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L’ambito di applicazione del T.U.S.P. e il requisito della “finalità istituzionale” nelle società lattiero-casearie: la legge n.119/2019 e il parere negativo dell’AGCM


8/11/2019

CAROLINA QUAGLIATA


La Legge n. 119 del 1°ottobre 2019, pubblicata in G.U. n. 246 del 19 ottobre 2019 ed entrata in vigore il 3 novembre 2019 (“Modifica all’articolo 4 del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al d.lgs.
19 agosto 2016, n. 175, concernente le partecipazioni in società operanti nel
settore lattiero-caseario”) ha inserito all’articolo 4 del Testo Unico in materia di Società a Partecipazione Pubblica (d.lgs. n. 175/2016, di seguito “TUSP”) il comma 9-quater, che ne ha ridotto l’ambito di applicazione.
Ai sensi del nuovo comma, infatti, il divieto generale stabilito dall’articolo 4, comma 1 (che impedisce alle amministrazioni pubbliche di costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni o servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, nonché di acquisire o mantenere partecipazioni in tali società) non si applica “alla costituzione né all’acquisizione o al mantenimento di partecipazioni, da parte delle amministrazioni pubbliche, in società aventi per oggetto sociale prevalente la produzione, il trattamento, la lavorazione e l’immissione in commercio del latte, comunque trattato, e dei prodotti lattiero-caseari”. Il testo iniziale riguardava tutti i prodotti alimentari in genere, ma nel corso dell’esame presso la Camera dei deputati l’esenzione è stata circoscritta ai prodotti lattiero-caseari.
La peculiarità di tali prodotti, che ha giustificato l’approvazione del Disegno di Legge del Senatore Molinari (Lega), risiede nell’asserito nesso tra le centrali del latte e le richieste “finalità istituzionali” dell’ente partecipante.
Alle centrali del latte è infatti riconosciuta una “funzione di garanzia” della distribuzione del prodotto alla comunità locale, e ne viene riconosciuto il lavoro svolto sulla qualità e sicurezza alimentare. Il loro ruolo è dunque ritenuto “funzionale all’esercizio della funzione pubblica” e quindi di interesse generale, poiché a tutela della salute dei consumatori e dell’ambiente, e per questo meritevole di essere preservato. Esse vengono inoltre considerate “portatrici di innovazione e sensibilità verso le nuove tecnologie e l’evoluzione delle esigenze alimentari”.


Ad oggi, le centrali del latte partecipate da soggetti pubblici (in particolare da enti locali) sono quelle di: Brescia, di Alessandria e Asti, di Roma, e la Centrale del latte d’Italia (S.p.A. quotata, che ha unito le centrali del latte di Torino, Firenze, Pistoia e Livorno). Inoltre, 21 società cooperative svolgono attività nel settore lattiero-caseario, con partecipazioni anche minime da parte degli enti locali di riferimento. L’iniziativa legislativa si è fondata “sull’importante rilievo economico e sociale della filiera lattiero-casearia in Italia (“l’industria italiana produce 1 miliardo di kg di formaggi, di cui 460 milioni di kg di prodotto a denominazione di origine protetta e 3 miliardi di litri di latte alimentare, 1,8 miliardi di vasetti di yogurt e 160 milioni di kg di burro”) nonché sul fatto che i consumatori italiani sono sempre più alla ricerca di un prodotto genuino e legato al territorio, sottolineando che, con un fatturato di 15 miliardi di euro e un indotto che dà lavoro ad oltre centomila persone, il settore della trasformazione del latte è strategico per il comparto agroalimentare italiano e rappresenta un importante bacino di ricchezza e di occupazione per i territori locali.”.
In senso contrario si era tuttavia espressa l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (“AGCM”), che in un Parere consultivo (AS1609) del 30 luglio 2019 riteneva ingiustificata l’esigenza di partecipazione pubblica in tali società.
In particolare si sottolineava la necessità di specificare, tra i criteri di acquisizione e gestione delle partecipazioni pubbliche, i c.d. vincoli di scopo pubblico e i vincoli di attività della società partecipata. Facendo un passo indietro, bisogna ricordare che la capacità della Pubblica Amministrazione di assumere o mantenere partecipazioni sociali non può essere assimilata a quella del privato, ma deve essere ritenuta speciale, ovvero
ammessa nei limiti in cui la legge lo consente espressamente. Ciò si deduce chiaramente alla luce delle spinte alla razionalizzazione delle partecipazioni pubbliche, volta a tutelare e promuovere la concorrenza e il mercato, ad evitare l’uso distorto del modello societario, e a ridurre la spesa pubblica. Tali principi ispirano l’intero impianto del Testo Unico, e sono ribaditi al comma 2 dell’articolo 1.
Di conseguenza, per costituire o partecipare a società, l’amministrazione pubblica deve rispettare dei limiti, riguardanti sia le procedure attraverso le quali si deve formare la volontà di assumere o mantenere tali partecipazioni (artt. 5 e 8 TUSP), sia il tipo sociale, lo scopo e l’attività di tali società.
In particolare si deve trattare esclusivamente di:

