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La riforma della Federal Reserve: uno stimolo per l’Europa?

 

 

Il New York Times restituisce nuova luce al dibattito sulle istituzioni del sistema bancario.

Un articolo sul Federal Reserve System (To Fix the Fed, Simplify It, disponibile a questo indirizzo) è l’occasione per riflettere sull’assetto di governo del settore.

Il Fed è soggetto a critiche di ogni orientamento politico: a destra denunciano la scarsa incisività delle decisioni, che sposano una prospettiva inflazionistica priva di una solida base teorica; a sinistra, la ‘morbidezza’ nei confronti delle banche regolate.

Nello scenario attuale – in cui continua a parlarsi di crisi finanziaria, e dei suoi effetti – il problema centrale è quello di una forma di governance considerata ancora farraginosa. E, dunque, da semplificare. Non senza rafforzarne, parallelamente, il carattere pubblico e l’accountability, perni di una riforma tesa a una modifica strutturale della Fed che ne migliori le funzioni e, soprattutto, ne avvicini l’esercizio alle esigenze della collettività.

L’Autore dell’articolo, il Prof. Peter Conti-Brown (che insegna diritto ed etica del business alla Wharton School della University of Pennsylvania), da un lato sollecita l’attenzione sull’esigenza di superare l’originario impianto di ‘segretezza’ – conferito al Fed al momento della sua istituzione, nel 1913, avvenuta ad opera del Presidente Wilson. In questo, supera l’opinione della Chairwoman Janet L. Yellen, per la quale “[t]he Fed is already transparent, and subjecting it to ever-greater Congressional scrutiny will only interfere with the institution’s role as a neutral overseer of the economy”.

Dall’altro lato, Conti-Brown ritiene che il potere legislativo, ossia il Congresso, dovrebbe attribuire al Board of Governors il potere di nomina e di revoca dei presidenti delle dodici Reserve Bank locali. Questi ultimi, introdotti da Wilson e riformati da Roosvelt nel 1935 con il Bank Act, sono diventati un fattore di confusione, in quanto non contribuiscono a chiarire a chi adotta effettivamente le decisioni. È vero che Roosevelt rese il “Board of Governors” effettivamente responsabile dinanzi alla collettività (in ordine all’autorità esercitata dal Fed), ma con il tempo la situazione è diventata fumosa. Un maggiore equilibrio tra ‘centro e periferia’ dovrebbe dunque sanare questa situazione; i dodici uffici regionali, in quest’ottica, “would then become branch offices of our central bank, continuing to do research and data analysis, while leaving policy making to Washington”.

Infine, dovrebbe essere ripensato anche l’organismo di governo della politica monetaria, il Federal Open Market Committee (anch’esso ritoccato da Roosevelt), che oggi conta 19 membri, di cui 12 con diritto di voto. L’Autore suggerisce di limitare questi ultimi a cinque, pena la minore efficacia dei processi decisionali – come emerge da alcune ricerche condotte sul tema.

Tutto questo processo dovrebbe contribuire alla semplificazione del sistema della Fed: “[w]e should return to the unfinished business of the New Deal and simplify the Fed’s governance so that the public knows who is making the decisions at this singularly important institution”.

La proposta – che riassume i contenuti di un volume in corso di pubblicazione, “The Power and Independence of the Federal Reserve” – tende dunque ad aumentare il controllo politico, considerate essenziale per la bontà del funzionamento dell’istituzione: “politics should control the appointment of central bankers, but must not dictate the terms of monetary policy”. La selezione dei membri gioca a favore di questo controllo: anche il Dodd-Frank Act del 2010 ha inciso sulla governance, ma in modo non ancora soddisfacente, in quanto “[t]he process of picking the regional presidents is still too opaque and undemocratic without any appreciable offsetting benefit”.

Considerando la storia economica degli Stati Uniti, passati da un’economia agricola a una industriale, occorre scardinare antiche e desuete forme della struttura bancaria (“putting private bankers alongside public appointees to formulate monetary and financial policy made sense. It no longer does”), progredendo verso una riorganizzazione istituzionale che promuova il controllo e l’accountability.

L’interesse del tema supera i confini nordamericani: i problemi evidenziati, di caratura nettamente pubblicistica, di ordine strutturale e di sostanza intimamente politica, potrebbero essere uno stimolo a una seria discussione delle istituzioni bancarie anche in ambito europeo.

Il dibattito è di rilievo generale, e note e recenti vicende rafforzano la necessità di affrontare, rinnovandolo, il rapporto tra organi di rappresentanza e organismi tecnici, nel nome di una tutela effettiva degli interessi economici dei cittadini. In questo senso, non è solo la governance della Banca centrale, ma anche il suo stesso ruolo e il rapporto con il decisore politico (in un momento delicatissimo come quello attuale), a sollecitare una riflessione che potrebbe arricchirsi, a fini comparatistici e non meramente imitativi, dell’esperienza d’oltreoceano.

 

 

 

Bruno Carotti, 31 luglio 2015

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