Lab-IP

La proposta riforma del sistema portuale, i PRP e il caso inglese.

Federico Spanicciati

Le legge 84/94 sul riordino della legislazione in materia portuale, rappresenta l’ultima legge sistematica di disciplina organica delle attività portuali e delle strutture amministrative preposte alla gestione dei porti.
Tra le previsioni di tale legge emergono anche quelle sulla definizione e redazione dei Piani Regolatori Portuali (PRP), che per la prima volta vengono considerati non più come semplici programmi di opere infrastrutturali, ma come articolati processi di pianificazione e gestione degli scali.
Il Governo Italiano ha espresso recentemente l’intenzione di intervenire incisivamente sulla legislazione che regola tali atti, approvando intanto nel luglio 2015 un Piano Strategico Nazionale della Portualità e della Logistica, che nel suo paragrafo 5.2.1 lettera C propone proprio un rafforzamento della valenza del Piano Regolatore del Sistema Portuale, in uno schema di superamento delle autorità portuali verso nuovi enti di area vasta, le Autorità di Sistema Portuale. In attesa della riforma complessiva della materia è dunque importante definire quale sia al momento la funzione di un PRP e il suo rapporto con gli altri atti di programmazione urbanistica, nonché vedere se in altri ordinamenti esistano analoghi atti di pianificazione settoriale.
Le zone portuali sono state considerate per molti decenni zone completamente separate dal resto delle città nelle quali quasi sempre si inserivano, vere e proprie cittadelle con funzioni particolari e necessitanti di una struttura, sia fisica che pianificatoria, indipendente da quella cittadina. In tal senso il resto del territorio urbano si vedeva esclusivamente come una zona di attraversamento delle infrastrutture necessarie all’efficienza dei trasporti, e come tale da considerarsi esclusivamente nell’ambito della redazione dei Piani Regolatori dei Trasporti, tipicamente regionali. Si assisteva così ad una bipartizione: da un lato vi era la programmazione urbanistica comunale, generalista e sottoposta alla teorica gerarchia dei piani prevista dalla legge 1150/42. Dall’altro lato vi erano i PRP, atti settoriali di programmazione infrastrutturale, che seppur sottoposti ai PRG di solito agivano in reciproco disinteresse, essendo collegati al più ai piani regolatori dei trasporti. Questa dinamica, che comunque si inserisce nel passaggio ormai consolidato dalle pianificazioni generali a quelle funzionali, portava evidenti malfunzionamenti alla gestione portuale.
Infatti i PRP, comunque sottoposti agli altri strumenti urbanistici, si trovavano a dover coesistere con dei PRG comunali normalmente conflittuali verso le esigenze dei porti, e a degli atti di pianificazione territoriale regionale che quando non erano del tutto assenti si mantenevano comunque in una preoccupante vaghezza. Con la riforma del ’94 i PRP diventano atti di programmazione urbanistica a tutti gli effetti, e si prevede che nella fase di approvazione ricevano il parere vincolante del comune, che dunque potrà verificarne la rispondenza ai propri strumenti urbanistici, decidendo, in caso di difformità, eventualmente quale strumento variare.
Peraltro a norma dell’articolo 5 della citata legge, sarebbero dovute essere le regioni gli enti di approvazione finale del PRP, esercitando così una funzione di raccordo e armonizzazione, invero raramente verificatasi.
Questa impostazione porta a maturare, nella dottrina e nelle stesse amministrazioni locali – valgano come esempi i nuovi PRP di Palermo o Livorno -, la convinzione come non sia più possibile considerare atti separati i PRG e i PRP. Gli stessi porti sono ormai considerati quali parti integranti del tessuto cittadino, spesso anche storico e turistico, occasione per il risanamento di ampie zone degradate e destinate a nuove funzioni urbane, e punti nevralgici di una rete intermodale estesa all’intero territorio circostante.
Eppure le motivazioni che portarono ad isolare i PRP come atti indipendenti di pianificazione permangono. Le tendenze legislative recenti si muovono verso una semplificazione della realizzazione delle opere considerate strategiche, questo anche tramite una pianificazione e una gestione individualizzata, specificatamente limitata alle opere stesse, e priva dunque di quelle lungaggini o malfunzionamenti propri degli atti a contenuto generale. In tal senso la legge 133/2014 risulta essere eloquente anche per ciò che riguarda i porti, che all’articolo 29 vengono sia inseriti in una progettualità unica di settore, sia avviati a procedure accelerate di realizzazione di progetti logistici, rimessi alla proposta delle sole autorità portuali. Invece il PRP come previsto dalla legge ’94 continua a sottostare ad un iter estremamente lungo, anche per i casi di semplice variante, mantiene una confusione concettuale tra la dimensione di una pianificazione generale e una particolareggiata, mantiene ancora un conflitto di fondo sulle aree comprese nell’ambito portuale ma che rivestono anche rilevanza urbana extra-portuale e infine non è sottoposto a chiare indicazioni di quali debbano esserne i contenuti e le linee guida. Insomma, l’intera normativa sulla quale la riforma attuale vorrebbe intervenire, subisce la discrasia tra pianificazione settoriale di un’area chiusa e pianificazione generale di un’area urbana con rilevanza cittadina, con conseguente indecisione se considerare tali pianificazioni atti snelli e con iter veloci e a competenze concentrate, o atti ampi di integrazione della strumentazione urbanistica normale, con conseguente sottomissione a ben