  • società, anche consortili, costituite in forma di società per azioni o di società
    a responsabilità limitata, anche in forma cooperativa (art. 3 co. 1 TUSP)
    (vincolo tipologico);
  • società aventi ad oggetto la produzione di beni e servizi strettamente
    necessari al perseguimento di finalità istituzionali (art. 4 co. 1 TUSP)
    (vincolo di scopo);
  • società preposte allo svolgimento di specifiche attività (art. 4 co. 2 TUSP)
    (vincolo di attività).
    L’articolo 4 comma 1 del TUSP fissa, come anticipato, un divieto generale: le amministrazioni pubbliche non possono costituire, nè direttamente nè indirettamente, società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, e non possono acquisire nè mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. Analizzando il c.d. vincolo di scopo, bisogna notare che già nella legge finanziaria del 2008 (L. 244/2007) era stato introdotto un vincolo di stretta necessità tra l’attività sociale e il perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente pubblico. Tale principio è stato mantenuto nel TUSP, e comporta oggi una valutazione necessariamente casistica, da effettuare sulle attività previste al
    comma 2, essendo stata eliminata la predeterminazione di attività considerate intrinsecamente funzionali agli interessi pubblici.
    Il comma 2 (c.d. vincolo di attività), elenca le finalità perseguibili dalle amministrazioni pubbliche mediante la partecipazione a società (nei limiti di cui al comma 1), ovvero:
  • la produzione di un servizio di interesse generale;
  • la progettazione e realizzazione di un’opera pubblica sulla base di un accordo
    di programma fra amministrazioni pubbliche;
  • la realizzazione e gestione di un’opera pubblica o l’organizzazione e gestione
    di un servizio di interesse generale attraverso un contratto di partenariato
    con un imprenditore privato selezionato con determinate procedure;
  • l’autoproduzione di beni o servizi strumentali ad enti pubblici;
  • i servizi di committenza a supporto di enti senza scopo di lucro e di
    amministrazioni aggiudicatrici.
    Il TUSP prevede poi una serie di deroghe al divieto generale (riguardanti, ad esempio, la valorizzazione di beni immobili già appartenenti all’amministrazione; società aventi ad oggetto sociale prevalente la produzione di energia da fonti rinnovabili; start-up universitarie o degli enti di ricerca) nonché, nell’Allegato A, un elenco di società escluse dal divieto, e stabilisce che, per nuove deroghe, è necessario uno specifico atto normativo. L’articolo 4 comma 9 attribuisce al Presidente del Consiglio dei Ministri (e ai Presidenti di Regione e Province autonome) la facoltà di deliberare l’esclusione (totale o parziale) dell’applicazione delle disposizioni suddette a singole società a partecipazione pubblica, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze o dell’organo di vertice dell’amministrazione partecipante. Il decreto, da trasmettere alle Camere, deve essere motivato, con riferimento:
  • alla misura e qualità della partecipazione pubblica;
  • agli interessi pubblici ad essa connessi;
  • al tipo di attività svolta.
    Questa procedura era stata attivata per la Centrale del Latte di Brescia dal
    Sindaco di Brescia in qualità di organo di vertice dell’amministrazione partecipante, e si era conclusa con l’emanazione del DPCM 31 ottobre 2017, che ha esentato la società dal rispetto dei divieti suddetti e dal conseguente obbligo di dismissioni. La motivazione del decreto includeva tutti gli aspetti sopracitati: il Comune di Brescia detiene il 51,353% del capitale sociale, con il restante 48,65% frammentato tra decine di soci; la società risulta in crescita ed ha una buona struttura patrimoniale e finanziaria; e la partecipazione è funzionale all’esercizio dei controlli qualitativi, su tutte le attività, prodotti e fasi della lavorazione. È stato inoltre riconosciuto alla società il ruolo di presidio in ambito sanitario e di controllo degli alimenti. L’Autorità Antitrust, ricordando questo precedente nel Parere in esame (AS1609), evidenziava tuttavia il rischio che, all’approvazione del Disegno di Legge