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La terza via tracciata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in tema di risarcibilità del danno da mero ritardo

08/11/2021

A cura di Giuditta Russo

Il caso in esame riguarda la richiesta di risarcimento del danno da ritardo procedimentale asseritamente subito da un privato.  

Con la sentenza n. 243/2021, il CGARS, adito sulla questione, mette in luce l’esistenza di due orientamenti opposti in materia. 

Secondo un primo orientamento, risalente alla tesi propugnata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 7/2005, «il risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo, implica una valutazione concernente la spettanza del bene della vita e deve, quindi, essere subordinato, tra l’altro, anche alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole e, quindi, alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse e, di conseguenza, non è di per sé risarcibile il danno da mero ritardo». 

Secondo l’opposta interpretazione, sostenuta in via minoritaria dalla giurisprudenza, il danno da ritardo mero sarebbe sempre e comunque risarcibile. A detta del Collegio, la tesi appena indicata sarebbe peraltro in progressivo declino, non già in ragione di un generale ripensamento in ordine alla dannosità del ritardo procedimentale (che invece costituirebbe una certezza ormai acquisita), ma in virtù di una più attenta analisi del quadro normativo. L’art. 2-bis, l. n. 241/1990, e l’art. 30 c.p.a. impongono infatti di verificare anche la sussistenza del dolo o della colpa dell’Amministrazione. Inoltre, l’affermazione teorica secondo cui il mero ritardo produce un pregiudizio (in quanto il tempo costituisce di per sé un valore) non esaurisce né risolve – ed anzi pone, con sempre maggior insistenza – il problema della quantificazione del danno che, in assenza di automatismi liquidatori legali, deve pur essere ancorata a dati obiettivi e percepibili (quali certamente sono la colpa e/o il dolo del soggetto accusato di aver provocato il danno, oltreché la valutazione della condotta del soggetto asseritamente leso).

Fra i due orientamenti giurisprudenziali estremi, il Collegio dà quindi atto di un terzo orientamento che va progressivamente emergendo e a cui ritiene di doversi conformare, secondo cui l’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno da ritardo della p.a. non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell’adozione del provvedimento amministrativo favorevole. 

Deve invece fornirsi la prova, ex art. 2697 c.c., della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e quindi, in particolare, della presenza dei presupposti di carattere sia oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale) che soggettivo (dolo o colpa del danneggiante). Il mero superamento del termine fissato ex lege o per via regolamentare per la conclusione del procedimento costituisce pertanto indice oggettivo, ma non integra piena prova del danno. Il che esclude sia la soluzione dell’attribuzione automatica di un risarcimento, sia la soluzione diametralmente opposta, consistente nella necessità di fornire la prova (che talvolta potrebbe assumere i connotati di una sorta di probatio diabolica) della spettanza del bene della vita originariamente richiesto.

Fondamentale sul punto è l’assunto, recepito a pieno titolo dalla giurisprudenza maggioritaria, per cui la responsabilità da mero ritardo procedimentale della p.a. debba essere ricondotta nell’alveo della responsabilità extra-contrattuale. Tale affermazione sarebbe – a detta del Collegio – supportata da precisi riferimenti testuali emergenti dalle disposizioni vigenti in materia, quale l’art. 2-bis, l. n. 241/1990, che espressamente richiede la dimostrazione, da parte del soggetto che faccia valere la pretesa risarcitoria, della ingiustizia del danno subito «in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento» e l’art. 30, co. 4, c.p.a., che si riferisce anch’esso al danno che il ricorrente comprovi di aver subito a causa dell’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, riconducibile alla condotta dolosa o colposa dell’Amministrazione. 

Ad avviso del Collegio, non vi è dubbio che sia proprio la lettura dei testi normativi sopra indicati a condurre alla composizione dialettica fra le due tesi interpretative riportate. Appare evidente, infatti, che con le disposizioni richiamate il legislatore abbia inteso sottolineare che il danno ipotizzato dalla normativa in esame va costruito – escluso qualsiasi meccanismo di imputazione automatica di responsabilità – come evento, cioè come conseguenza eziologicamente connessa alla condotta amministrativa; il che significa che il mero fatto giuridico del decorso del tempo non può essere ritenuto intrinsecamente (id est: in sé e per sé) dannoso, dovendo essere di volta in volta provato da colui che si ritiene danneggiato che la violazione delle norme sulla conclusione del procedimento abbia cagionato qualche percepibile danno. 

Ciò significa, a ben guardare, non già – come sostengono i fautori della tesi più restrittiva – che possa essere risarcito esclusivamente il pregiudizio che si concreti nel (o che derivi dal) mancato conseguimento del cd. bene della vita al quale aspira il privato. Il privato può ben ottenere una sentenza che condanni l’Amministrazione al risarcimento per ritardo procedimentale, anche allegando e provando la sussistenza di un qualche danno che, seppur non coincidente con il mancato conseguimento del bene della vita richiesto, sia comunque obiettivamente percepibile ed eziologicamente connesso al ritardo, in termini – ad esempio – di perdita di chance o di compromissione di un interesse o diritto diversi da quello per il cui conseguimento si è avanzata l’istanza. 

Proprio in tal senso è da considerarsi illuminante la normativa dettata dal legislatore al co. 1-bis dell’art. 2-bis, l. n. 241/1990, che, non a caso, utilizza correttamente la nozione di indennizzo, anziché quella di risarcimento, allorquando intende riferirsi al ristoro da accordare automaticamente al cittadino a fronte del mero ritardo.

L’orientamento cui il Collegio ritiene di aderire, secondo cui il risarcimento è conseguibile purché si provi rigorosamente la connessione eziologica fra il mero ritardo ed un qualche danno, si risolve, dunque, non già in una riesumazione della primigenia ricostruzione dogmatica secondo cui il danno da ritardo si identificherebbe in toto con la lesione dell’interesse pretensivo, con la conseguenza che la concessione del risarcimento presupporrebbe – sempre e comunque – l’accertamento della spettanza del bene della vita richiesto, ma nella individuazione di un nuovo punto di equilibrio che risponda adeguatamente all’aspirazione ad un procedimento celere e che scongiuri, al tempo stesso, la costruzione di una anomala fattispecie di responsabilità obiettiva da mera condotta omissiva a contenuto più sanzionatorio che risarcitorio, incompatibile, per ciò stesso, con il paradigma aquiliano.

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