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Le privatizzazioni in UK

 

Dopo la nazionalizzazione degli anni della crisi il Governo inglese vara un ambizioso progetto di dismissione delle partecipazioni statali   Risale a qualche settimana fa l’articolo di Varoufakis sulle tecniche di privatizzazione in Grecia. Oggi si vuole segnalare un altro importante processo di privatizzazione, questa volta riguardante il Regno Unito. Trattasi del processo di risanamento del bilancio pubblico portato avanti dal governo Cameron attraverso un programma di  vendita delle partecipazioni statali realizzato dal Ministro del Tesoro, George Osborne.  Secondo il programma, entro i primi mesi del 2016, si venderanno asset sul mercato per un valore di circa 32 miliardi di sterline (pari a circa 45 miliardi di euro). La portata particolarmente significativa del progetto in questione ha comportato, da subito, il paragone con i record raggiunti nel 1991 dal governo della Thatcher che,  riducendo le partecipazioni in British Telecom, National Power e nelle compagnie elettriche regionali, ha raccolto circa 20 miliardi di sterline (calcolati secondo i valori attuali). Il Financial Times, a cui si deve tale paragone, ritiene che oggi il governo inglese possa “battere” tale record. Finora si è proceduto alla vendita della quota detenuta in Eurostar, di un ulteriore 1% del capitale di Lloyds Banking Group, riducendo la partecipazione totale al 13,99%, mentre nei prossimi mesi saranno  in vendita la quota pubblica di Royal Mail, valutata 1,5 miliardi di sterline, la quota in Channel 4, nel Met Office, nella agenzia cartografica nazionale e in altre aziende o istituti partecipati. Particolarmente significativo è il progetto di privatizzazione di parte della quota detenuta dallo Stato nella Royal Bank of Scotland: la consistenza della stessa (pari a circa 32 miliardi di sterline) deriva dal salvataggio della banca effettuato nel corso della crisi economico – finanziaria. E difatti, proprio la crisi ha costituito una sorta di catalizzatore dei processi di nazionalizzazione: in tale periodo, molti Stati hanno assunto il ruolo di Stato – interventista, utilizzando fondi pubblici per procedere al salvataggio di gruppi bancari e finanziari (si pensi a Lehman Brothers negli USA e, in generale, a tutti i casi di “too big to fail”) ma anche di altre società, diverse da quelle bancarie o finanziarie, aventi una rilevanza strategica per l’economia dei paesi (si pensi a Chrysler e General Motor negli Stati Uniti, all’Ilva in Italia,ecc.). Proprio perché ha nazionalizzato, il Regno Unito che, in generale, vanta una tradizione poco incline all’intervento diretto dello Stato nell’economia,  può ora  nuovamente privatizzare: da questo punto di vista esso può rappresentare un esempio virtuoso anche per altri Paesi dell’Europa continentale per i quali sembra esser tornata “la voglia dello Stato azionista”. Il chiaro e deciso intento del governo inglese nel senso della privatizzazione emerge in particolar modo  con riguardo  alla Royal Bank: la cessione risulterà in perdita rispetto al costo del salvataggio, ma per il governo inglese è molto più  importante il risanamento  del bilancio, pur nella consapevolezza che gli investimenti effettuati nella Banca nel periodo di emergenza non verranno recuperati. Un ultimo aspetto degno di nota del progetto inglese è quello relativo al fatto che il Ministero del Tesoro assumerà il ruolo di “key – player”: difatti, tutti gli asset che andranno venduti dovranno necessariamente esser trasferiti allo stesso (per esempio Shareholder executive, gestore  delle partecipazioni in Channel 4, Royal Mint e Urenco, verrà trasferita dal Commercio appunto al Tesoro). In ciò il progetto si differenzia rispetto a quello di Varoufakis, che invece prevedeva la gestione del patrimonio pubblico affidata ad un ente privato, o a quello di Guarino, che contemplava la creazione di un veicolo societario partecipato, solo in una fase iniziale, dallo Stato, per poi aprirsi successivamente a investitori istituzionali.

 

 

Benedetta Barman
7 agosto 2015

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