sulle società lattiero-casearie, seguissero ulteriori iniziative legislative relative a settori produttivi contigui, che avrebbero sottratto ulteriormente al Testo Unico altre categorie di partecipazioni pubbliche. L’AGCM riteneva poi ingiustificata e sproporzionata, seppur ai fini di tutela della salute e di controllo degli alimenti, l’esclusione dall’applicazione delle norme di cui all’articolo 4 delle partecipazioni pubbliche mantenute, acquisite e persino costituite nelle imprese attive nel settore lattiero-caseario: da un lato, perché vi sono specifiche autorità preposte a queste funzioni; dall’altro, perché “la partecipazione pubblica in dette società, operanti in mercati tipicamente presidiati dalle regole di libera concorrenza, non appare strettamente necessaria per il perseguimento delle finalità istituzionali degli enti partecipanti”. Infatti, il vincolo di scopo di cui all’articolo 4 è stato superato grazie al riconoscimento alle centrali del latte un ruolo di interesse generale, ma lo stesso servizio di interesse generale (come definito all’articolo 2 del TUSP) “non può prescindere dalla stretta necessarietà dello stesso per il perseguimento delle finalità istituzionali. Pertanto il mantenimento della partecipazione va correlato a una concreta prospettiva di sviluppo dell’attività svolta, tale da realizzare l’effettivo soddisfacimento di un interesse generale”. Al contempo, come fatto notare dalla Corte dei Conti, “l’assimilazione delle società operanti nel settore lattiero-caseario a quelle che svolgono servizi di interesse generale tende a rendere omogenee situazioni differenti, accomunando i servizi pubblici tradizionalmente intesi con attività produttive rese da operatori economici privati”. Si tratta infatti di un ambito solitamente estraneo alle finalità istituzionali, che dovrebbe sottostare alle regole di mercato e della concorrenza, per favorire l’offerta ai consumatori di prodotti di qualità e prezzo competitivi. Fondamentale per l’implementazione delle regole di concorrenza è, d’altronde, il principio di parità di trattamento tra imprese pubbliche e private, che comporta la “separazione tra attività di impresa e attività ‘protetta’ da privilegi pubblici”, per evitare che l’impresa possa utilizzare, in un mercato in cui compete con altri operatori economici, i vantaggi che ricava dall’essere considerata una pubblica amministrazione o dal godere di agevolazioni. Ciononostante, l’iter legislativo del Disegno di Legge ha avuto esito positivo: l’esame presso il Senato, nonostante l’astensione di alcuni (tra cui si ricorda chi menzionava la necessità di una distinzione tra centrali del latte virtuose, comequella di Brescia, e quelle con criticità, come quella di Roma), ha sostanzialmente condiviso la ratio alla base della proposta legislativa; ha inoltre rilevato continuità con la normativa previgente, che “prevedeva, in situazioni puntuali nelle quali gli enti pubblici dimostrassero la strategicità della partecipazione in determinate società e la coerenza con la missione della società, il mantenimento di tali partecipazioni”; ed ha condiviso la “restituzione alle pubbliche amministrazioni delle funzioni di garanzia e controllo sulla filieralattiero-casearia”, in quanto “la partecipazione pubblica alle attività del settore favorisce lo sviluppo della produzione primaria”, è garanzia del prezzo corrisposto al produttore, il cui margine di guadagno è spesso ridotto, e “favorisce la gestione e lo sviluppo di strutture pubbliche utilizzate per la formazione, la ricerca e l’innovazione nel settore”. Infine, si ricorda che –pur non essendo stato inserito esplicitamente nel comma 9-quater l’inciso “nel rispetto della normativa UE” (come proposto da un parere non ostativo nel corso dell’esame presso la Camera) – la normativa europea non vieta la partecipazione pubblica in imprese private, salvo la necessità di non
  • falsare la concorrenza (configurando ad esempio aiuti di Stato) e il rispetto di
  • norme come le regole di trasparenza nei flussi finanziari dagli enti pubblici alle
  • imprese partecipate (Direttiva 2006/111/CE).
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