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Pubblico, privato e ogni sfumatura di grigio verso un nuovo approccio al tema delle società partecipate

di Alessandro Mura

09/06/16

Le società a partecipazione pubblica costituiscono da anni il tema centrale di dibattiti mai sopiti. Le origini di tali controversie risiedono da un lato nella prossimità di questo istituto con questioni di carattere squisitamente economico-politico (quali quelli riguardanti l’opportunità stessa dell’intervento pubblico nell’economia); dall’altro nella confusione che tali entità generano all’interno della tradizionale e manichea alternativa tra natura pubblica e natura privata delle persone giuridiche. E su questo secondo problema cercheremo di soffermarci.

  1. La crisi dell’attuale inquadramento delle società partecipate

Il giurista manifesta l’attitudine a semplificare ciò che affronta secondo lo schema per genera et species; e quando non comprende un fenomeno la prima operazione che tenta è quella della categorizzazione. Il numero di categorie cui la scienza giuridica ha dato vita nel tentativo di inquadrare le società partecipate è il sintomo eloquente di quanto complesso sia questo fenomeno: si parla di società a partecipazione statale e a partecipazione locale; di società direttamente controllate e società sottoposte a una gestione indiretta; di società controllate (giuridicamente o di fatto, secondo l’art. 2359 c.c.) e società meramente partecipate; di società sottoposte alla disciplina di diritto comune e società di diritto singolare. La distinzione che tuttavia appare più rilevante riguarda il tipo di attività che questi enti formalmente commerciali svolgono: in alcuni casi tale scopo sociale è riconducibile al novero delle normali attività di impresa e si assiste, pertanto, a una perfetta congruenza tra sostanza e forma; in altri casi, invece, dietro una formale veste societaria si celano funzioni riconducibili a quelle tradizionalmente amministrative, e si realizza una discrasia difficilmente sanabile; in altri casi all’interno dello stesso corpo societario sono ravvisabili attività d’impresa e attività latu sensu amministrative.

Il caos di questa ricostruzione lascia aperte tre vie all’operatore pratico: effettuare una attenta disamina dei settori di attività, sottoponendo con un approccio funzionale ciascuna area a un differente regime regolatorio, talvolta pubblicistico, altre volte privatistico; affidarsi “a scatola chiusa” alla definizione legale dell’ente, che è e resta quella di una società commerciale, e applicare tutte e soltanto le regole del diritto comune; riqualificare tutta la società e trasformarla in un’amministrazione pubblica in senso sostanziale applicando tutte le discipline di diritto speciale di cui sarebbe destinatario un comune organo della P.A.. Sappiamo che quest’ultima è stata la strada intrapresa dalla giurisprudenza amministrativa, in contrasto con la volontà del legislatore di sottrarre tali enti al regime di “lacci pubblici” per renderli agili e sofisticati operatori sui mercati.

Le conseguenze negative di questo approccio generalizzante sono molteplici, e non tutte si arrestano a un piano economico. Si verifica sicuramente un automatico aumento di costi in capo alla società: costi che non vengono sopportati dai concorrenti privati e non sono necessariamente giustificati in termini di ragionevolezza. Ma si hanno riflessi fondamentali, ad esempio, anche nel campo penale: la giurisprudenza di legittimità, infatti, pur affermando espressamente che le nuove qualifiche codicistiche di pubblico ufficiale (art. 357 c.p.) e incaricato di pubblico servizio (358 c.p.) siano da intendersi secondo un approccio funzionale (riassumibile nella massima «si è pubblici agenti per ciò che si fa, non per ciò che si è») sfrutta la riqualificazione dell’ente di appartenenza realizzata dalla giurisprudenza amministrativa per derivarne l’assunzione in capo al membro della società di una delle qualifiche, ed assoggettare quindi il reo alle rigorose pene previste nel c.d. statuto penale della Pubblica Amministrazione; ciò senza indagare la natura della singola funzione svolta e, quindi, violando due volte la voluntas legis.

  1. Per un approccio interpretativo ai problemi delle società partecipate

Il quadro tracciato rende palesi le difficoltà degli operatori nel rapportarsi con queste particolari figure. Una riqualificazione è infatti necessaria per evitare che il semplice cambiamento di veste giuridica conduca alla disapplicazione di fondamentali istituti del diritto amministrativo (quali, ad esempio, la disciplina sull’assegnazione dei contratti pubblici, sulla trasparenza, sulla lotta alla corruzione); e tale esigenza è manifestata dal dato empirico che le Corti di tutto il mondo, sia nazionali (si veda, per esempio, il caso inglese Fish Legal and Emily Shirley v. Information Commissioner) che sovranazionali (celebri le pronunce della seconda metà degli anni Novanta della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in merito alla nozione di organismo di diritto pubblico), ricorrono a criteri funzionali per correggere le storture di un’applicazione automatica della qualifica formale. Gli effetti collaterali di questo approccio, soprattutto se generalizzato, sono però ormai conosciuti.

