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Non sono ancora maturi i tempi per una revisione critica del regime consolidato di scrutinio della responsabilità della P.A.

A cura di Giuditta Russo

14/06/2021

Con sentenza non definitiva n.1136/2020, il CGARS – nell’ambito di un contenzioso in cui la ricorrente chiedeva la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti a causa del ritardo verificatosi nel rilascio delle autorizzazioni uniche per la realizzazione e la gestione di alcuni impianti fotovoltaici – dopo aver ritenuto ricorrenti gli elementi della fattispecie risarcitoria, ha  deferito all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato alcune questioni; in particolare viene chiesto se si configuri o meno una interruzione del nesso di causalità se, successivamente all’inerzia dell’Amministrazione di per sé foriera di ledere il solo bene tempo, si verifichi una sopravvenienza normativa che, impedendo al privato di realizzare il progetto al quale l’istanza era preordinata, determini la lesione dell’aspettativa sostanziale sottesa alla domanda presentata all’Amministrazione, che sarebbe stata comunque soddisfatta, nonostante l’intervenuta nuova disciplina, se l’Amministrazione avesse ottemperato per tempo; se il paradigma normativo cui ancorare la responsabilità dell’Amministrazione da provvedimento ovvero da inerzia e/o ritardo sia costituito dalla responsabilità contrattuale piuttosto che da quella aquiliana e, in caso di risposta nel senso della natura contrattuale della responsabilità, se la sopravvenienza normativa occorsa intervenga, all’interno della fattispecie risarcitoria, in punto di quantificazione del danno (1223 c.c.) o di prevedibilità del medesimo (1225 c.c.). Il giudice rimettente ha inoltre ritenuto maturi i tempi per una revisione critica del regime consolidato di scrutinio della responsabilità dell’Amministrazione, inquadrandola in termini contrattuali, sub specie di responsabilità da contatto sociale, proprio in virtù delle particolarità della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo e del rapporto di diritto pubblico. 

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza del 23 aprile 2021, n. 7, compiendo una accurata disamina del rapporto intercorrente tra Amministrazione e privato, respinge la tesi del CGARS, sostenendo la natura extra-contrattuale della responsabilità in cui incorre l’amministrazione per l’illegittimo esercizio delle sue funzioni, seppur con i necessari adattamenti richiesti dalla sua collocazione ordinamentale e dalla sua evoluzione storico-istituzionale, nonché di diritto positivo.  

Nel rapporto di diritto pubblico, infatti, non si configura a carico dell’Amministrazione – a detta del Supremo consesso – alcun vincolo obbligatorio analogo a quello di cui all’art. 1218 cc., ossia di esatta esecuzione della prestazione. Al contrario, la p.a. è titolare di un potere attribuito dalla legge da esercitarsi – nell’interesse pubblico – in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso individuati dalla giurisprudenza. Inoltre, le situazioni soggettive delle parti del rapporto di diritto pubblico – l’interesse legittimo del privato e il potere dell’amministrazione nell’esercizio della sua funzione – si caratterizzerebbero per il loro essere entrambe di tipo attivo. Infine – proprio in virtù dell’asimmetria che caratterizza, secondo il collegio, il rapporto tra privato e P.A. – è da escludere la riconducibilità della responsabilità della P.A. alla dibattuta nozione di “contatto sociale”, trovando invece questa applicazione solo nei rapporti che vedano le parti in posizione paritaria.  A differenza infatti del diritto soggettivo, connotato da una corrispondenza fra soggetto portatore dell’interesse e soggetto titolare dei poteri per soddisfarlo, nel rapporto di diritto pubblico gli interessi coinvolti nell’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione trovano solo in quest’ultima la possibilità di venire appagati. 

Depongono, secondo la Plenaria, a favore della riconducibilità del danno per lesione di interessi legittimi al modello della responsabilità per fatto illecito anche indici normativi di univoca portata testuale. In particolare, i co 2 e 4 dell’art. 30 c.p.a. che rispettivamente fanno riferimento al «danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria», e al «danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento» e, con specifico riguardo alle «conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento», l’art. 2-bis, co 1, l.n.241/1990 che prevede che i soggetti pubblici e privati vincolati ad agire secondo le regole del procedimento amministrativo siano tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.

