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Uno sguardo sulla privatizzazione del carcere in italia

di GIUSEPPINA SEPE

20/03/2017

A soli quattro anni dalla sentenza Torreggiani[1], in Italia torna il rischio affollamento. Le novelle penitenziare[2] adottate a seguito del diktat della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo avevano fatto guadagnare al nostro paese un plauso per il miglioramento del sovraffollamento carcerario[3].

Tuttavia, secondo i dati del Ministero della Giustizia, dall’inizio del 2016 si è verificata un’inversione di tendenza per cui al 31 dicembre scorso i detenuti sono arrivati a 55.381, il 6% in più rispetto al 2015.

A ben vedere tali novelle, originate da una situazione percepita come eccezionale ed urgente, hanno svolto una mera funzione decongestionante quali surrogate dei provvedimenti clemenziali.

Nessun reale cambiamento di vedute quindi, nonostante nella citata sentenza, i giudici hanno rilevato come il sovraffollamento carcerario in Italia sia giunto a rappresentare un «problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano», e non invece un fenomeno episodico.

 

 

E’ allora il caso di chiedersi quale possa essere una strada capace di condurre, nel lungo periodo, alla vittoria di quella che è prima di tutto una battaglia di civiltà.

Da tempo, nel nostro come in altri ordinamenti, la crescita della demografia penitenziaria è il cavallo di Troia utilizzato per valutare la necessità del ricorso a privati in ambito penitenziario.

Rispetto ad un panorama internazionale che vede la presenza di fenomeni di privatizzazione carceraria estesi persino alla delicata funzione custodiale[4], in Italia l’organizzazione e gestione delle carceri costituisce una rilevante funzione pubblica.

In particolare, l’amministrazione penitenziaria rientra nella più ampia funzione dell’amministrazione della giustizia, a sua volta parte delle funzioni d’ordine. Quest’ultime esprimono di regola la sovranità dello Stato, per cui non sarebbe configurabile per l’esercizio di esse una concorrente competenza di autorità non facenti parte dell’apparato statale.

Per questa ragione, nel nostro Paese, se da un lato si riconosce che una gestione delle strutture penitenziarie assistita da capitali privati consente che la sovranità statale venga esercitata nella modalità più economica, efficace ed efficiente possibile, dall’altro la prassi dell’esternalizzazione in materia carceraria è molto limitata e circoscritta prevalentemente alla gestione di alcuni servizi strumentali (ad esempio, il vettovagliamento dei detenuti è affidato per lo più ad aziende private alle quali il servizio viene appaltato).

Ciò perché l’attuale legislazione impone la gestione pubblica delle carceri per ciò che riguarda la sicurezza e i programmi trattamentali. Più esattamente, le guardie, la direzione e gli operatori civili (educatori, assistenti sociali, psicologi) devono essere dipendenti del Ministero e quindi pubblici.

Tuttavia, un superamento dei limiti imposti dalla legge, si è verificato nel caso dell’ex Casa lavoro di Castelfranco Emilia (un’azienda agricola dipendente originariamente dal carcere di Rimini), trasformata nel 2005 – con un decreto del Ministro della Giustizia e sulla base di un progetto di ampliamento e trasformazione presentato nel 2001 al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal direttore dell’istituto – in casa di reclusione destinata alla custodia attenuata di detenuti tossicodipendenti.

Tale progetto venne realizzato in collaborazione con la comunità religiosa di San Patrignano, alla quale venne devoluta buona parte della gestione del nuovo istituto (escluse, ovviamente, le attività di direzione, controllo e vigilanza) sulla base di un’intesa di partnership con il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna.

Tuttavia, per quanto il nostro ordinamento consenta forme di collaborazione nel settore penitenziario da parte di organizzazioni o associazioni no-profit, il ruolo svolto dalla cooperativa della comunità di San Patrignano non è stato di semplice supporto ed è andato ben oltre le previsioni del protocollo d’intesa, arrivando ad investire anche attività di rieducazione.

 

Forme di partenariato pubblico-privato si stanno sperimentando, da tempo, anche in materia di edilizia penitenziaria.

Il 30 gennaio 2001, alla luce di un vasto programma predisposto dal Comitato paritetico di edilizia penitenziaria, l’allora ministro Piero Fassino dispose con decreto la dismissione di 21 carceri, incaricando il direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di promuovere le intese necessarie con le regioni o con gli enti locali interessati, per reperire le aree per la localizzazione dei nuovi istituti penitenziari da costruire in sostituzione di quelli che sarebbero stati dismessi.

Con la Legge Finanziaria del 2001[5], si consentì l’apertura a formule di finanziamento innovative con l’eventuale apporto di capitali privati quali la locazione immobiliare, il project financing e la vendita di beni immobili dismessi. Una scelta giustificata da esigenze di efficienza, risparmio e realizzazione di interventi in tempi rapidi.

