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del Regolamento n. 596/2014) sia compatibile con gli articoli 47 e 48 CDFUE, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU in merito all’art. 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nella misura in cui impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’Autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”.

La Corte di Giustizia dopo aver affermato la ricevibilità delle questioni sottopostele, analizza in un primo momento la portata degli art. 47 e 48 CDFUE per affermare la vigenza, nel territorio dell’Unione, dell’art. 6 CEDU. Infatti, affermano i giudici di Lussemburgo, sebbene la Convenzione non costituisca uno strumento giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione, ai sensi dell’art. 6, par. 3 TUE i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU fanno parte integrante del diritto dell’Unione in quanto principi generali. Inoltre, ai sensi dell’art. 53, par. 3 CDFUE, tali diritti hanno un significato ed una portata identici a quelli attribuiti agli stessi dalla Convenzione. Gli artt. 47 e 48 CDFUE, come interpretati dalla giurisprudenza della stessa Corte, corrispondono rispettivamente all’art. 6, par. 1 CEDU e all’art. 6, parr. 2 e 3 CEDU, derivandone la necessità di un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte EDU in merito alle citate disposizioni.

Successivamente la Corte passa in rassegna l’applicabilità del c.d. diritto al silenzio nei procedimenti dinanzi all’Autorità amministrativa che sono suscettibili di sfociare nell’irrogazione di sanzioni amministrative aventi natura sostanzialmente penale, rammentando come sia il giudice a dover valutare i requisiti in presenza dei quali tutelare il diritto al silenzio. 

La Corte ricorda, altresì, come tanto la Corte EDU quanto la CGUE, nella loro giurisprudenza precedente, siano giunte a ritenere come alcune delle sanzioni amministrative inflitte dalla CONSOB paiono perseguire finalità repressiva e presentare un alto grado di severità, circostanza che quindi consentirebbe il riconoscimento del diritto in questione. Tuttavia, pur riconoscendo la sussistenza del diritto al silenzio, la Corte di Giustizia coglie l’occasione per affermarne i limiti, riconoscendo che l’esercizio di tale diritto non può “giustificare qualsiasi omessa collaborazione con le autorità competenti, qual è il caso di un rifiuto di presentarsi ad un’audizione prevista da tali autorità o di manovre dilatorie miranti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa”.

Dopo aver affermato quanto precede, la Corte di Giustizia si concentra sulla possibilità di individuare una lettura delle disposizioni ex art. 14, par. 3 della Dir. 2003/6/CE e dell’art. 30, par. 1, lett. b) del Reg. UE n. 596/2014 conforme al diritto al silenzio, “nel senso che esse non impongono di sanzionare una persona fisica per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente a titolo della direttiva summenzionata o del regolamento sopra citato risposte da cui potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative a carattere penale oppure la sua responsabilità penale”. In tale ottica, dopo essersi richiamata al principio secondo cui il diritto derivato dell’UE deve essere interpretato in conformità con l’insieme del diritto primario, la Corte afferma che “tanto l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 quanto l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 si prestano ad una interpretazione conforme agli articoli 47 e 48 della Carta, in virtù della quale 

essi non impongono che una persona fisica venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente risposte da cui potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale”. Attraverso una tale lettura delle disposizioni in discorso, si deve dunque escludere un contrasto con gli artt. 47 e 48 CDFUE per il solo fatto che esse non escludono espressamente l’inflizione di una sanzione per un tale rifiuto.

La pronuncia si colloca nel percorso di estensione delle garanzie tipiche del procedimento penale al procedimento amministrativo sanzionatorio, ampliando le garanzie nei confronti dei soggetti sottoposti alla vigilanza della Consob e riconoscendo loro il diritto a non auto-incriminarsi, pur con l’importante limite, affermato dalla Corte di Giustizia, consistente nel divieto, nell’esercizio di tale diritto, di omettere qualsiasi forma di collaborazione con l’Autorità provocando una dilatazione dei termini del procedimento.

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