Ricondotta la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere positivizzato nell’art. 2043 c.c., affinché essa possa di fatto configurarsi – prosegue il Collegio – è necessario che ricorrano il fatto illecito, l’elemento soggettivo, il danno ingiusto ed infine il nesso di causalità tra fatto e danno. 

Con riferimento all’elemento centrale dell’ingiustizia del danno, questo – diversamente da quanto richiesto in ambito contrattuale – deve essere dimostrato in giudizio, non essendo assorbito dalla violazione della regola contrattuale. Tale requisito poi, nel contesto del risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi implica che il risarcimento può essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato che quest’ultimo avrebbe avuto titolo a mantenere o ottenere. La condotta dell’Amministrazione lesiva del bene “tempo” ha quindi dignità di interesse risarcibile ex art 2-bis l.n.241/1990, se e nella misura in cui per effetto di tale lesione si sia prodotto un “danno ingiusto”. 

Deve poi – prosegue la Plenaria – escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità. Assume invece un ruolo centrale  – insieme al criterio dell’evitabilità previsto dall’art 1227, co 2, c.c. – il criterio della consequenzialità immediata e diretta ex art. 1223 c.c. che opera in funzione limitatrice delle conseguenze dannose risarcibili comprese nella serie causale originata dal fatto illecito, escludendo il risarcimento dei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi. Pertanto, sono risarcibili solo le conseguenze (rectius, i danni conseguenza) che siano immediatamente e direttamente riconducibili al fatto illecito. Sotto tale profilo, in merito al dubbio avanzato dal giudice sulla incidenza della sopravvenienza normativa nella sequenza causale produttiva del danno occorre stabilire se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui. 

Ad ogni modo, a detta del Collegio, il danno va liquidato secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, e non può equivalere a quanto l’impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l’attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione, dato che, nel caso in esame, l’utilità conseguibile con l’originaria istanza di autorizzazione deriverebbe non soltanto dal concreto auspicato svolgimento dell’attività conseguente all’autorizzazione, ma anche e soprattutto dai benefici conseguenti a una diversa e ulteriore previsione normativa, la cui applicazione è devoluta a una diversa amministrazione, competente a verificare la spettanza dei benefici nell’ambito di un differente procedimento.

La Plenaria conclude affermando la sussistenza di un rapporto di consequenzialità che consente di imputare al ritardo della p.a. il pregiudizio patrimoniale subito dalla ricorrente a causa del mancato accesso agli incentivi tariffari. La regolarità causale che lega i due eventi – ritardo dell’amministrazione nel provvedere e perdita degli incentivi – non può infatti ritenersi recisa dalla sopravvenienza normativa, per la decisiva considerazione che è stato proprio il ritardo a rendere la sopravvenienza rilevante, come fatto impeditivo per l’accesso agli incentivi tariffari altrimenti ottenibili. Lungi dal porsi come mera “occasione” del pregiudizio, il ritardo ne è stata dunque la causa. Con riferimento al periodo successivo alla sopravvenienza normativa, occorre invece stabilire se le erogazioni sarebbero comunque cessate per la sopravvenuta abrogazione della normativa sugli incentivi oppure se l’interessato avrebbe comunque avuto diritto a mantenere il regime agevolativo. Nel primo caso infatti il pregiudizio sarebbe riconducibile alla sopravvenienza legislativa e non più imputabile all’amministrazione. In ragione di ciò il giudice rimettente dovrà valutare ogni elemento rilevante nella presente fattispecie, tra cui il fatto che, rispetto al procedimento di autorizzazione a costruire e gestire impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili, l’accesso alle agevolazioni tariffarie è oggetto di un procedimento amministrativo ulteriore, regolato dai vari “conti energia” in ipotesi applicabili, onde la necessità di svolgere una prognosi sul possibile esito di quest’ultimo. 

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