Più di recente, con il Decreto Legge sulle liberalizzazioni del 24 gennaio 2012, n. 1, recante “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività” si reinserisce, all’articolo 43, lo strumento del “Project financing” per la costruzione di nuove carceri.

Un dispositivo economico, questo, che permette la partecipazione di grosse aziende, imprese private o Banche (quest’ultime solo se finanziano almeno il 20% del costo dell’investimento) alla progettazione, costruzione e infine gestione di nuovi penitenziari. Lo Stato, che partecipa con una percentuale al finanziamento, permette all’azienda che ha progettato e costruito il penitenziario di gestire la struttura in tutti i sui servizi e mansioni, escluso quello custodiale, per 20 anni, traendone i relativi profitti in quota parte.

Figlio di tale decreto è il carcere di Bolzano (la cui inaugurazione è slittata a giugno 2018), che rappresenta il primo caso di Project financing riferito all’edilizia carceraria.

 

Da qualche anno a questa parte, inoltre, si è inserito all’interno del mercato della gestione degli immigrati in Italia un nuovo ente gestore, l’azienda francese Gepsa, filiale di Cofely, società a sua volta appartenente alla multinazionale dell’energia Gdf-Suez.

Il suo acronimo rivela che essa in realtà è specializzata nella “gestione dei servizi ausiliari negli stabilimenti penitenziari” (manutenzione generale e degli impianti elettrici, idraulici e termici, pulizia dell’edificio, consulenze informatiche, cura degli spazi verdi, vitto, trasporto e lavanderia per i detenuti, ristorazione per il personale carcerario). Ed infatti nacque nel 1987 per poter sfruttare le possibilità che lo stato francese stava allora offrendo alle imprese private di partecipare al mercato della gestione e costruzione dei penitenziari d’Oltralpe. Un’apertura al privato legata alla decisione dello Stato francese di aumentare il numero dei posti disponibili nelle sue prigioni, cui Gepsa ha sicuramente fornito un contributo importante, tanto da esser considerata come uno dei partner principali dell’Amministrazione Penitenziaria.
L’ingresso ufficiale di Gepsa nel mondo della reclusione in Italia non è una novità di poco conto: attualmente gestisce due dei Centri di Identificazione ed Espulsione più grandi d’Italia, quelli di Torino e Roma (ed è presente in quasi tutte le gare d’appalto per la gestione degli altri Cie sparsi sul territorio nazionale) ed essendo un’azienda che si sta imponendo come leader nella gestione di strutture concentrazionarie, deve essere osservata per gli sviluppi cui potrebbe dare origine anche in ambito penitenziario.

 

In conclusione, gli strumenti cui si è accennato, stanno inserendo, a poco a poco, il capitale privato nella gestione e nella valorizzazione dell’investimento pubblico e mostrano un universo concentrazionario privato in piena ed energica espansione.

E’ evidente che, all’interno degli strumenti normativi vigenti, il business carcerario non possiede ancora, in Italia, lo spazio per essere praticato.

Ma è comunque lecito chiedersi se il fine ultimo di tali strumenti sia soltanto il perseguimento di obiettivi quali il contenimento della spesa e l’alleggerimento della macchina pubblica o se in realtà essi stiano spianando la strada ad una privatizzazione più ampia del sistema carcerario fino ad arrivare a coinvolgere le più antiche funzioni di ordine, avvicinando in tal modo il nostro Paese al modello anglosassone, con le drastiche conseguenze che tutti conosciamo.

 

[1] Corte Edu, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, ricc. nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10

Con decisione presa all’unanimità, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo  ha condannato  l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). Il caso, come è noto, riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. Con la stessa sentenza è stato indicato un tempo entro cui cambiare la situazione di fatto (un anno dal passaggio in giudicato della sentenza, poi prorogato di un altro anno).

[2] Nel 2013 sono stati adottati i decreti legge n. 78 (convertito con modificazioni nella legge n. 94 del 2013) ed il n. 146 (convertito con modificazioni nella legge n. 10 del 2014).

Nel 2014 sono stati adottati il decreto legge n. 92 (convertito con modificazioni nella legge 117 del 2014) e la legge n. 67 del 2014.

 

[3] Dal picco di oltre 68mila unità del giugno 2010, nell’ultimo semestre 2015 le presenze in carcere erano calate alle poco più di 52mila.

[4] Si pensi agli Stati Uniti (ma anche Regno Unito, Australia, Israele, Cile), dove il c.d. “correctional business” ha raggiunto un volume di affari e una struttura tali da far parlare di “multinazionale delle sbarre”. E’ evidente, infatti, che la logica di questa impresa economica è il profitto e ciò incide in misura rilevante sulla qualità del trattamento: è ormai del tutto abbandonato il modello del carcere come luogo di rieducazione e socializzazione e non solo di segregazione e limitazione della libertà.

 

[5] Legge n. 388/2000.

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