La ricerca di un punto di equilibrio soddisfacente può muovere dall’assunto che tali società sono disciplinate da regole di diritto comune e che una loro riqualificazione è possibile solo qualora nell’esperimento di determinate attività siano presenti caratteri assimilabili a quelli di una Pubblica Amministrazione; con l’avvertenza che per modificare il regime giuridico di queste figure non sono sufficienti vaghi indici giurisprudenziali, quali la discendenza per privatizzazione da enti pubblici o la rilevanza per il pubblico del servizio prestato (fenomeno, quest’ultimo, che può verificarsi anche per le imprese private), ma è necessario dimostrare che la mancata applicazione di una normativa di carattere pubblico si sostanzi nell’elusione di un modello voluto dal legislatore, in un utilizzo della legge contro sé stessa.

Tale riqualificazione, come già implicitamente sottolineato, può essere operata solo limitatamente a discipline determinate.

Il quadro normativo risultante è quindi di carattere misto, come mista può essere immaginata (se proprio non si riesce a resistere alla tentazione di dare una definizione) la natura di queste entità: né del tutto pubbliche, né interamente private, ma sottoposte a un insieme di norme volta per volte determinate dall’interprete.

Il quadro così delineato, pur rispettoso di regole interpretative e volontà della legge, solleva una immediata obiezione: la mancata conoscibilità a priori della disciplina applicabile comporta un costo inaccettabile, quello derivante dall’incertezza del diritto applicabile.

  1. Verso un nuovo corso nella disciplina delle società partecipate

L’unico soggetto che può porre rimedio all’incertezza in un ordinamento di civil law è il legislatore. Gli attuali sforzi per uniformare la disciplina delle società a partecipazione pubblica sono quindi da salutare con favore, così come il tentativo di ridurre l’estensione di una galassia che conta oggi circa 8000 soggetti tagliando enti inutili e fonte esclusiva di sprechi e minimizzando l’intervento pubblico diretto in economia in favore di modelli regolatori.

L’opera di uniformazione non può tuttavia rimanere isolata; all’interno della categoria rientrano infatti, come detto, sia soggetti che svolgono attività di impresa sia para-amministrazioni e non sembra sufficiente introdurre una disciplina comune senza far rilevare le profonde differenze che caratterizzano le due figure. Ciò sia per donare una generale chiarezza, sia nel rispetto dei doveri di pubblicità che caratterizzano le società commerciali; società che, una volta iscritte nei Registri in qualità di imprese, appaiono e si presumono essere tali agli occhi del pubblico.

Le amministrazioni centrali e locali possono al riguardo procedere a differenziare tali corpi in gruppi basati sul tipo di funzioni svolte. Le società commerciali, esercitanti attività d’impresa e caratterizzate dallo scopo di lucro, potranno mantenere la loro forma nel rispetto dei canoni del codice civile: ad esse si applicheranno soltanto le disposizioni di diritto comune senza necessità di integrazioni operative, in quanto l’unico elemento che le differenzia dalle società tra privati è la natura del socio, che non inficia la natura dell’ente. Gli enti che svolgono attività amministrative (quali quelle di regolazione, di controllo, di mera attuazione della volontà di organi pubblici, ma anche di fornitura di servizi in regime di riserva), caratterizzate dalla finalità di soddisfare interessi pubblici individuati dalla P.A., potrebbero invece essere trasformati in una nuova tipologia di enti pubblici: a questi soggetti, che il legislatore potrà plasmare secondo regole comuni improntate sul modello imprenditoriale, si applicheranno anche le discipline pubblicistiche che saranno ritenute necessarie a garantirne un corretto funzionamento. Le società, infine, che svolgono entrambi i tipi di attività dovrebbero essere quanto più possibile indirizzate all’interno di uno dei due modelli indicati, e sottoposte alle conseguenti regolazioni.

La proposta avanzata, al di là dei suoi contenuti, vuole mettere in evidenza che non si possono delegare all’interprete questioni sistematiche in grado di modificare in modo determinante scelte legislative o amministrative: il giudice, in quanto soggetto alla legge, non può fornire risposte generali ed astratte; e se è vero che gli approcci generalizzanti portati avanti dalle corti italiane non sono da condividere per la troppa semplicità con le quali portano a riqualificazioni ontologiche, bisogna ammettere che l’eccesso di complicatezza del panorama normativo rende necessaria la ricerca di linearità e che i giudici cercano di soddisfare tale esigenza fornendo criteri che, anche se non convincono nei contenuti, risultano facili da applicare e quindi suggestivi.

Il compito di riordinare, quanto possibile, il caos spetta inevitabilmente al legislatore e alle amministrazioni: al primo, che dovrà sgombrare il campo da equivoci garantendo quella certezza nell’applicazione delle normative che oggi è troppo spesso rimessa a fonti secondarie o alla pratica; alle seconde, che devono riordinare la loro forme di intervento e ridurle ove possibile, ma soprattutto orientarle al perseguimento dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento.

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