altri impianti normativi e amministrativi, e a tutti i loro problemi storici. In tal senso l’unica previsione programmatoria del citato Piano Strategico Nazionale della Portualità, non contiene altro che un auspicio verso un rafforzamento della valenza del PRP, in cui però l’approvazione finale viene spostata al Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, con pareri, non si sa di quale natura, rilasciati da Comune e Regione interessata. Una legge che però volesse riformare tale strumento non potrà non decidere sui punti di criticità sopra evidenziati, e soprattutto non potrà non prendere una linea chiara sul tipo di pianificazione che si ricerca, se più orientata cioè al nuovo sistema della specializzazione urbanistica e della semplificazione delle realizzazioni infrastrutturali, o se ribadire la dimensione generalista di uno strumento che influisce su aree di rilevanza cittadina.
Ci si può dunque chiedere: questa scelta come è stata risolta da altri paesi europei? Analizziamo il caso del Regno Unito.
Innanzitutto anche il Regno Unito parte da un atto di pianificazione nazionale, il National Policy Statement, emanato con una legge del 2008, che definisce in senso ampio le strategie di pianificazione portuale, valide per tutti i soggetti con competenze urbanistiche, e cita i soggetti coinvolti nella programmazione. Questi sono la Marine Management Organisation, la Infrastructure Planning Commission, poi sostituito con il Localism act del 2011 dall’Ispettorato di pianificazione centrale, e il Governo, nei due organi del Segretario di Stato per le Infrastrutture e il Dipartimento per il Governo Locale.
Dobbiamo notare che di fatto non esiste un atto amministrativo quale un Piano Regolatore Portuale, bensì si mischiano in un sistema fluido l’unica pianificazione nazionale di rango legislativo, le pianificazioni generali delle autorità locali, quali previste dal Planning act del 2008, e le programmazioni e singole proposte di competenza delle singole autorità portuali.
In sostanza il sistema inglese vive una sovrapposizione tra pianificazione e attuazione a livello portuale: il livello nazionale stabilisce con un atto generale le linee guida e il quadro normativo generale per i nuovi sviluppi portuali. Le MMO decidono sulle proposte specifiche di sviluppo, oltre a redigere i Marine Plans, che pur essendo limitati alle aree strettamente di mare hanno ampie forme di interazione con i piani di terraferma, come confermato dal paragrafo 9 sezione 6 del Marine and Coastal Access act. Infine ci sono le IPC, ora ispettorato, che nell’ambito del governo territoriale generale hanno poteri di pianificazione su tutte le opere non strettamente portuali, quali ad esempio le vie di comunicazione in ingresso e uscita dal porto. In caso in cui però l’intervento sia su un porto che superi certe soglie di traffico, le competenze si considerano concentrate direttamente nel Ministero dei Trasporti inglese.
Così possiamo dire che quella diarchia italiana tra PRP e PRG, impostata su un criterio gerarchico, non esiste in una forma analoga nel Regno Unito, ma si declina come incontro paritario tra tipologie diverse di programmazioni e attuazioni, poste tutte sotto le stesse previsioni strategiche nazionali.
Le autorità portuali pianificano e attuano le opere interne ai porti, il Planning Inspectorate invece pianificherà le opere extra-portuali, in modo però da assicurare che la pianificazione locale rispetti gli standard e gli obiettivi nazionali in ambito portuale. Solo eccezionalmente potrà prendere decisioni diverse, e solo nei casi in cui le nuove pianificazioni infrastrutturali si identifichino come illegali, contrarie ad obblighi internazionali o altre norme statutarie delle singole autorità o, in maniera interessante, comportino dei costi avversi allo sviluppo territoriale superiori ai benefit possibili.
Parte delle questioni che si erano sottolineate rispetto al sistema italiano, nel sistema inglese paiono essere così risolte. In effetti non si riconosce il problema di un iter di pianificazione lungo o necessitante l’intervento di più autorità di pianificazione, o relative varianti, essendoci una divisione funzionale per tipo di opera. Il rischio potrebbe essere rappresentato dall’emersione di problemi di coordinamento tra pianificazioni portuali e marine e pianificazioni di area extra-portuali, ma questi sembrano risolversi con una concentrazione a livello centrale dei progetti che riguardano i grandi scali, e con la previsione di un atto di indirizzo e pianificazione generale valido per tutti i porti.
A ben vedere questo sistema potrebbe avvicinarsi a quello italiano, nel caso in cui i piani di coordinamento territoriale regionale fossero realmente approvati e aggiornati con efficienza, e i PRG e i PRP fossero a loro volta atti indipendenti ma coordinati per la dimensione infrastrutturale dal piano superiore regionale. In mancanza di questo raccordo, e sottomessi i PRP ai PRG e al successivo controllo regionale, ecco che la somiglianza col modello inglese si interrompe, ed emergono i problemi precedentemente illustrati.
È da questi problemi, e dalle soluzioni proposte in ordinamenti come quello inglese, che dovrà partire il legislatore nazionale, se vorrà innovare finalmente la materia, coniugando le necessità di pianificazione urbana dei comuni costieri anche su pezzi essenziali delle proprie città, e la progettazione settoriale di grandi opere strategiche, che devono avere tempi e gestioni molto più brevi e snelli degli attuali.

FacebooktwitterredditpinterestlinkedintumblrmailFacebooktwitterredditpinterestlinkedintumblrmail